Paolo Divizia | Leonard Cohen e i cantautori italiani: I casi di Fabrizio De André e Francesco De Gregori
Vent’anni di Fascismo avevano impedito che in Italia la canzone, genere destinato anche a un largo pubblico, potesse occuparsi di argo...
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Vent’anni di Fascismo avevano impedito che in Italia la canzone, genere destinato anche a un largo pubblico, potesse occuparsi di argomenti seri e scomodi, e trasmettere dubbi e pessimismo (‘disfattismo’ secondo l’ideologia e il linguaggio di regime). L’Italia del dopoguerra, stretta fra il sogno/ ossessione di un boom che è solo economico e un moralismo di matrice cattolico-fascista, è fortemente arretrata anche in questo campo: se negli Stati Uniti c’era già stata l’esperienza del blues e dagli anni Trenta era attivo Woody Guthrie, che può considerarsi il precursore dei cantautori; e se in Francia si era sviluppata la scuola degli chansonnier, e già nella prima metà degli anni Cinquanta era emerso un grande cantautore quale George Brassens; in Italia, escludendo il pionieristico episodio dei Cantacronache (notevole per l’impegno sociale e politico, nonché per la collaborazioni di Italo Calvino e di Franco Fortini, che scrissero appositamente alcuni testi per il gruppo, ma artisticamente meno interessante), il fenomeno della canzone d’autore resterà sconosciuto fino agli anni Sessanta1.
È dunque naturale che i primi cantautori italiani, per colmare questo gap, guardino ai loro corrispettivi d’oltralpe come modelli, imitandone i temi e lo stile, e talvolta traducendone i brani come fa ad esempio Fabrizio De André con George Brassens, contribuendo così a farlo conoscere in Italia tramite le sue versioni, fedeli sia nel testo sia nella musica.
Ma gli anni Sessanta vedono il sorgere di nuovi fenomeni musicali provenienti dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra che mettono in ombra la produzione musicale francese. E i progressi tecnici (la possibilità di registrare il suono, pienamente sfruttata solo a partire da quest’epoca, e poi la comparsa dei primi nastri multitraccia) danno l’avvio a una rivoluzione paragonabile a quella che dal teatro ha portato alla nascita del cinema.
Così come il cinema non è la registrazione di un’opera teatrale, ma qualcosa di diverso che ha la possibilità di superare i limiti imposti dal palcoscenico, allo stesso modo la musica incisa – in assenza di una terminologia consolidata mi servo di questa espressione, «musica incisa», per far riferimento alla musica la cui pubblicazione consiste ab origine in una registrazione e non in una partitura scritta – non è, con le debite eccezioni (di solito segnalate dalla dicitura «live» o «dal vivo» e simili), la semplice registrazione di una performance dal vivo, ma il risultato di un montaggio di registrazioni effettuate in tempi diversi (overdubbing), e che talvolta risulta impossibile da eseguire dal vivo2. Ciò non toglie che di fianco alla registrazione il compositore possa scegliere di pubblicare anche la partitura e/o di presentare la propria composizione attraverso esecuzioni dal vivo sia prima sia dopo l’incisione sonora, talvolta con differenze marcate che possono mostrare un’evoluzione dell’opera. E qui non è fuori luogo accennare alla «coscienza mallaermiana» di cui parla Contini, coscienza dinamica che considera «la poesia nel suo fare, l’interpreta come un lavoro perennemente mobile e non finibile, di cui il poema storico [o il disco inciso, nel nostro caso] rappresenta una sezione possibile, a rigore gratuita, non necesariamente l’ultima». Tale concezione, sottolinea Contini, è però il punto di vista dell’artista, non del fruitore comune, che spesso percepisce l’opera d’arte come un oggetto fissato una volta per tutte3.
Sta di fatto comunque che, con la possibilità di registrare i suoni, anche la musica può ora essere fissata in una sua sezione, come mai era accaduto in precedenza. Questo cambiamento sostanziale – che mi pare non sia ancora stato apprezzato in tutta la sua portata se, mentre consideriamo il teatro e il cinema come due arti diverse, continuiamo a chiamare musica, ad esempio, sia quella composta da Bach sia quella composta e interpretata dai Beatles – ha trasformato la musica da «performing art» a ciò che si potrebbe definire «performed art», non più arte da mettere in scena come il teatro, ma arte già messa in scena e di cui si fruisce il prodotto fissato una volta per tutte come la letteratura scritta, la scultura, la pittura e il cinema4. Con una conseguenza importante: se per un lavoro di Bach qualsiasi esecuzione (pur tenendo conto delle differenze qualitative, e della maggiore o minore fedeltà rispetto a quella che pensiamo essere stata la volontà del compositore) si pone virtualmente a livello di parità con le altre, per una composizione dei Beatles ci sarà al contrario una performance originale registrata dal gruppo, mentre le eventuali interpretazioni di altri musicisti, al di là del loro valore artistico, saranno da considerare dei rifacimenti (cover).
È solo in questo nuovo clima, nel quale la figura dell’interprete si fonde con quella del compositore, che può nascere il concetto, e il termine, di «cantautore», anche se poi verrà di fatto limitato a un certo gruppo di autori-cantanti impegnati, la cui produzione risulta coerente sia per i temi trattati sia per lo stile (musicale e dei testi).
Ho citato i Beatles non a caso, perché è con loro che – proseguendo su una linea iniziata pochi anni prima dalla Motown Records – il genere canzone raggiunge la perfezione formale: diventa importante la cura di ogni dettaglio e l’impianto armonico si fa assai più complesso. Anche se l’influsso dei Beatles sui cantautori italiani riguarda più l’aspetto musicale che non quello dei testi (ed è probabilmente almeno in parte filtrato in qualche modo da cantautori quali Bob Dylan e Leonard Cohen), va però ricordato che senza Sgt. Pepper forse non avremmo mai avuto i concept album di Fabrizio De André, e la canzone d’autore sarebbe rimasta legata a forme musicali più semplici e del tutto subordinate al testo (sullo stile di Georges Brassens o della prima Scuola Genovese).
Con Bob Dylan – che è il primo cantautore a raggiungere un ampio successo internazionale – le canzoni diventano strumento e simbolo mondiale di protesta in una società ormai globalizzata, e trattano spesso anche argomenti di attualità quali la guerra, con riferimenti più o meno espliciti alla guerra del Vietnam. Alcune sue canzoni vengono proposte in lingua italiana, mantenendo la musica originale, da Fabrizio De André: Desolation Row (Via della povertà), libera traduzione a quattro mani con Francesco De Gregori, il quale contribuisce alla cripticità del testo e introduce riferimenti a Hitler e ai campi di sterminio, incubi ricorrenti anche in altre sue canzoni (1940, Cercando un altro Egitto, Rumore di niente)5; Romance in Durango (Avventura a Durango), con la collaborazione di Massimo Bubola, in cui il codeswitching del ritornello (nell’originale un misto di inglese e spagnolo) viene reso in modo assai felice con un italiano vagamente napoletaneggiante.
Un caso particolarissimo di influsso sui cantautori italiani, e che mostra un diverso atteggiamento rispetto alla fonte in Fabrizio De André e in Francesco De Gregori, si verifica con Leonard Cohen, autore canadese nato a Montreal nel 1934 (e dunque più anziano dei cantautori italiani), che dopo aver pubblicato quattro raccolte di poesia e due romanzi, decide di affiancare la sua attività di scrittore (mai abbandonata per quanto riguarda la produzione in poesia) con quella di cantautore. Verso la fine del 1967 esce il suo primo album, intitolato semplicemente Songs of Leonard Cohen, destinato a diventare un classico del genere per la densità poética dei testi, così come i due album che seguiranno a breve: Songs from a room (1969) e Songs of love and hate (1970).
Fabrizio De André ne traduce alcune canzoni, conservando sempre la musica originale: dapprima, nel 1972, Suzanne (di cui viene mantenuto il titolo) e Joan of Arc (Giovanna d’Arco); più avanti, nel 1975, Seems so long ago, Nancy (soltanto Nancy nella versione italiana), forse la più deandreiana delle canzoni di Leonard Cohen, ove si tratta di una giovane donna dalla vita sessuale aperta («she slept with everyone») che in un momento di solitudine e depressione si suicida sparandosi («a forty five beside her head / an open telephone»).
Una quarta e ultima traduzione di Fabrizio De André da Leonard Cohen sarà quella, in collaborazione con Sergio Bardotti, di Famous blue raincoat (Famosa volpe azzurra), affidata alla voce di Ornella Vanoni nel 1979.
Bisogna però dire che le versioni italiane delle canzoni di Leonard Cohen proposte da Fabrizio De André (che confessava di tradurre quando era privo di ispirazione e di dover ricorrere spesso al vocabolario per tradurre dall’inglese) risultano di norma piuttosto rigide e artisticamente meno riuscite rispetto alle traduzioni da Georges Brassens o Bob Dylan e al rifacimento, non vincolato da una melodia preesistente, di alcune poesie della Spoon river Anthology di Edgar Lee Masters6: nel tentativo di riprodurre fedelmente l’originale di Leonard Cohen anche per quanto riguarda la parte musicale, si perde in poeticità, e il confronto con la versione inglese non regge al paragone.
Interessanti, per quanto piuttosto discutibili nell’ultima parte, alcune dichiarazioni fatte da Fabrizio De André durante un concerto della tournée Uomini e donne (1992-1993) dopo aver interpretato Nancy e Giovanna d’Arco:
Io ho sempre pensato che quando un autore non è abbastanza in vena per assumersi l’onere e la responsabilità di un’opera in proprio, sia bene che traduca altri colleghi che si esprimono in lingue diverse dalla nostra: si raggiungono nell’inmediato due scopi sicuri: quello di esercitarsi e quello di dimostrarsi anche soggettivamente umili. […] E poi si raggiunge anche un altro scopo credo oggettivamente utile a tutti: è quello di divulgare quel poco o quel molto di poesia che può esserci nelle canzoni appunto di autori che si esprimano in lingue straniere. […] In pratica io me ne fotto abastanza della traduzione letterale, anzi non me ne importa proprio niente: cerco di entrare il più possibile nello spirito della canzone e attraverso la canzone stessa addirittura cercare di raggiungere lo spirito di chi l’ha composta. Sono confortato in questo mio non correttissimo modo di agire da quello che diceva il nostro maggiore critico letterario del nostro secolo, Benedetto Croce, il quale distingueva le traduzioni in «brutte e fedeli» e «belle e infedeli». E io di fronte a quello che io reputo essere il bello sono disposto a qualsiasi perfida infedeltà7.
Delle quattro traduzioni da Leonard Cohen, Nancy è quella che risulta più convincente, forse perché il tema è assai congeniale al cantautore genovese e la versione italiana riesce in qualche punto a distaccarsi dal testo originale senza sembrare infedele. In questo caso alcune innovazioni o aggiunte di Fabrizio De André sono degne di nota: «dormiva con tutti, / ma “cosa fai domani?” / non lo chiese mai a nessuno: / si innamorò di tutti noi / non proprio di qualcuno / non solo di qualcuno» è una libera traduzione di «she slept with everyone. / She never said she’d wait for us / although she was alone, / I think she fell in love for us / in nineteen sixty one, / in nineteen sixty one», ma con aumento di pathos grazie all’eliminazione dei verba dicendi et pensandi originali, all’eliminazione dei riferimenti temporali precisi a una vicenda di cronaca realmente accaduta nel 1961, e all’aggiunta della domanda mai pronunciata da Nancy sul domani dei propri compagni. Efficace anche l’opposizione tra «di tutti noi» e «non proprio di qualcuno», con la variatio al verso successivo «non solo di qualcuno».
L’ineluttabilità della morte «by fire» a cui è destinata Joan of Arc, rappresentata nel testo di Leonard Cohen con l’immagine delle fiamme che inseguono la pulzella mentre cavalca, è annullata nella versione italiana da un distico puramente descrittivo in cui la tensione dell’inseguimento viene meno: «Now the flames they followed Joan of Arc / as she came riding through the dark» diventa «Attraverso il buio Giovanna d’Arco / precedeva le fiamme cavalcando». La metafora nuziale dell’unione della protagonista con il fuoco, metafora che pervade interamente il testo di Joan of Arc, viene in parte eliminata e il testo italiano non è sempre del tutto comprensibile se non si guarda al testo inglese. La fisicità dei due sposi scompare: il corpo della pulzella che sta per concedersi al fuoco («Then fire, make your body cold, / I’m going to give you mine to hold») diventa un oggetto qualsiasi («E se tu sei il fuoco raffreddati un poco, / le tue mani ora avranno da tenere qualcosa»); e i «wedding guests» che assistono al rogo/matrimonio si riducono a «gente».
Nonostante Fabrizio De André si prenda la libertà di trasformare lo schema originario di rime baciate (con due sole eccezioni costituite dalle assonanze baciate heart: Arc, presente due volte, e guests: dress) in una struttura più libera che comprende invece rime, o assai più frequentemente assonanze, baciate o incrociate (con l’eccezione di una quartina che presenta due versi sciolti: poco: qualcosa: dentro: sposa), la lingua risulta a tratti pesante, e ancor di più se la si confronta con la scorrevolezza cristallina dei testi originali: «Well, I’m glad to hear you talk this way, / you know I’ve watched you riding every day» è reso con un innaturale «Son parole le tue che volevo ascoltare / ti ho spiata ogni giorno cavalcare». In qualche caso il testo è addirittura rovesciato: Giovanna d’Arco, rivolgendosi al fuoco, in Leonard Cohen «“And who are you?” she sternly spoke [‘disse duramente’]» al punto da mettere quasi in imbarazzo l’interlocutore («“Why, I’m fire” he replied»), mentre in Fabrizio De André «“E chi sei tu?” lei disse divertendosi al gioco».
In Suzanne la traduzione è eccessivamente rigida (quasi una traduzione scolastica parola per parola) e allo stesso tempo infedele: «Suzanne takes you down / to her place [‘a casa sua’] near the river» è reso con «Nel suo posto in riva al fiume / Suzanne ti ha voluto accanto»; i versi «And you want to travel with her / and you want to travel blind [‘ad occhi chiusi’]» diventano un pesantissimo e sgrammaticato «E tu vuoi viaggiarle insieme / vuoi viaggiarle insieme ciecamente»; e il riferimento alla Nostra Signora del Porto – la statua della Madonna rivolta verso il fiume San Lorenzo che si trova sulla cupola della chiesa di Notre-Dame-de-Bonsecours a Montreal – è totalmente incompreso dal traduttore: i versi «And the sun pours down like honey / on Our Lady of the harbour» nella versione di Fabrizio De André fanno di Suzanne una prostituta che esercita al porto («Il sole scende come miele / su di lei donna del porto»).
Fabrizio De André con Francesco De Gregori in sala d'incisione all'epoca di Volume 8 (Foto: Luca Greguoli) |
L’atteggiamento di Francesco De Gregori è radicalmente diverso. Gli omaggi a Leonard Cohen nell’opera di De Gregori – che già nomina in modo esplicito il cantautore canadese nel brano In mezzo alla città, scritto in collaborazione con Antonello Venditti e contenuto nel loro album d’esordio Theorius Campus del 1972 (tra i vari oggetti citati, correlativi oggettivi di un amore finito, ci sono i «dischi di Leonard Cohen») – sono tanti e sono disseminati lungo tutto l’arco della sua produzione, ma nei dischi pubblicati ufficialmente non troviamo mai traduzioni integrali.
È pur vero che nei primi anni di attività, quando si esibiva al Folkstudio in compagnia di Giorgio Lo Cascio, Francesco De Gregori era solito eseguire dal vivo alcune traduzioni di brani di Leonard Cohen8. E qualcosa è rimasto nei bootleg. Una registrazione (casalinga?) di Giovanna d’Arco in versione italiana eseguita (voce e chitarra) da un giovane De Gregori circola su internet, e non va confusa con la canzone omonima che Francesco De Gregori scriverà per Fiorella Mannoia nei primi anni Novanta e in cui l’autore sembra voler scrivere alla maniera di Ivano Fossati, che già aveva scritto alcune canzoni per la stessa cantante. Nel live registrato al Folkstudio il 24 gennaio 1970, oltre alle più celebri Suzanne (cantata da Giorgio Lo Cascio) e So long, Marianne (A presto Marianne) compare anche una bella traduzione di Tonight will be fine (Un letto come un altro). Sul finire degli anni Novanta Francesco De Gregori tradurrà poi con il titolo Il futuro la canzone The future, pubblicata da Leonard Cohen nel 1992, ma verrà incisa dall’amico e collaboratore Mimmo Locasciulli. Pure il fratello di De Gregori, Luigi (in arte ‘Luigi Grechi’ con il cognome della madre), alla fine degli anni Settanta ha tradotto e inciso una canzone di Leonard Cohen: One of us cannot be wrong (La regola d’oro).
Ma nella discografia ufficiale Francesco De Gregori propone soltanto allusioni a Leonard Cohen: citando un nome, o traducendo un verso, o inserendo un concetto o un oggetto attraverso un procedimento di mellificatio che smembra la fonte e poi la esibisce incastonata come gemma preziosa a chi sappia riconoscerla.
Il fenomeno è di particolare evidenza nell’album Alice non lo sa (1973), disco ricco anche di riferimenti letterari ad autori del Novecento, quali Sbarbaro, Saba, Pavese, Calvino. Per fare qualche esempio di tessere coheniane, nel brano Marianna al bivio compare anche una Suzanne («ma Suzanne mi dà la mano come prima»; «ma Suzanne io non l’ho dimenticata»): i nomi Marianna e Suzanne non sono casuali, bensì alludono alle protagonista di So long, Marianne e Suzanne (in cui tra l’altro un verso recita «Now Suzanne takes your hand»). Altri elementi in comune con So long, Marianne sono la presenza di una finestra e la lettura del futuro, anche se con modalità differenti («I’d like to try to read your palm. / I used to think I was some kind of Gypsy boy / before I let you take me home» in Cohen; «chi ha guardato le mie carte / sa che forse la mia vita è già decisa» in De Gregori)9. Una Marianna «cresciuta in fretta / in un’estate di malumore» compare anche nell’inedito De Gregori era morto.
Il «telefono staccato» di Irene che sta per gettarsi dal quarto piano è l’«open telephone» di Nancy, che nella versione originale sta per spararsi (mentre nella versione italiana di Fabrizio De André – che compare in Volume 8, album a cui collabora parzialmente anche Francesco De Gregori – Nancy, il cui telefono è inspiegabilmente «rotto», «cercò dal terzo piano la sua serenità»).
Il personaggio di Lili Marlene accomuna le canzoni Famous blue raincoat e Alice. E altre espressioni o figure singolari stabiliscono una fitta serie di allusioni ai testi di Leonard Cohen: i versi «e mi dicevo “adesso sì che sto crescendo”, / invece era soltanto una stazione» di Buonanotte fratello trovano corrispondenza in «I’m just a station on your way» di Lady Winter; nell’album successivo la figura di san Giuseppe, ebreo in fuga, a cui si paragona l’onirico protagonista di Cercando un altro Egitto perseguitato dai nazisti («Insomma prendo tutto, / e come san Giuseppe / mi trovo a rotolare per le scale, / cercando un altro Egitto») ha un antecedente in «He was just some Joseph looking for a manger» di The stranger song10; nella recente Per brevità chiamato artista un verso dice «Come un uccello sul filo o un ubriaco per le scale» con evidente riferimento a «Like a bird on the wire, / like a drunk in a midnight choir». Il caso forse più interessante è costituito dalla coppia di canzoni Story of Isaac e La casa di Hilde11. I temi trattati sono completamente diversi, ma i punti di contatto sono tanti.
La canzone di Leonard Cohen parte dall’episodio biblico di Abramo che si dispone a sacrificare suo figlio Isacco (Gen 22, 1-12), per poi passare a un’attualizzazione del tema, con riferimento alla guerra in Vietnam, in cui i figli sacrificati dai padri sono i soldati mandati a morire. Presentando il brano, all’epoca ancora non inciso, alla BBC (BBC2 TV, Leonard Cohen sings Leonard Cohen, trasmissione dell’8 settembre 1968), l’autore dice che quando Abramo stava per sacrificare Isacco un angelo fermò il suo braccio, mentre «today the children are being sacrificed and no-one raises a hand to end the sacrifice»12. Nell’album ufficiale Live Songs (1973) il pezzo (proveniente da un concerto berlinese del 1972) è introdotto così: «it’s about those who would sacrifice one generation on behalf of another»13.
La canzone di Francesco De Gregori parla invece di una più prosaica vicenda di contrabbando di diamanti. Ma entrambe le canzoni hanno per protagonisti un padre e un figlio, e il punto di vista è quello del bambino, che racconta la storia.
STORY OF ISAAC
The door it opened slowly,
my father he came in,
I was nine years old.
And he stood so tall above me,
his blue eyes they were shining
and his voice was very cold.
He said, «I’ve had a vision
and you know I’m strong and holy,
I must do what I’ve been told».
So he started up the mountain,
I was running, he was walking,
and his axe was made of gold.
Well, the trees they got much smaller,
the lake a lady’s mirror,
we stopped to drink some wine.
Then he threw the bottle over.
Broke a minute later
and he put his hand on mine.
Thought I saw an eagle
but it might have been a vulture,
I never could decide.
Then my father built an altar,
he looked once behind his shoulder,
he knew I would not hide.
You who build these altars now
to sacrifice these children,
you must not do it anymore.
A scheme is not a vision
and you never have been tempted
by a demon or a god.
You who stand above them now,
your hatchets blunt and bloody,
you were not there before,
when I lay upon a mountain
and my father’s hand was trembling
with the beauty of the word.
And if you call me brother now,
forgive me if I inquire,
«Just according to whose plan?»
When it all comes down to dust
I will kill you if I must,
I will help you if I can.
When it all comes down to dust
I will help you if I must,
I will kill you if I can.
And mercy on our uniform,
man of peace or man of war,
the peacock spreads his fan.
LA CASA DI HILDE
L’ombra di mio padre due volte la mia,
lui camminava e io correvo,
sopra il sentiero di aghi di pino,
la montagna era verde.
Oltre quel monte il confine,
oltre il confine chissà,
oltre quel monte la casa di Hilde.
Io mi ricordo che avevo paura,
quando bussammo alla porta,
ma lei sorrise e ci disse di entrare,
era vestita di bianco.
E ci mettemmo seduti ad ascoltare il tramonto,
Hilde nel buio suonava la cetra.
E nella notte mio padre dormiva,
ma io guardavo la luna,
dalla finestra potevo toccarla,
non era più alta di me.
E il cielo sembrava più grande
ed io mi sentivo già uomo.
Quando la neve scese a coprire la casa di Hilde.
Il doganiere aveva un fucile
quando ci venne a svegliare,
disse a mio padre di alzare le mani
e gli frugò nelle tasche.
Ma non trovò proprio niente,
solo una foto ricordo.
Hilde nel buio suonava la cetra.
Il doganiere ci strinse la mano
e se ne andò desolato,
e allora Hilde aprì la sua cetra
e tirò fuori i diamanti.
E insieme bevemmo del vino
ma io solo mezzo bicchiere.
Quando fu l’alba lasciammo la casa di Hilde.
Oltre il confine, con molto dolore,
non trovai fiori diversi,
ma sulla strada incontrammo una capra
che era curiosa di noi.
Mio padre le andò più vicino
e lei si lasciò catturare,
così la legammo alla corda e venne con noi.
Isaac ha nove anni, mentre del protagonista di La casa di Hilde non si conosce con precisione l’età, ma che si tratti ancora di un bambino lo si capisce grazie ai primi due versi («L’ombra di mio padre due volte la mia, / lui camminava e io correvo»), il secondo dei quali corrisponde esattamente a un verso della Story of Isaac («I was running, he was walking») mentre il primo esprime in forma diversa un concetto già presente nella canzone di Leonard Cohen: «And he stood so tall above me».
In entrambe le canzoni la scena si svolge in montagna, durante la salita, con il paesaggio sottostante che si rimpicciolisce in Leonard Cohen:
So he started up the mountain
[…]
Well, the trees they got much smaller,
the lake a lady’s mirror,
mentre in De Gregori «la montagna era verde», e se manca un verbo a indicare la salita, si capisce tuttavia che i due personaggi stanno salendo, perché la loro destinazione, la casa di Hilde, è oltre il monte:
Oltre quel monte il confine,
oltre il confine chissà,
oltre quel monte la casa di Hilde.
Qui non si vede il paesaggio sottostante rimpocciolirsi ma, al contrario, avvicinarsi e ingrandirsi
quello soprastante:
ma io guardavo la luna,
dalla finestra potevo toccarla,
non era più alta di me.
E il cielo sembrava più grande.
Per rinfrancarsi della salita, nella Story of Isaac i protagonisti si fermano per bere del vino: «we stopped to drink some wine». Il vino viene bevuto anche in La casa di Hilde, – «e insieme bevemmo del vino» –, con l’aggiunta di impronta realistica «ma io solo mezzo bicchiere» essendo il protagonista un bambino all’epoca dell’episodio.
Un altro elemento che unisce le due canzoni, il tema del sacrificio, non è riconoscibile a prima vista. Nella canzone di Francesco De Gregori troviamo una capra la cui presenza parrebbe poco funzionale nel contesto:
ma sulla strada incontrammo una capra
che era curiosa di noi.
Mio padre le andò più vicino
e lei si lasciò catturare.
Soltanto attraverso il confronto con la Story of Isaac si può capire che la capra è il capro espiatorio da sacrificare sull’altare costruito dal padre, e come Isacco non oppone alcuna resistenza. Nell’episodio biblico, dopo l’intervento dell’angelo, Abramo sacrifica appunto un ariete14.
Un riferimento alla guerra e all’opposizione tra noi e loro, i ‘diversi’ della retorica ufficiale, a cui segue lo stupore/delusione del singolo nel non riscontrare nell’esperienza diretta la presunta diversità del nemico affermata dalla propaganda, compare súbito prima dell’incontro con la vittima sacrificale:
Oltre il confine, con molto dolore,
non trovai fiori diversi
concetto che sembra richiamare l’«uomo in fondo alla valle / che aveva il tuo stesso identico umore / ma la divisa di un altro colore» nella Guerra di Piero15, oppure le donne francesi corteggiate dai soldati (italiani? tedeschi?) di 1940 che «non è vero che siano diverse», o ancora «l’esercito degli uomini diversi» che si troverà nella posteriore Finestre del dolore dello stesso De Gregori.
Note
*Relazione presentata al convegno della Canadian Society for Italian Studies tenutosi presso la Concordia University, Montreal, 28-30 maggio 2010.
1. Manca purtroppo una storia della canzone d’autore che tenga conto, in chiave storico-filologica e in una prospettiva comparatistica euro-americana, sia dei testi sia della musica e che contempli anche il materiale bootleg (brani inediti, registrazioni casalinghe, prime versioni, prove in studio, concerti) ove disponibile, e non si limiti al racconto aneddotico: che tratteggi insomma, contestualizzandoli, più l’arte e l’artista nel connubio di parole e musica (con particolare attenzione ai rapporti di intertestualità con i modelli e ai rimandi interni alla propia produzione, nonché alla genesi/evoluzione dei componimenti), e meno l’uomo di spettacolo e lo showbiz. Per un panorama storico, che necessiterebbe però di varie integrazioni, vd. almeno la voce La canzone d’autore in Italia, a cura di Roberto Vecchioni, in Enciclopedia Italiana - Treccani, senza data (ma aggiornata fino agli anni 1997/98), consultabile online sul sito http://www.treccani.it e la ricca bibliografia ivi elencata (tra cui segnalo i lavori di Borgna, Jachia, Baldazzi-Clarotti-Rocco). Vasta bibliografia anche nel più recente S. Pivato, Bella ciao. Canto e politica nella storia d’Italia, Bari 2005.
2. Aggiungo che la tecnica dell’overdubbing è oggi usata anche per la registrazione di alcuni brani di musica antica particolarmente ardui o impossibili da eseguire da un solo strumentista: ad esempio alcune note dell’Arte della fuga o dell’Offerta musicale di Bach non possono essere suonate su uno strumento a tastiera da un solo interprete, e si supera questo problema ricorrendo o a un secondo interprete o appunto alla sovraincisione.
3. G. Contini, Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare, in Id., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino 1970, p. 5.
4. A rigore si dovrebbe poi distinguere tra arte riproducibile (come la letteratura, riproducibile salvo errori di copia attraverso la scrittura; o come la musica incisa e il cinema, riproducibili attraverso i vari supporti che si sono succeduti nel tempo) e arte concepita come pezzo unico (scultura, pittura), in cui l’opera coincide con il supporto materiale (senza con ciò togliere la possibilità, spesso attuata soprattutto in passato, di trarne delle copie). Ma mi piace paragonare la música incisa alla scultura, se non altro per l’icasticità dell’immagine.
5. Interessante notare che Hitler non è mai indicato con il cognome nelle canzoni di Francesco De Gregori: in Via della povertà è «il caporale Adolfo», in 1940 è «l’uomo coi baffi» che «l’altro ieri è arrivato a Parigi», in Rumore di niente, canzone sul vuoto politico dei primi anni Novanta e sul rischio concreto che possano sempre riemergere nuovi o vecchi fascismi, è evocato come imbianchino e assassino. Mussolini è invece nominato in Le storie di ieri, ma solo dopo una prima evocazione, di stampo gaddiano, nel verso «la mascella al cortile parlava».
6. Sull’album Non al denaro, non all’amore né al cielo vd. Lo studio di G. Zeppegno, La tenacia delle immagini: viaggio esplorativo nella Spoon River di Fabrizio De André, in «Critica del testo», X/3 (2007), pp. 139-68, che purtroppo non tiene però conto del testo inglese di Edgar Lee Masters. Fabrizio De André non trae i testi semplicemente dalla traduzione di Fernanda Pivano, come è invece opinione diffusa, bensì tiene sott’occhio sia la traduzione della Pivano sia l’originale. La sostituzione di «un infermiere cattolico» (Pivano) con «due guardie bigotte» (De André), nella canzone Il blasfemo, ad esempio risponderà anche a esigenze di rima (bigotte : botte) come sostenuto dalla Zeppegno, e ciò vale per la scelta dell’aggettivo e della forma plurale, ma trova fondamento in primo luogo nella lezione «Catholic guard» della poesia Wendell P. Bloyd: entrambe le traduzioni sono possibili perché il testo non dice esplicitamente se il blasfemo Bloyd sia stato rinchiuso in prigione o in manicomio («they locked me up as insane»).
7. Trascrizione mia da una non meglio precisata registrazione bootleg, forse Milano, Teatro Smeraldo, 12 dicembre 1992.
8. Vd. G. Lo Cascio, De Gregori, Padova 1990, pp. 17-8 e 28, ove si dice che il repertorio di traduzioni dal cantautore canadese includeva Suzanne; So long, Marianne; Joan of Arc; Story of Isaac e The partisan. Sul Folkstudio, storico crocevia romano di incontri tra la musica americana e la musica italiana, rimando a A. Carrera, Oh, the streets of Rome: Bob Dylan in Italy, in Highway 61 revisited: Bob Dylan’s road from Minnesota to the world, C.J. Sheehy - T. Swiss eds., Minneapolis, MN 2009, pp. 84-105, in particolare alle pp. 88-9.
9. L’associazione zingaro-carte o zingaro-previsione del futuro, spesso presente nella cultura popolare, compare esplicitamente in altre due canzoni di De Gregori: Rimmel e Prendi questa mano. Una lettura della mano infine è implicita in Pezzi di vetro.
10. Osservo inoltre che nella versione del brano compresa nell’album live Musica leggera (1990), il verso eufemistico/reticente «i bambini sono tutti a giocare» diventerà un più esplicito e inquietante «i bambini sono tutti a volare», omaggio al Guccini di Auschwitz (La canzone del bambino nel vento).
11. Le due canzoni sono contenute rispettivamente in Songs from a room (1969) e Alice non lo sa (1973). Purtroppo non si conosce la traduzione della Story of Isaac effettuata da Francesco De Gregori di cui parla Giorgio Lo Cascio (vd. supra).
12. Trascrizione mia dal bootleg L. Cohen, BBC recordings 1968, JWB Remasters, sine data. Sullo stesso brano vd. anche il commento di A. DeCurtis, Leonard Cohen’s second album, in L. Cohen, Songs from a room, Columbia 1969, cd reissue 2007, liner notes, pp. 10-3, alle pp. 11-2: «Cohen uses the Biblical story of Abraham’s willingness to sacrifice his son Isaac as a parallel to the generational battles of the Sixties, particularly over the Vietnam war, in “Story of Isaac.” Cohen is quiet, stark and unrelenting, suffused with moral outrage at the capacity of the old to permit the young to be annihilated in the name of a vague, unidentifiable “scheme” – while, at the same time, refusing the idea that the young are in any way morally superior simply by virtue of their suffering».
13. Trascrizione mia.
14. C’è assai probabilmente da ravvisare qui un influsso della «capra dal viso semita» di Umberto Saba, autore a cui guardavano spesso i cantautori (si pensi anche a La città vecchia di De André). Il tema della vittima sacrificale ariete/agnello ricorre comunque più volte nell’opera di Francesco De Gregori: un agnello si trova in La casa del pazzo (repertorio ermetico/ onirico di temi riusati poi in altre canzoni, compresa La casa di Hilde), compare sulla copertina del secondo album solista (quello senza titolo del 1974, conosciuto anche con il soprannome ‘La pecora’) ed è protagonista del brano più recente L’agnello di Dio.
15. Non sarebbe l’unica allusione a Fabrizio De André in Francesco De Gregori. I versi «io non ricordo che occhi avevi / l’ultima volta che ti ho insultato» nella canzone Dolce amore del Bahia ad esempio richiamano, rovesciandola, Amore che vieni, amore che vai («e tu che con gli occhi di un altro colore / mi dici le stesse parole d’amore»). L’«efebo sospetto» di Sono tuo che «beveva vino rosso / sporcandosi il colletto / […] ma l’han buttato fuori / perché non credeva in Dio (bestemmiava Dio nella prima versione poi censurata)», è un controcanto a Il blasfemo di Fabrizio De André («Mi arrestarono un giorno per le donne ed il vino, / non avevano leggi per punire un blasfemo»). E richiama il cantautore genovese pure la Signora Aquilone: «legato ai suoi fianchi c’era un vecchio aquilone / lei lo seguiva senza fare domande» proprio come fa Marinella con l’uomo che diventerà il suo assassino: «tu lo seguisti senza una ragione / come un ragazzo segue un aquilone / […] lui pose le sue mani sui tuoi fianchi»; ma qui potrebbero esserci anche altre suggestioni, dal momento che la seconda raccolta poetica di L. Cohen, The spice-box of earth, Toronto-Montreal 1961, si apre con la poesia A kite is a victim (Un aquilone è una vittima), e un Signor Aquilone (Mr. Kite) compare nell’album Sgt. Pepper’s lonely hearts club band dei Beatles.
Da: «Reading songs-Leggere canzoni» in Semicerchio. Rivista di poesia comparata, XLVI (01/2012), 15-22
PAOLO DIVIZIA (Torino 1977) si è laureato in Filologia Italiana presso l'Università di Torino (2001) e ha conseguito il dottorato presso l'Università di Parma (2005). Dal 2006 insegna Letteratura e Filologia Italiana presso la Masarykova univerzita di Brno (Rep. Ceca). Tra i suoi interessi principali di ricerca i volgarizzamenti due-trecenteschi e le questioni filologiche di metodo, con alcune incursioni nel Novecento. Ha partecipato a numerosi convegni in Italia e all'estero, e ha pubblicato articoli su alcune delle più prestigiose riviste nell'ambito della filologia italiana e delle discipline contigue quali «Medioevo Romanzo», «La Parola del Testo», «Lingua Nostra», «Studi e Problemi di Critica Testuale», «Giornale Storico della Letteratura Italiana», «Filologia e Critica», «Studi Medievali», «Studi Linguistici Italiani», «Italia Medioevale e Umanistica». Fa parte del comitato direttivo della rivista «Spolia. Journal of Medieval Studies» e del comitato scientifico della collana «Filologia e ordinatori» della Franco Cesati Editore di Firenze (direttore della collana: Michelangelo Zaccarello; altri membri del comitato: Antonio Sorella e Lorenzo Tomasin). Collabora occasionalmente con riviste del settore in qualità di peer reviewer. Dal 2002 è cultore della materia in Filologia Italiana (L-FIL-LET/13) presso l'Università di Torino. Dal 2006 è assistente di Storia della letteratura italiana e Filologia italiana presso la Masarykova univerzita di Brno (in ceco: "odborny asistent" = "assistente specializzato"). Dal 2015 insegna anche Storia della lingua italiana. Ha partecipato a numerosi convegni sia in Italia sia all'estero. Ha tenuto lezioni su invito in Italia, Repubblica Ceca, Polonia e Spagna. Ha contribuito all'ampliamento della rete Erasmus dell'Università di Brno promuovendo accordi con numerosi atenei (Bologna, Cassino, Cracovia, Ferrara, Padova, Parma, Pisa, Roma Sapienza, Salamanca, Siena stranieri, Torino, Verona) e consolidando quelli già esistenti (Cagliari, Macerata, Viterbo). Ha promosso una collaborazione tra l'Università di Brno e la vicina Università di Olomouc. Nel 2014 ha ottenuto l’Abilitazione Scientifica Nazionale per il settore scientifico 10/F3 Linguistica e Filologia Italiana - seconda fascia (prof. associato). Dal 2016 è affiliato all'Instituto de Estudios Medievales y Renacentistas (IEMYR) e alla Sociedad de Estudios Medievales y Renacentistas (SEMYR) dell'Università di Salamanca.