Giorgia Bongiorno | Una luce «senza ristoro d’ombra». La poesia di Mariangela Gualtieri*

Nel dinamico e multiforme universo della poesia letta e detta, se guardiamo al panorama italiano contemporaneo, figura una voce par...





Nel dinamico e multiforme universo della poesia letta e detta, se guardiamo al panorama italiano contemporaneo, figura una voce particolarmente significativa proprio per il suo farsi veicolo di un’esperienza originariamente nata dalla dimensione performativa della scena. Le parole di Mariangela Gualtieri sono infatti, innanzitutto, «parole per il teatro».

Mariangela Gualtieri ha fondato il Teatro Valdoca con il regista Cesare Ronconi nel 1983 a Cesena, in Romagna. Del Teatro Valdoca è attrice e drammaturga ; da Cattura del soffio, nel 1996, intraprende anche una serie di recital di poesia (tra gli altri Sue lame suo miele nel 2001, Non splendore rock nel 2002 o Misterioso concerto nel 2006) nell’intento di « entrare nella musica dei [suoi] versi e tenere le parole nel loro stato di nascita »1. Questi reading di lettura e ascolto nel contempo, definiti da Gualtieri stessa come un « atto militante, […] millimetrico » che ha luogo nel « reame della sottigliezza »2, si costruiscono spesso in un dialogo con la musica.

Fin dai suoi primi spettacoli (il silenzioso Lo spazio della quiete, 1983, ripreso nell’aprile 2009 e il cui nuovo finale « prende il passo di poesia pensante »), il Teatro Valdoca occupa uno spazio importante nella scena teatrale d’avanguardia, attraverso una ricerca dapprima incentrata sul corpo e sulla visione, tra danza e performance, e poi sempre più profondamente in accordo con la poesia di Mariangela Gualtieri, che dal 1986, con Ruvido umano, fino alle recenti esperienze di Sacrificale : suono+vuoto+eco, passando per il Parsifal (1999), s’intreccia costantemente alla ricerca registica, l’accompagna, la sollecita o ne viene ispirata, creando così una stretta collaborazione tra accadimento scenico e avvento della parola.

La scrittura drammaturgica che attraversa gli spettacoli della compagnia assume una dimensione più autonoma o, in ogni caso, uno statuto nuovo attraverso la paruzione presso noti editori di poesia. La trilogia Antenata esce nel 1992 per Crocetti, con prefazione di Franco Loi ; nel 1995 I Quaderni del Battello Ebbro pubblicano Fuoco Centrale e Nei leoni e nei lupi due anni dopo. Più recentemente, la collana bianca di Einaudi ha pubblicato Fuoco Centrale e altre poesie per il teatro (2003) e Senza polvere senza peso (2006). A parte l’ultima raccolta, nata lontano dalla scena, tutte le altre scaturiscono dagli spettacoli della Valdoca.

Sempre a partire dagli anni ’90, quindi nel momento in cui la scrittura di Mariangela si dà una pagina prettamente poetica, comincia per la compagnia un lavoro sulla parola. Se gli attori della Valdoca si ritrovano spesso riuniti con giovani allievi della Scuola Nomade, sorta di fucina pedagogica da cui nascono i due noti spettacoli Fuoco Centrale e Ossicine, parallelamente l’azione teatrale entra in relazione con la parola nella Scuola di Poesia cui collaborano i maggiori poeti italiani. In questo doppio nodo sperimentale si fondono una volta per tutte sulla scena della Valdoca la danza, il canto, la parola, la musica dal vivo.

Non è certo possibile in poche pagine percorrere tutta la produzione della poetessa romagnola : i riferimenti principali messi in apertura alla nostra riflessione vogliono soprattutto sottolineare l’importanza, per leggere Mariangela Gualtieri, di uno sguardo attento al rapporto tra parola e teatro. È un’attenzione che dobbiamo a un connubio su cui si è già detto molto, ma che si rinnova ogni volta che viene tentato e in questo non è per nulla scontato. Ripercorrerne, di nuovo, gli intrecci, evidenti e nascosti, non può che predisporci alla lettura di una poesia per cui lo scrivere « dentro la scena »3 è un evento centrale e sintomatico.

La connessione con la scena segna la scrittura nel suo farsi. Che sia nella poesia stessa, dove la mano che scrive (seppur impersonale, come Nei leoni e nei lupi : « So che la scrivente mano non è mia »), e l’azione della scrittura appaiono qua e là, come in questo distico di Senza polvere senza peso : « A scrivere si fa così : si dorme un pochino / si resta in attesa con mani perfette vuote »4. Che sia nella riflessione attorno a uno spettacolo in fieri, dove si mostra anche la difficoltà della scrittura di fronte alla visione teatrale (come in Grande aperto, appassionante racconto della creazione di Paesaggio con fratello rotto i cui personaggi « sono nati prima delle parole che pronunciano » e quindi degli scarti e delle collisioni tra la « necessità violenta » della scena e il « compito inaggirabile »5 di portarle un testo), o dove si insiste sull’importanza di una discesa agli inferi della parola poetica prima che possa fondersi con l’apparizione dei corpi.

Nell’introduzione al suo Parsifal, prodotto dal festival di Santarcangelo dei Teatri, Mariangela Gualtieri parla di una «crepa del racconto», di un « buco » nella vicenda del protagonista che si fa punto di partenza e di riferimento dello spettacolo. È « in ciò che la storia non vuole e non può raccontare, che si prepara quella condizione di totale abbandono grazie alla quale, a volte, la comprensione si dilata e i sensi, come in un bagno di calce viva, prendono nuovo splendore »6.

È possibile che proprio nell’idea di abbandono si trovi un centro nevralgico che associa scena della Valdoca e parola poetica, come se fosse nel cortocircuito del dire, o nel suo misterioso passaggio dallo scritto all’orale, che il teatro, ma anche la poesia, discoprano la loro fonte primaria. È un dire paradossale, non lontano da quello indagato da Carmelo Bene per i suoi Canti Orfici di Dino Campana : « la lettura, lungi dalla pretesa noiosissima di riferire lo scritto del morto orale, la lettura, dico, è non più ricordare, è non-ricordo, oblio »7.

Nell’abbandono, nell’oblio, nell’accoglienza di un vuoto, si costruisce la regia di Cesare Ronconi8 ; sostando nelle crepe, lasciandosi furiosamente pervadere dal ritmo opaco della ripetizione, affidandosi a un’energia che afferma « per forza di levare », prende forma la poesia di Mariangela Gualtieri :


    Chiedo la forza del tirarsi indietro
    la forza d’ogni rinunciante, la forza
    d’ogni digiunante e vegliante
    la forza somma del non fare
    del non dire del non avere del non sapere.
    la forza del non, è quella che chiedo.
    Non non non : che parola splendida
    questo non.
    Sono che quasi viene da sé
    la mia acqua sigillo, mio fiotto
    di creatura. Venite in nascita dentro
    tutte cose dei mondi. Sbalordite questo
    tutto finito del corpo di un parto
    perenne, nel rinascere qui che io
    mi sostanzio andandomi via.
    Scomparsa di tutte le finte radici
    Le qualità finte, le bugie mammifere.
    È solstizio
    col giorno in allargatura di luce.9


I due imperativi («Venite», «Sbalordite») fanno impennare il secondo brano citato, prima che si vada a posare sull’adagio paradossale « mi sostanzio andandomi via », il quale articola esattamente lo stato doppio di rinuncia e giubilo da cui è composto lo sbalordimento. La poesia di Mariangela Gualtieri è ritmata da invocazioni, è ricca di appelli, di richiami, di attese10, e la sua ospitalità è assimilabile all’apertura (l’«allargatura») dello stupore, a sua volta simile a una postura quasi francescana d’umiltà, che vuole «parole gloriose da dire in ginocchio », che si fa trasparente, per aderire maggiormente alle cose, alle « tutte cose dei mondi»:

    Avessi l’arte di scomparire
    avessi l’arte di sminuirmi fino
    allo stuoino sulla porta d’entrata
    avessi quel largo di porta spalancata
    avessi quel largo delle pianure
    che accolgono il viandante
    senza lamentele.11

Quanto questa apertura dello stupore abbia a che fare con un’analoga apertura della « stupidità », con una vera e propria rivendicazione di idiozia (« Io cerco di essere più “idiota” che posso »12, afferma la poetessa in un’intervista), lo vedremo appunto analizzando da vicino l’idioma della poesia di Gualtieri che, ancor più delle tematiche, incarna il totale abbandono cercato.

Per l’intanto, consideriamo questo stato di accoglienza nell’atto stesso dello scrivere, per la scena e, appunto, dentro di essa. Mariangela si vuole amanuense, cosciente che la sua parola proviene da una fonte indistinta e passa oltre, in un flusso da cui l’autrice (e l’attrice) si lascia attraversare e che attraverserà a sua volta attori, (i « quasi fratelli », la « confraternita di ballerini savi »13 che la rendono possibile) e spettatori.

Si tratta, quindi, di una parola che da subito è pronunciata, detta (« Voglio le parole nella bocca / nella fontana / è zucchero è pensiero », recitano alcuni versi di Antenata). Che si pone come corpo ritmico in tensione verso un al di là della letteratura, dato che « il teatro è quel passo in più per cui un testo smette di essere letteratura e diventa qualcos’altro »14. Parola che è da dire, perché soltanto dicendola può avvenire sulla scena quel « qualcos’altro » che il Teatro Valdoca crea e ricrea nella sua ricerca ultra-ventennale. Come giustamente indica Valentina Valentini, questa ricerca « porta alla costruzione di mondi, alla fondazione e alla rifondazione di nuove tribù e alla celebrazione di riti necessari al loro costituirsi »15. I riti inaugurali della Valdoca possono rivisitare i miti, come per Parsifal piccolo (1998) e Parsifal (1999), o elaborare entità divine come per Chioma (2000). Sono riti fragili – « Il mio Graal l’ho ritrovato e perso / cento volte », leggiamo nel Monologo del Non so del Parsifal –, completamente immersi nella loro dizione, nell’istante della loro « sillabazione »16. « Io tento piano la sillabazione / di questo spavento / che forte mi chiama », scrive Gualtieri in Senza polvere senza peso. È importante sottolineare come per il Teatro Valdoca il mito debba essere contemporaneo al rito che lo rende reale, necessità che la poesia di Gualtieri segue sillabando, appunto, rendendo lettera, trasformando in entità fisica un sentimento come in questo caso la paura.

La parola detta mette al centro la voce, «vuole respiro, saliva, corpo, voce. Vuole […] sbavarsi in una bocca che porta bene impressa la terra in cui è nata, il pane che ha mangiato, il vino che ha bevuto. La poesia vuole diventare musica», leggiamo nella presentazione del reading Sue lame, suo miele. Uno degli esempi più interessanti della riflessione sulla voce è rappresentato da un altro luogo pratico in cui Valdoca fa coincidere teatro e poesia : i laboratori tenuti da Mariangela « Per leggere poesia al microfono». La parola poetica s’impasta al pane, è bagnata di vino, ma la sua antica (ed eucaristica) genuinità è raggiunta con una tecnica ben meno antica, secondo un’unione di vecchiaia e infanzia che la voce di Gualtieri rivendica spesso. Il microfono è uno « strumento meraviglioso » proprio nel suo « essere ciò che dai primordi del teatro veniva atteso e ricercato. Io credo che le grandi cattedrali, i grandi templi, venissero edificati soprattutto come rampe di lancio per la voce, per il suono […]. Ecco, il microfono ha in sé tutta quell’architettura »17. Ci sembra un’irruenza della parola che può ricordare Amelia Rosselli (« scrivendo a macchina posso per un poco seguire un pensiero forse più veloce della luce »18) su cui ritorneremo, e che si associa alla volontà accanita di «essere radiosonda / del niente che trasforma / il trascendente in cose»19.

L’attenzione alla tecnica ci rimanda anche nuovamente a una parola detta nel momento della scena, al rito hic et nunc, « fuoco centrale » o « brace cosmica » al centro dello spazio teatrale, di quell’oikos in cui trovare scampo temporaneamente, costituito dal patto della tribù regista-attori-spettatori che dà luogo alla creazione20. Si tratta di un patto mobile, perchè « Il fuoco centrale non è impalato nel nome » e il luogo del teatro e la poesia – che è a sua volta percepita dal regista come un «recinto preliminare»21 – è sempre da rinnovare. Quindi la tribù deve fare e saper fare, secondo quella trasmissione sapienziale corporea propria del teatro novecentesco.

Nella poesia di Mariangela l’importanza del corpo è innegabile, di un corpo quasi sempre al di là della norma, spinto ai suoi limiti inimmaginabili, martoriato, la cui manipolazione si ripercuote sul teatro e che dalla scena prende riverbero. Un corpo artaldiano, glorioso e crudele, che si autogenera contro la creazione. Un corpo scritto « volontairement bâclé, jeté sur la page comme un mépris des formes et des traits, / afin de mépriser l’idée prise et d’arriver à la faire tomber. / L’idée maladroite de dieu / volontairement mal dressée sur la page… »22, percorre la pagina di Gualtieri, da Ossicine a Parsifal fino agli ultimi testi:

    ma poi l’occhio è nato facendo colori
    coi nomi e tutta luce tutta luce quando
    ha toccato la sua natura calda e bagnata
    e ha rotto le acque di sotto nel grande
    schianto schizzavo su un tavolo di pietra
    sotto pareti con file di piastrelle e
    odore di una vecchia che tirando tirando aiutava.
    Mamma, ti ho fatta di colpo e grande
    fra le sponde di legno e lo specchio
    somigliante e piena di latte
    fatta parlante e pettinata
    e ho fatto anche me con piccoli
    pugni il dormire il crescere e tutte le parole.
    La mente si sbrana da sé, ingoia tutti i bocconi, si
    intoppa. Poi rincuccia e trema.
    Io non so […] se sono io la freccia
    di questo arco della schiena, se sono io
    arco e freccia, non so in quale mano
    non mano o zampa di Dio mi stanno
    torchiando, e sottoponendo al duro
    allenamento dei dolori terrestri.
    Un avamposto di pietra
    m’era cresciuto nel petto come
    dolore di un altro che s’infila
    e forma uncino e piccagli.23


Ma quel che si rivela ancora più interessante è la tortura corporea che subisce la lingua stessa, a volte maltrattata, a volte slogata, spesso semplicemente stonata, e in ogni caso plasmata nella sua materia fonetica, ritmica, nell’eco semantica. La creazione di una «musica storta»24, capace di dare, usando una formula dell’ultima sezione di Senza polvere senza peso, «ferite perfette» alla lingua poetica, ci sembra rappresentare il contributo precipuo di Mariangela Gualtieri al patrimonio del sapere teatrale contemporaneo.

Che cosa intendiamo per dare ferite perfette alla lingua ? A guardare la poetica scenica del Teatro della Valdoca, la voce è spesso impedita, la recitazione affronta volutamente una pronuncia difficoltosa, impervia. Si pensi alla declamazione impicciata direttamente nella bocca dell’oracolo di Paesaggio con fratello rotto o al personaggio del monologo « Caro ba’ » di Fuoco Centrale la cui parola è ostacolata dalle molte mani che gli tirano il volto. Diventa immediatamente evidente allo spettatore quanto queste pietre d’inciampo trovate o cercate nel cammino siano lì per spingere oltre e altrove la ricerca del dire, per allargare i suoi confini e penetrarne le nicchie nascoste. Parallelamente, anche i versi sono percorsi dall’idea di una voce che contiene terra (« È terra la sostanza del mio dire », « O scannamento, o unguento, o polvere / dentro le bocche, o terra nelle povere bocche »), « aculei », oppure un sasso (« Buttiamo via tutto il miele / mettiamo un sasso dentro la voce / e andiamo di là »25). Questo impedimento fa corpo nella lingua ; la voce, intralciata, non è più un semplice veicolo del processo di significazione della poesia, ma ne viene coinvolta e lo modifica, lo trasforma, attraverso il suo peso, la sua resistenza, il suo ritmo. Un inventario delle ferite perfette di questa poesia ci restituirebbe una specie di « grammatica dei poveri », per tornare nuovamente alla figura di Amelia Rosselli, di cui Mariangela Gualtieri è affezionata consorella.

Concretamente, la scrittura pratica una distorsione morfosintattica diffusa che sonda i risvolti della lingua, la tende o la frammenta, ne apre le funzioni principali, facendole perdere l’equilibrio e adattandola all’energia della pronuncia. Uno degli esempi più eclatanti, di derivazione probabilmente rosselliana, benchè presente nell’amato Rebora e anche nella lingua ermetica26, è la transitivizzazione dei verbi intransitivi e riflessivi, già apparsa nelle prime citazioni di questo articolo, basti pensare al chiasma « mi sostanzio andandomi via ». Si tratta di uno scarto estremamente frequente :« Non so […] se quel puerile sogno di fuga sia uno sgambetto / d’angelo, d’un buffone d’angelo che mi vuole inciampare » ; « e le stagioni / nella loro regola tengono caldo il seme / o lo scalmanano dentro le feste della gemma » ; « senti le voci, fiammeggiati » ; « Dormitemi. Sognatemi », esempio quest’ultimo di un contagio che opera anche a ritroso. Analogo stravolgimento riguarda l’impiego di sostantivi o di verbi spostati dal loro originario contesto grammaticale o semantico, come ad esempio per « Io non so la canzone / che spensiera » o « Deragliatemi da questo basso destino »27. Si coglierà ora l’azione energica delle « ferite perfette » : gli sbagli, i lapsus, le deviazioni, incidono la lingua e la allargano nello stesso tempo, la spingono a toccare la poesia, come suo stato di perfezione, dove l’idea di perfetto mostra la sua origine latina di portato a termine, compiuto fino in fondo, e quindi la connessione stretta tra il fare e la necessità.

È una sintassi slogata, che manipola la concordanza e la coniugazione, modifica l’ascolto con scarti inattesi, « Io sono morendo sono scrostando scrostando », o con cambiamenti bruschi di tempo e persona : « Nessun Messo, con sua verghetta veniva / a fare i repulisti e aprire tutto il mio nero / fino al fermaglio, fino a lucifero peloso che m’aggrappo / e scappo, faccio cordata fino al presepe »28.

Il congiuntivo, verbo scritto per eccellenza, è spesso storpiato in forme orali e dialettali, come nel monologo già ricordato di Fuoco Centrale : « Caro ba’, qui il sudario non ce l’hanno cavato / e tu vedesse come certe cose leggere sventano »29, o nella potentissima invettiva dell’umano troppo umano Macellaio di Paesaggio con Fratello Rotto. Il suo parlare popolare, rozzo e commovente – « che mi venghi che facci », « non ci voglio pregare, non ci voglio chiamare » – spinge verso il deragliamento totale della lingua – « non fare te trovare », « che / vegnisse / sbrancasse / accioccasse » – sino al finale fortissimo (amplificato dalla magistrale interpretazione dell’attore) : « Che ti venghi a salvare. Che venghi che venghi a te miracolare, / tuo bello Signore, tuo Dio di animale, tuo alto Fattore »30, dove la distorsione dettata dalla necessità di conservare la rima martellante, rende la chiusa lapidaria in memoria dei versi danteschi sulla porta infernale.

All’interno del disequilibrio sintattico, la parola, sia essa verbo o nome, prende un’importanza uguale alla sua profondità, al suo riverbero. Nella stessa ottica di Amelia Rosselli, che considerava «perfino “il” e “la” e “come” come “idee” e non meramente congiunzioni e precisazioni di un discorso esprimente una idea »31, le parole di Mariangela Gualtieri sono oggetti e idee, presenze e «allargature» di senso, e in questo fragili, esposte ad un rischio quasi ontologico:

    Il linguaggio non segnava vantaggi, ma si
    scolava via come buccia e sottosopra con feroce
    spolpo andava vuotamente più del
    sibilo su tutte le cose.
    Dal loro fondo liso le parole straccetto hanno
    un alito amaro, le parole fagotto, le
    care parole cadute giù.
    Ho parole stampelle, parole porte parole ali sotto i
    vestiti, parole strade e fiumi parole barche affilate. Ho
    solo parole e ali incerte – ali incerte e parole.
    io sono senza aggettivi, io sono senza predicati,
    io indebolisco la sintassi, io consumo le parole,
    io non ho parole pregnanti, io non ho parole
    cangianti, io non ho parole mutevoli,
    non ho parole perturbanti,
    io non ho abbastanza parole, le parole mi si
    consumano, io non ho parole che svelino, io non ho
    parole che puliscano, io non ho parole che riposino,
    io non ho mai parole abbastanza, mai abbastanza
    parole, mai abbastanza parole…

Le «ferite perfette» sono quindi altrettanti eventi della e nella parola, che si mette in scena, come nei brani appena letti, che prende sembianze di oggetto e di soggetto e compone una musica dislocata, sgangherata, in cui ogni elemento risuona come una vicenda o un accidente a se stante:

    Io sento il piangere delle cose.
    Sento il piangere di tutte le cose. Strazio
    sento delle.
    Pianto sento delle
    Io sento
    Delle. Io pianto pianto.
    Delle cose. Piangono. Sì.
    Fatica sento sì. Arrancatura. Sì.32

Appare ancor più evidente in questa lingua «storta» quanto essa sia lanciata verso la voce. Un esempio-limite è quello del personaggio della Ricamatrice nella seconda parte di Paesaggio con fratello rotto, che s’inserisce nella frenetica danza d’apertura dello spettacolo parlando, declamando, urlando parole incomprensibili, ma nonostante ciò, o meglio, proprio grazie a questa incomprensibilità, il suo discorso acquista una potenza massima. Creando una tensione all’interno della comprensione, articolando scenicamente l’oscuro attraverso la magnifica impersonificazione dell’attore, questo momento fa avvenire letteralmente la comprensione nella sua difficoltà primaria33.

La poesia di Mariangela si addensa attorno a questo tipo di situazioni estreme, perché l’incomprensibilità della sua lingua è quella di un « italiano scassato », attraversato dal dialetto come dalla letteratura più alta. La sua lingua-madre è in realtà una lingua-nonna, nata anche da un divieto imposto alle due nonne di parlare dialetto ai bambini della casa d’infanzia:


Ma in realtà le due nonne non sapevano parlare in italiano, e così cominciarono a parlare una lingua favolosa, piena di invenzioni linguistiche (di cui allora mi vergognavo molto), con parole arcaiche, espressioni dantesche, strafalcioni comicissimi. In Romagna, l’italiano parlato da chi solitamente parlava dialetto era sempre una lingua bizzarra, comica e potente. E questo italiano è quello che considero la mia lingua madre, perché in realtà la mia infanzia si è svolta soprattutto dentro questo idioma, fra questi suoni.34


L’idioma della poesia si estende infatti sino al dialetto, come per il Coro delle bestemmiatrici del Parsifal che prende in prestito la forza carnale del romagnolo per vibrare un’invettiva contro il « Signurin dla tera e de zil », chiamato « Strampalè » o anche « disàstar d’un Signor », che non sa « scorr gnenca una lengua di òman »35. La furia della maledizione è una delle possibili strutture del canto poetico-teatrale che prende spesso il ritmo di una preghiera, di un inno, di un’invocazione, e contribuisce a costituire la dimensione rituale del Teatro della Valdoca attraverso la litania incantatoria delle alliterazioni. È una forma che reca la traccia di un immaginario religioso potente, ma sparpagliato a volte in un energico e pletorico politeismo naturale (« Natura è fatta di voci incatenate dentro. / Venite, cari ospiti del mattino… »36), oppure integrato all’esclamazione poetica, trasformato in modo di dire, o anche oggetto di deformazioni di vario tipo. La pietà divina può essere capovolta e sbeffeggiata, come nel coro bestemmiatore : « E gnenca un segn l’ariva, un sblach ad signadura. / E però guèrda che mé a t cscorr, / mé ò pietà par tè che ta s’è fat »37. L’icona cristiana può venire frantumata, come nella poesia «Adesso nella mangiatoia c’è una bomba»38, probabilmente dedicata alla questione palestinese, che deforma la «sacra famiglia nanerottola» e mette in scena Madonnelle striminzite che tirano pietre, Maddalenine che saltano per aria nel supermercato, la mangiatoia rotta col bue azzoppato.

La parola poetica è appello quanto bestemmia, è orazione e al contempo il suo tentativo fallito, e in questa sua molteplice valenza è celebrazione plurale quanto plurale è il mondo che viene celebrato : « Ti celebro, mondo, mio sputo orbitante […] Lasciati dire, mondo ! / Sento che hai voglia di lasciarti dire »39. Questo avviene anche perché la poesia è interamente pervasa dalla lode alla natura, certo segno di un antico ordine perfetto di cui la poesia fa risuonare il nome (« poi canta il nome della terra, e sente / che tutto sprigiona e combacia »40), ma che è sempre, anche, innaturale, necessariamente buona e crudele allo stesso tempo, scandita da cicli di morte e rinascita. È una dialettica di fecondità e arsura che si declina in varie forme, tra cui quella frequente di un’adorazione – una « preghiera di un verde cupo » – rivolta all’« estasi vegetale » degli alberi, con cui « tendere all’insù », come nella già citata sezione Acqua rotta, percorsa dal motivo verticale dell’attesa dal cielo della pioggia, ma presente nelle raccolte precedenti, come visione della luce. C’è un inno perenne al corso naturale delle cose, che richiede un’unione con le cose stesse la quale è implacabile oltre che fatta di parole gloriose, secondo quella postura francescana evocata all’inizio della nostra lettura. Ecco infatti per intero la poesia dell’ultima sezione di Senza polvere senza peso cui abbiamo preso in prestito una formula paradossale :

    La candela dice :
    io mi consumo senza lamentele
    che pena, quel tuo chiedere durata
    la pianura dice :
    io accolgo, accolgo largamente
    e l’ago dice :
    perdermi mi piace, stare
    dimenticato nelle fessure, essere
    ignorato. E tu ?
    e il coltello dice
    io taglio i ponti
    divido un pezzo dall’intero
    so dare ferite perfette.
    E tu.


Tornando quindi al gesto doppio di giubilo e oblio già menzionato, pensiamo che la « parola luminosa »41 di Mariangela Gualtieri trovi proprio in questo suo farsi cosa e corpo una forza di affermazione che mantiene e ingloba la ferita, senza liquidarla. È « netta la ferita che porta », come per il corpo siamese « deforme e regale » dell’ultima parte di Paesaggio con fratello rotto. Il saper « dare ferite perfette » è appunto un sapere prettamente corporeo che dice la « rottura come segno di cesello ». Che esso venga praticato sulla scena o che sia percorso nella scrittura, vale in entrambi i casi il principio evocato da Cesare Ronconi del « lavoro fisico come demolitore della retorica »42. È in questo sapere fisico che si muove la poesia di Gualtieri nel suo ostinato annuncio : « Il paradosso della mia scrittura sta nel voler essere affermativa, nel voler caparbiamente trovare armonia in mezzo a questi cocci. Si è sempre a un centimetro dalla retorica e questo è il prezzo da pagare se si vuole tentare una scrittura esortativa. Non è un tentativo, in realtà, è piuttosto un destino : io non posso fare altro che questo »43. Questa affermazione non retorica sgorga perciò da una positività senza via di scampo, che brucia della luce di un incendio, di un fuoco centrale, definita in Canto di Ferro « senza ristoro d’ombra »44. Crediamo sia proprio in questo senso che Franco Loi, nella sua prefazione ad Antenata, primo libro della poetessa, evocasse un’« estasi della luce », indicando una poesia « tutta sollecitata dalla luce, persino nel fondo dell’orrore ».

Se il distico iniziale di una poesia dell’ultima raccolta di Mariangela, agli antipodi cronologici di Antenata, convoca questa costante sollecitazione, il luminoso invito continuo :« Spargiti piccola esca di luce, abbocchiamo / ai tuoi ami d’oro e siamo contenti », il titolo di uno spettacolo del 2003 uscito dalla Scuola di Teatro, Imparare è anche bruciare, ribadisce, all’opposto della « solfa nichilista », la scommessa totale di questo abbandono alla luce e «conduce dalla parte opposta, lì dove si brulica, si scoppia, si brucia, si ha la febbre alta, si desidera follemente una consegna d’amore. Lì dove c’è meraviglia e pietà. Lì dove c’è la voglia di pronunciare una parola salutare».


Intervista a Mariangela Gualtieri


Giorgia Bongiorno: Spesso evochi i tuoi «maestri immensi», Nisargadatta, Dante, e i poeti a cui guardi, come Rebora il cui Misterioso concerto ha prestato il nome a un vostro spettacolo del 2005. Il teatro della Valdoca ha dato vita dagli anni ’90 a un laboratorio di poesia cui hanno partecipato Mario Luzi, Franco Loi, Franco Fortini, Milo de Angelis, Maurizio Cucchi, Piero Bigongiari... Qual è il tuo rapporto con la parola altrui?

Mariangela Gualtieri: Ho cominciato a scrivere dopo avere incontrato i poeti della scuola, cioè gran parte dei più grandi poeti italiani di questo tempo. Credo che l’incontro con questi poeti vivi (insieme ad altri eventi che non è il caso qui di riportare) sia stato scatenante ; mi ha dato la misura della libertà che mi spetta, mi ha dato coraggio ed ha affinato la mia capacità di attenzione e di ascolto. La parola altrui è in alcuni casi amata da me fino allo smarrimento, fino alla perdita dei connotati, tanto da sentire risuonare in me versi di altri come fosse mia musica. A volte ho preso versi di Amelia Rosselli e li ho continuati. Ho scritto un poema quasi come rampa di lancio per pochi versi di Dylan Thomas, che infatti lo concludono. Sono stata abbellita, nutrita, cresciuta dalla parola altrui e sono infatti piena di riconoscenza fraterna. Mi sembra di fare ‘impresa’ coi poeti che amo, (prendo questa parola nel suo colore avventuroso e non certo aziendale), quasi fossero tutti «coetanei che mi hanno preceduta». Non maestri dunque, ma compagni di banda, bloccati in una adolescenza che non muta.

GB: Affermi in un convegno del 2005 di restare «sistematicamente delusa dalla lingua corrente» perché fallisce nel suo «tentativo di dire tutto». «Il mio dire è fallimentare [...] io appartengo all’essere e non lo so dire, non lo so dire», ascoltiamo in Fuoco Centrale. Mi sembra che questa delusione rappresenti un motore ontologico a tutte le imprese teatrali della Valdoca. Pensi che la tua scrittura nasca soprattutto da questo scarto, dall’esigenza di colmarlo, di rinominare le cose?

MG: È piuttosto misterioso il formarsi di una urgenza, di una vocazione, e quindi non saprei dire da cosa nasca la mia lingua. Da un lato, per quanto mi riguarda, c’è stata in principio e perdura tutt’ora una sorta di obbedienza a ordini che non si discutono, pena la perdita di equilibrio e di quiete : scrivere, oppure non avere pace in nessun posto. Ma forse la poesia, forse tutta l’arte nasce da questa insufficienza della lingua corrente, che finge di poter dire ciò di cui davvero ci importa, per poi lasciarci sempre inappagati, delusi. Certo è viva in me l’esigenza di rinominare le cose, di richiamare alla vita o alla vivezza le parole, strappandole dal luogo logoro in cui sono relegate. Le parole vengono vicine come entità vive, e la loro mortificazione nel lessico corrente, lo splendore e l’efficacia di cui vengono private, come imbozzolate da quello che Zanzotto chiama ‘progresso scorsoio’… ecco, tutto ciò risveglia in me quasi la voglia di battermi, e la donchisciottesca convinzione di farlo per tutti. Il Teatro Valdoca è il luogo in cui raccolgo le forze, in cui mi metto in attesa, e lo faccio insieme al suo regista, Cesare Ronconi, e a tanti altri che stimo ed amo. È il luogo in cui faccio la ricognizione di altri corpi e scrivo a partire da lì, da loro, da quelle facce e voci e corpi, e modi di attraversare la vita.

GB: Cesare Ronconi parla del luogo teatrale come di un « campo di forze segnato da innumerevoli impronte, orme, tracce, pensieri, passaggi, incontri, sbranamenti, amori, stupri». È una definizione che, a mio parere, potrebbe valere anche per la tua pagina. Quanto essa è spazio che si lascia attraversare liberamente da eventi e quanto invece è configurazione specifica attorno a un evento centrale?

MG: Nel campo di forze – Deleuze stesso parla dell’arte come captazione di forze, più che invenzione di forme – tutto si influenza reciprocamente, ed è entusiasmante accogliere, assistere al formarsi del verso, cercando di sostare nel massimo stato di all’erta ma anche nella massima passività. Nella precipitazione poetica coesistono obbedienza e libertà, ed è l’unico ambito della mia vita in cui ciò riesce ad accadere.

È vero però che in teatro vi sono dettami imposti dalla complessità della scrittura teatrale, e dunque capita a volte che mi venga dato un tema e che mi venga chiesto di scrivere per una precisa azione scenica. Io scrivo in genere durante le prove e questo segna la differenza. In questo caso la scrittura dei versi viene pilotata, e si è in bilico fra captazione di forze e invenzione, ascolto disarmato e volontà. Allora i versi si addensano su un tema, o su un personaggio, e la difficoltà sta proprio nel mantenere la fragranza e la carica di ciò che, con un certo tremore, chiamo ispirazione, con quanto viene imposto dalle contingenze, da quel presente.

Nel primo caso lo scrivere versi è pacificante e ne viene grande gioia. Nel secondo si piomba in una autocombustione che toglie il sonno e qualunque riposo, finché non si consegna quella pagina che la scena attende, e che viene accolta, divorata, mandata a memoria, immediatamente strappata alla scrittura e trasformata in suono, in respiro.

GB: Hai parlato della presenza di Amelia Rosselli, che ci racconti seduta sulle tue ginocchia mentre scrivi. Zanzotto dice che Amelia Rosselli «continua a mettere in causa il terreno stesso su cui l’atto poetico può costituirsi » e che nello stesso tempo « chiama a recitare insieme con lei». Questa contemporaneità paradossale è per me un punto in comune tra le vostre due voci, sei d’accordo?

MG: Mi fa molto piacere avere punti in comune con Amelia Rosselli e dunque sì, voglio essere d’accordo, sono volentieri d’accordo. « Io decidevo di esprimermi con maestà e furore », queste sue parole da Diario Ottuso, sono per me un motto ed una realtà. Mi sento mossa dal suo stesso furore, che non ha mai la pacata maestria letteraria di certi poeti, quella sorta di composta, cólta intimidazione. Ciò che è cólto fa da sella ad una furibonda cavalcata della lingua, e c’è scompostezza a volte, per troppa ebbrezza di parole, per troppo guardare le parole da vicino e dunque trovarsi in loro come in terra straniera. La sua cavalcata è irresistibile, essa chiama a correre con lei, e allo stesso tempo i suoi zoccoli battono quel terreno, come per scassarlo, o metterlo alla prova.


Université de Rouen


Notes

* Italies, Revue d’études italiennes, Université de Provence, n° 13, Poètes italiens d’aujourd’hui, 2009

1  Presentazione di Misterioso Concerto. Le citazioni che non hanno un riferimento in nota sono tratte dalle schede degli spettacoli presenti nel ricco sito ufficiale della compagnia www.teatrovaldoca.org dove è possibile consultare testi, immagini ed estratti sonori delle varie produzioni. Nel 2003 l’editore Rubbettino ha pubblicato un volume collettivo sul Teatro della Valdoca, dal titolo omonimo, estremamente utile per ripercorrere il lavoro della compagnia, curato da Emanuela Dellagiovanna e Soveria Mannelli, con scritti di Mariangela Gualtieri, Cesare Ronconi, Valentina Valentini, Emanuela Dellagiovanna, Oliviero Ponte di Pino, Luciana Rogozinski e Francesco Scarpelli.

2  Presentazione di Portare bene e Misterioso Concerto.

3  Mariangela Gualtieri, Paesaggio con fratello rotto, Roma, Luca Sossella editore, 2007, p. 21.

4  Mariangela Gualtieri, Senza polvere senza peso, Torino, Einaudi, 2006, p. 94.

5 Paesaggio con fratello rotto, cit., p. 87.

6  Mariangela Gualtieri, Fuoco Centrale e altre poesie per il teatro, Torino, Einaudi, 2003, p. 57 [corsivo nostro].

7  Dino Campana-Carmelo Bene, Canti Orfici, Milano, Bompiani, 2002.

8  Sono numerose le dichiarazioni di Ronconi in questo senso, Gualtieri stessa vede nel lavoro del regista una « rinuncia a un progetto, alla narrazione […] al dominio della realtà. […] In questa poetica tutto afferma che l’imprevedibile è un valore a cui mai si deve rinunciare, che il vuoto va accolto e amato… » [Mariangela Gualtieri, Un rito di guarigione, in Teatro valdoca, cit., p. 96].

9 Senza polvere senza peso, cit., p. 70 e p. 17.

10  « Vieni vicino senza le preghiere / strisciami la faccia / fammi cadere nei rovi incantati / dove le coccinelle ruotano. / Tu fatto nelle tenerezze, tu spiccato via, […] Vieni, vieni ! » ; « Casta e potente vieni ! / Per la vigna in ginocchio. Vieni / per la gioia del sangue che trema / lontano da te. Bambina tempestata d’acqua vieni. / Gentilmente vieni » [Fuoco centrale, cit., p. 28 e Senza polvere senza peso,cit., p. 77]. Spesso quest’attesa è rivolta al cielo, implora la pioggia : cfr. tutta la sezione Acqua rotta di Senza polvere senza peso, dall’apertura eliotiana su « agosto […] il mese più violento » e che porta la data dell’arido mese di agosto 2003, «potente e secco signore».

11  Ibidem, p. 25.

12  Da un’intervista di Daniela Rimei a Mariangela Gualtieri su www.centoteatri.it, 14 maggio 2005. Da leggere insieme all’epigrafe di Carmelo Bene che apre il Parsifal della Gualtieri : «...quanto ho perseguito nell’arte la beatissima grazia della stupidità!».

13 Senza polvere senza peso, cit., p. 113.

14  Daniela Rimei e Mariangela Gualtieri, op. cit. Il superamento dello scritto è un’idea che ritroviamo spesso nei propositi della poetessa che chiede al teatro : « uno strappo dalla letterarietà formicolante della pagina scritta » [Mariangela Gualtieri, « Parlare al cadavere », in Poesia Teatro Drammaturgia, a cura di G. Martini, «I Quaderni del Battello Ebbro», n° 12-13, giugno 1993].

15  Valentina Valentini, Mondi corpi materie. Teatri del secondo Novecento, Milano, Bruno Mondadori, 2007, p. 28. Significativo è del resto il titolo del testo di Gualtieri nel volume già citato edito da Rubbettino: «Un rito di guarigione». Nell’interesse verso i riti fondatori, Valdoca è affine alla sperimentazione della conterranea Socìetas Raffaello Sanzio. Senza voler esporre in questa sede similitudini e divergenze, è interessante trovare in una lettura del teatro dei Castellucci del francese Bruno Tackels un’affermazione analoga: «Tous les spectacles de la Socìetas rejouent le même enjeu. Faire recommencer le théâtre depuis ses balbutiements premiers. D’où l’attirance des Castellucci pour les grands textes fondateurs […]. La traversée de ces œuvres permet de comprendre comment faire commencer le monde. Non pour mimer son commencement, mais pour refaire à nouveaux frais et à partir de rien.» [Bruno Tackels, Les Castellucci, Ecrivains de plateau I, Besançon, Les Solitaires Intempestifs, 2005, p. 41].

16 Senza polvere senza peso, cit., p. 79.

17  Mariangela Gualtieri e Cesare Ronconi, «La lingua della terra», in AAVV, Poesia è teatro. La parola poetica in scena, Atti del Convegno Walkie-Talkie 2005, Milano, Il principe costante, 2007, p. 105.

18  Amelia Rosselli, Spazi metrici, in Le poesie, Milano, Garzanti, 1997, p. 342.

19 Senza polvere senza peso, cit., p. 64. La comunicazione poetica prende spesso la forma di una reciproca azione di captare e mandare segnali, fatta di « antenne che ricevono male » [Ibidem, p. 103], di poesie dalla forma di preghiera (« Preghiamo. / Ancora. / Ancora e ancora. / Sì. / Chi preghiamo. / Non so. / Non importa… ») che si trasformano in telegrammi o in trascrizioni telegrafiche ai « cari esattori celesti » : « Abbiamo già pagato tanto. / E non siamo migliori. Punto. / Fateci migliori. Punto.[…] Dove siete ? Avete voce ? / Intercettateci ancora » [Ibidem, p. 68] o ancora dell’idea di « invi[are] sonde » [Fuoco Centrale, cit., p. 49] o di « un’onda acustica » che « strappa lo spettatore alla terra ferma » [Paesaggio con fratello rotto, cit, p. 47].

20  Cf. Valentina Valentini, op. cit., p. 27.

21  Cesare Ronconi, La lingua della terra, cit., p. 106.

22  Antonin Artaud, Cahiers de Rodez (février-mars 1946), tome XX, Paris, Gallimard, p. 173.

23  Fuoco centrale, cit., pp. 33, 35, 63. Senza polvere senza peso, cit., p. 23.

24  Fuoco centrale, cit., p. 24.

25  Senza polvere senza peso, cit., pp. 25, 47, 64, 45.

26  Cfr. Gian Luigi Beccaria, «Dal Settecento al Novecento», in Luca Serianni e Pietro Trifone (a cura di), Storia della lingua italiana, volume primo : I luoghi della codificazione, Torino, Einaudi, p. 737.

27  Fuoco Centrale, cit., pp. 60, 31, 26 e Senza polvere senza peso, cit.,p. 66. Rimandiamo sulla questione anche all’articolo di Franco Nasi, «Ritmi e voci, intorno al Fuoco Centrale di Mariangela Gualtieri», in, Esperienze letterarie, XXIX, 2, 2004, pp. 99-119, la cui lettura ci ha confortato nelle ipotesi emesse. Nasi afferma giustamente che «Questo modo insolito di costruire i verbi tende a volte a mettere in azione, in movimento, oggetti che generalmente sono dominati dall’io, come se quegli oggetti avessero una vitalità autonoma che agisce sul soggetto» [p. 106]. Non possiamo che vedere in questa animazione della realtà poetica una conseguenza di quell’oblio già analizzato che porta il soggetto a lasciarsi attraversare dagli oggetti.

28  Senza polvere senza peso, cit.,pp. 91 e 109.

29  Fuoco Centrale, cit., p. 31.

30  Paesaggio con fratello rotto, cit.,pp. 27-29.

31  Amelia Rosselli, op. cit., p. 338.

32  Fuoco Centrale, cit., p. 65. Quando le parole sono oggetti, possono essere anche tracce, resti. Troviamo così arcaismi o citazioni di classici, come il Dante dell’Inferno [« ne lo stridio dei suoi pensieri» ; « Vieni. Togli il mal seme d’Adamo dallo scalino», Ibidem, pp. 63, 69] che convivono con espressioni popolari, creando contrasti molto riusciti.

33  «Siamo spaccati, ancora. Portiamo in noi la rottura come segno di cesello : questo pare balbettare o gridare la voce della ricamatrice cadaverica. Il ballo delle due femmine feconde, prende da lei un andamento ricamatorio, di ago furioso che tenta di ricucire una tela che si lacera sotto lo sguardo.», così scrive Mariangela Gualtieri nelle parole per il pubblico che introducono la seconda parte di Paesaggio, intitolata «Canto di ferro. Per una geisha, una ricamatrice, un ragazzo uccello, un ragazzo cane, due ballerine, un musicista, un maestro di cerimonie», op. cit., p. 49.

34  Mariangela Gualtieri, «La lingua della terra», cit., p. 109.

35  Fuoco Centrale, cit., p. 81. [« parlare neanche una lingua degli uomini»].

36 Senza polvere senza peso, cit., p. 60.

37  « E neanche un segno arriva, uno straccio di segnatura. / E però guarda che io ti parlo, / io ho pietà per te che ci hai fatti » [Fuoco Centrale, cit., p. 82]. E sempre per il capovolgimento di luoghi evangelici, l’incipit di una poesia dell’ultima raccolta, eco distorta del grido della croce : «“Tu , Dio, mi hai perduto / cercami finché posso / ancora essere trovato”» [Senza polvere senza peso, cit., p. 119].

38  Ibidem, p. 115.

39  Ibidem, p. 116. È forse lecito sentire un’eco dell’incipit di una famosa poesia de La Beltà di Andrea Zanzotto, «Mondo, sii, e buono», anch’essa omaggio che si conclude con la paradossale esortazione a Munchausen.

40  Ibidem, p. 105.

41  Così leggiamo nel preludio a Paesaggio con fratello rotto : « Ringrazio chiunque mi porti una parola luminosa. So quanto sia difficile farlo senza cadere in un’Arcadia di retorica e miele. Ma, mi pare, non si può più fare a meno di questa nominazione del bene. […] Sono stanca di un’arte che inscena tragedie senza catarsi […]. Ora l’impresa più alta e rischiosa è parlare della gioia… ». [Paesaggio con fratello rotto, cit., p. 9]

42  Cesare Ronconi, « La lingua della terra », cit., p. 107.

43  Fuoco centrale, cit., Note a Parsifal, p. 122.

44  Paesaggio con fratello rotto, cit., p. 47.

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