Roberto Vecchioni | Poesia e canzone. Intervista a Paolo Conte

Finalmente la canzone è Cultura s’intitolava un articolo di Roberto Vecchioni apparso sull’«Unità» del 23 ottobre ‘96 in cui si affermava, ...

Finalmente la canzone è Cultura s’intitolava un articolo di Roberto Vecchioni apparso sull’«Unità» del 23 ottobre ‘96 in cui si affermava, tra l’altro, che «la canzone è Cultura perché in questo Novecento di itinerari artistici scheggiati, confluenti e defluenti, trasversali, asfittici, rinascenti, lei la Canzone si pone come genere d’arte nuovo, non letteratura, non poesia, non musica semplicemente, ma l’insieme inscindibile di queste parti».



È d’accordo con questa disamina? Sempre in quell’articolo, Vecchioni affermava che «la canzone oggi (e sia ben chiaro tutta, anche la più elementare) colma un vuoto desolante di comunicazione lasciato dalla poesia e semplificava a livelli popolari e diretti la straordinaria solitudine semantica della musica colta». Secondo lei, la canzone è un po’ la “volgarizzazione” di ciò che viene elaborato in tradizioni “più nobili”? E la canzone occupa davvero il posto comunicativo lasciato dalla poesia? O non si tratta piuttosto di spazi comunicativi differenti che non possono prescindere dalla forme comunicative utilizzate?

La disamina riportata nelle domande è interessante e molto abilmente esposta. Contiene, tuttavia, un limite (limite, del resto, rintracciabile nell’avverbio “finalmente” di cui al titolo dell’articolo), cioè si riferisce al momento attuale in cui il presunto cedimento creativo e comunicativo di altre forme d’arte contigue alla canzone metterebbe quest’ultima in una posizione di favore, così pare, ma forse non è… La canzone “esiste” da tanto tempo ed ha in passato attraversato momenti di splendore (nella sostanza) di gran lunga superiore a quelli di oggi. Le grandi canzoni di una volta sono state “cultura” anche se quasi nessuno, allora, pretendeva che così fosse. Lo sono state, eccome, per le generazioni trascorse e lo sarebbero ancora per le generazioni contemporanee, se solo queste potessero e volessero accostarsi con naturalezza ai documenti del passato.

La tendenza attuale è volutamente, voluttuosamente “letteraria” (e in questi termini il fenomeno è particolarmente avvertito in Italia dove l’avventura dei “cantautori” è più recente): si nota una quantità sbalorditiva di scrittura che mostra la presunzione di essere “poetica” e anche “letteraria” e qualche volta si può dire che lo sia, ma i tentativi riusciti sono, a conti fatti, relativamente scarsi.

Ragioni di tutto questo

1.- sete di “poesia” nel mondo giovanile non soddisfatta con il vecchio supporto del libro (la poesia probabilmente ancora esiste, ma non resiste sulle pagine);

2.- pessima divulgazione presso la gente di musica “colta”. Per tornare all’articolo citato: non è questione di vuoto semantico, che c’è sempre stato, ma di assenza di educazione musicale (quanti pianoforti esistono nelle case olandesi e quanti, in meno, nelle case italiane, tanto per fare un esempio pratico);

3.- linguaggio estetico (musicale e interpretativo) risucchiato nell’imbuto delle fusions che porta a contaminazioni ed esplorazioni etniche del tutto illusorie), annullando ogni forma di classicità;

4.- mancanza, molto frequente, di vero pathos nell’ispirazione.

Risultato: si scrive tanto, talvolta anche bene, ma si “compone” malissimo. La canzone è, in sé, una forma perfetta, lo è sempre stata. Come tale, ha una durata ideale (da due a quattro minuti) e contiene – deve contenere – il senso della “pagina”, come tutte le vere forme musicali o, comunque, regolate dalla musica. Guai a sovraccaricarla, deve respirare, deve assumere la sua mise en scène col silenzio, le sorprese e la giusta dose di enfasi, deve vivere e “cantare”.

Le canzoni perfette dei bei tempi andati avevano un profumo, un veleno, un’arte che oggi – anche nella produzione americana – troviamo di rado. I grandi specialisti del passato (francesi, napoletani, cubani, americani ecc.) la sapevano molto lunga. Sì, “letterariamente” parlando, sfioravano sovente e disinvoltamente la banalità, ma si trattava di banalità (o povertà) di un vocabolario popolare, a volte popolano, ma sempre meglio della “volgarità” di gusto giornalistico o apologetico o professorale che riscontriamo oggi. Bastavano tre o quattro parole “speciali” per illuminare una canzone, per farle raccontare una storia, per darle fascino. Basterebbero anche oggi, se si vuole rispettare il respiro della pagina.

È, quindi, sbagliatissimo pretendere che una canzone sia obbligata a contenere esplicitamente poesia e letteratura. In verità la vera canzone contiene “teatro” e, soprattutto nel caso di quella americana, contiene “cinema”. Teatro e cinema: sono questi i fondali della canzone e del suo universo. La canzone è una forma d’arte “in movimento”: lo stesso fenomeno dei “cantautori”, i quali per definizione testimoniano direttamente (come interpreti) quello che hanno scritto (come autori), spiega quanto di spettacolare vi sia contenuto.

Quali poeti legge e che cosa apprezza in loro? Le capita di scrivere ispirato da reminiscenze letterarie oppure, mentre sta scrivendo, si innestano in lei ricordi di letture o espressioni di qualche autore?

Ho letto sempre con molto disordine. Mi rimane una generica predilezione per i lirici greci, antichi e moderni. Eventuali reminiscenze letterarie entrano talvolta in qualche canzone durante la composizione del testo, mai prima; del resto non mi do mai un argomento a priori.

È vero che si sta confrontando musicalmente con la poesia di Montale? Come giudica questo autore e che cosa sta emergendo dal confronto con la sua poesia? I suoi testi partono da tracce musicali oppure da parole che prescindono dalla musica? Le capita di “appoggiarsi” nella fase di stesura di un testo a strumenti metrici (controllo del ritmo con particolari versi, uso della rima ecc.) prescindendo dalla musica?

Su richiesta della provincia di Genova (che ha voluto pubblicare un CD ROM dedicato a Montale, comprendendovi anche dodici poesie scelte da un team di letterati) ho composto una raccolta di brani di vario genere e durata per un contributo musicale al progetto. Queste composizioni non sono destinate a sostenere alcuna lettura delle poesie (per mia espressa richiesta non devono interferire con i ritmi delle poesie stesse, ne verrebbe fuori un insostenibile pastiche) ma, tutt’al più possono essere usate come background ad una lettura muta, visiva, e basta. È, quindi, da parte mia, una “interpretazione” dell’universo di Montale in piena libertà. Ho cercato di fissare, stilisticamente, in varie forme, il “novecentismo” del poeta e un po’ del suo mondo quotidiano.

Scrivo sempre prima la musica, poi, più faticosamente, i testi, cercando di farli “somigliare” alla musica il più possibile. A lavoro ultimato, mi auguro che il risultato di divida fifty-fifty tra musica e parole.

Quello del poeta, oggi, è un “mestiere invisibile”, poiché la poesia non ha un pubblico. Il cantante invece può contare su una platea, il suo ruolo è socialmente visibile… Nella sua esperienza, come vive il rapporto con il pubblico? E come entra il pubblico nella genesi dei suoi testi? Ci sembra che, per la canzone, un testo anche difficile possa, appoggiandosi alla musica, risultare di notevole impatto, mentre la “musica” della poesia, molto più sotterranea e ignota ai più, non può altrettanto…

Non ho mai tenuto conto di eventuali “preferenze” estetiche da parte del pubblico. Ho sempre coltivato insieme alla mia libertà anche la sua libertà. Per qualche ragione, comunque, il mio pubblico si è rivelato particolarmente “coltivato” e questo vale anche per il mio pubblico straniero costretto a stare al di là della barriera linguistica.


* Intervista realizzata in collaborazione con Antonio Auciello, apparsa su «Atelier», a. II, n.7, settembre 1997, pp. 4-6, con il titolo: Intervista a Paolo Conte: testo della poesia e testo della canzone.

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