Antonello Guerrera | Skármeta & Troisi. L'Amarcord dello scrittore cileno: «Così dopo il nostro unico incontro Massimo è diventato il mio angelo»
Nella sua villa di Santiago l'autore del «Postino di Neruda» ricorda l'artista napoletano. Ma parla anche del suo Paese, di p...
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Nella sua villa di Santiago l'autore del «Postino di Neruda» ricorda l'artista napoletano. Ma parla anche del suo Paese, di politica e d'amore
SANTIAGO DEL CILE - "Sí, Massimo. Él es mi angel". C'è un angelo nello studio dove Antonio Skármeta, uno dei massimi intellettuali sudamericani viventi, forgia e lima le sue opere. Beviamo il caffè in una preziosa capanna di legno e vetro, ricavata nel giardino della sua villa di Santiago del Cile, nella linda periferia di Las Condes. Dove vivono i ricchi e, sostiene qualcuno con disprezzo, "quelli di destra".
In questo studio, l'autore del "Postino di Neruda", che ha ispirato l'ultimo straordinario film di Massimo Troisi, continua a scrivere ogni giorno. Ma prima del computer, delle dense librerie e delle piante ricavate nel pavimento, esplorando la caverna creativa di Skármeta si incontra subito una foto. È Troisi, col cappello del Postino. L'"angelo", come lo chiama Skármeta. Di fianco, la locandina cinese del film. E da una pingue cartella sullo scaffale, una cascata di altri scatti di "Massimo". "Perché penso sempre a lui. Tutti i giorni". Come mai? "Mi manca molto. Ma so che mi è vicino". Ma gli parla anche? "No, va beh. Son mica matto!".
Oggi Skármeta ha 75 anni e deve buona parte del suo successo mondiale alla pellicola Oscar di Troisi. Ma quella dello scrittore cileno, che nel 2013 ha conquistato un'altra nomination con No di Pablo Larraín ispirato alla sua pièce El plebiscito (la consultazione popolare che nel 1988 spodestò il moloch Pinochet) e al romanzo I giorni dell'arcobaleno (Einaudi), non è misero ossequio.
Perché Skármeta nutre, ventidue anni dopo la sua scomparsa, una devozione nei confronti dell'indimenticato regista e attore napoletano. Così limpida che, quando ne parla, alza al cielo gli occhi lucidi e le mani polpose, come uno sciamano che gioca felice con i suoi spiriti. Questo nonostante Skármeta e Troisi si siano parlati una sola volta. "Ma non conta. Conta che Massimo realizzò un'opera incredibile. Mai avevo visto tanta anima, grazia, originalità, eroismo nel girare un film, nonostante stesse molto male. Fu il suo miracolo".
E quando fu quell'unica volta che vi siete visti?
Molti anni fa, nel 1993. Andai a casa sua, un'abitazione davvero graziosa, nel centro di Roma. Avrebbe iniziato a girare Il Postino a breve. Prima però ero dovuto andare dal produttore, Mario Cecchi Gori. Voleva parlare con me.
Perché?
Voleva che convincessi Massimo a non far morire Mario Ruoppolo alla fine del film, per farne un sequel. Comprensibile per un produttore. Ma Cecchi Gori non capiva che la morte è una grande forma d'arte.
E Troisi come reagì?
Ascoltò con attenzione. Ma non accettò. Anche il regista Radford mise il veto. Del resto, la salute di Massimo era già molto fragile e non era tempo di cambiamenti radicali. E poi Troisi volle raccontarmi a tutti i costi come sarebbe stato il protagonista del mio libro nel suo film.
Cosa le disse?
Mi chiese consigli per girare, su come trasformare il mio personaggio rispettandone l'anima. Mi colpì molto la sua sterminata cultura, cosa inusuale per un cineasta di commedie. Ma conversammo anche di altro. Di calcio, macchine, donne. Dell'amore.
Sul quale lei ha scritto molto.
Anche un romanzo lolitesco, "Match Ball" (Einaudi).
L'amore è una grave e permanente nostalgia della passione giovanile. E cioè quando si vuole tutto o niente, quando si prova l'emozione di vivere sempre su una nota più alta. Apprezzo l'amore maturo, il suo desiderio affettuoso. Ma non mi è sufficiente. Per fortuna ci sono i giovani protagonisti dei miei libri a ricordarmi il vero amore.
Ma lei quando ha capito di poter diventare uno scrittore?
Due volte. La prima è stata a una rappresentazione di Romeo e Giulietta di Shakespeare. Avevo 16 anni. A un certo punto Tebaldo, cugino di Giulietta, ferisce a morte Mercuzio che difende Romeo. Allora Mercuzio dice: "La ferita non è profonda come un pozzo, né larga come un portale di chiesa, ma basterà. Domani vi diranno che sono una tomba". L'etica di Mercuzio mi folgorò. Di fronte a quella ferita letale, che è la ferita della vita e dell'ingiustizia, lui risponde con metafore. In quel momento ho capito: il destino di uno scrittore è creare immagini per misurarsi con la morte.
E il secondo momento?
Fu quando dovevo scegliere l'università. Non sapevo cosa fare. Dissi a mio padre: papà, voglio fare lo scrittore. Ora si infuria, pensai.
E lui?
Mi abbracciò, invece. Non dimenticherò mai quel gesto così caldo e rassicurante.
Un'altra persona fondamentale per la sua carriera, il Nobel Pablo Neruda che lei conobbe, è stato riesumato per l'ennesima volta dalla tomba. Non si capisce se sia stato ucciso da Pinochet.
Sì, ma ora basta. Questo affronto al corpo di Pablo è molto triste.
Ma lei non vuole la verità?
Certo. Ma la verità ha anche dei limiti. A volte bisogna accettare la realtà. Arrendersi. Questo accanimento mi fa tanta pena.
Perché lei è rimasto in Cile mentre quasi tutti gli scrittori suoi connazionali, da Bolaño a Sepúlveda, vivono o hanno vissuto all'estero?
Inizialmente, tanti autori sono andati via a causa della dittatura. E l'estero ti dà molta più risonanza internazionale. Comunque, con la caduta di Pinochet, molti non sono tornati perché non erano d'accordo con la transizione "moderata" verso la democrazia, attraverso il plebiscito popolare che sconfisse il generale. Volevano recidere ogni legame con il passato fascista. Distruggere e ricostruire tutto, politicamente. Ideali ammirevoli. Però a volte non basta dire no.
Perchê?
Perché nella vita si vince non solo combattendo, ma anche negoziando col nemico. Così è successo in Cile, che ora è una democrazia molto solida. Poi certo, i movimenti, le idee del popolo sono fondamentali, a differenza di quelli dei social network, dove le tendenze cambiano da un giorno all'altro e tutto è così fragile e vanesio.
Certo, dire "nessun dialogo, bisogna cambiare tutto" è molto più seducente. Ma la vera democrazia ha bisogno costante di equilibrio, di una stabilizzazione ritmica tra i suoi protagonisti. È questa l'impresa che deve compiere ogni giorno, la democrazia.
La Repubblica.It