Claudio Marabini | Vasco Pratolini

È fin troppo facile, considerando l’ultimo Pratolini, disegnare una parabola ideologica. La quale, a dire il vero, non risulta ...



È fin troppo facile, considerando l’ultimo Pratolini, disegnare una parabola ideologica.

La quale, a dire il vero, non risulta soltanto sua ma si configura all’incirca come la parabola di una generazione; con la differenza, semmai, che mentre i più sembrano aver mitigato o più propriamente trasferito i loro fervori e le loro speranze in una meditazione più profonda e globale della vita e della letteratura, anche talora venata d’elegiaca amarezza, Pratolini seguita con l’animo di chi comunque non disarma. Il suo «impegno» resta intatto, la speranza non cede davanti a certa realtà storica e politica: si colora semmai di rabbiosa impotenza e se si inoltra sul terreno della storia, registrando i motivi di questa impotenza, non rinuncia a se stessa e all’antica battaglia: «L’impegno è permanente», dichiarò Pratolini in una recente intervista.1

Diamo un’occhiata al suo ultimo romanzo, Allegoria e derisione (Mondadori, ’66). Questo romanzo conclude la trilogia che aveva avuto inizio con Metello (datato nel testo ’52 e uscito presso Vallecchi nel ’56), vale a dire col romanzo che aveva messo in scena le lotte sindacali degli ultimi anni del secolo scorso in Firenze e in particolare i disordini del ’98 e il lungo sciopero dei muratori della primavera del 1901, ed era proseguita con le mille e passa pagine dello Scialo (datato nel testo ’57 e stampato da Mondadori nel ’60), che offriva un vastissimo affresco di vita sociale e politica fiorentina dalla prima guerra mondiale sino a quasi tutto il primo decennio del fascismo, sullo sfondo del fascismo stesso e in ambiente, questa volta, piccolo borghese.

Allegoria e derisione racconta la storia – in particolare ideologica – di Valerio Marsili dalla nascita, nel ’15, sino a oggi; l’ultimo capitolo del lungo romanzo, costruito su grossi e separati blocchi narrativi ricavati da un diario, consiste in una semplice paginetta la quale ha tutto il sapore di un messaggio e porta come titolo la data: 2 luglio 1965.

I fili ideologici della storia infatti convergono in quel punto: sul complesso dei nostri problemi politici, sociali e morali, e sostanzialmente su quello che noi, dopo il fascismo e dopo il lungo dopoguerra, siamo diventati. E il titolo dice con franchezza quali siano le attuali condizioni di spirito di Valerio (o di Pratolini stesso: questo nome ricompare dai testi giovanili dello scrittore proprio a sottolineare la componente autobiografica).

Per questo approdo ai nostri giorni è necessario esaminare Allegoria e derisione più da vicino di quanto non si debba fare per Metello e Lo Scialo: guardata sotto il profilo dell’ideologia politica, questa lunga «storia italiana», che vorrebbe riflettere l’evoluzione nazionale dall’Unità (o da qualche tempo dopo: Metello è nato nel ’72, ma già noi abbiamo conosciuto, renaiolo in Arno, suo padre) sino a oggi, riceve proprio dalle ultime pagine il suo crisma definitivo. Quasi si vorrebbe dire, pur alla spiccia e certo con soverchia faciloneria, che qui si doveva arrivare. E del resto Pratolini stesso ha chiarito a sufficienza il suo intento in interventi pubblici e negli stessi romanzi, fornendo lo schema teorico della sua interpretazione della recente storia d’Italia e della situazione presente: ciò che in Allegoria e derisione viene a confermarsi.2

Valerio Marsili è un giovane nato nel 1915. La prima parte del romanzo è tutta occupata dall’indagine del suo passato familiare: un corrusco nido di vipere, i suoi falsi e corrotti «Atridi», con al centro la figura monumentale di nonna Celeste, anarchica, saltimbanca, fattucchiera, a suo tempo femmina maliarda e spregiudicata, che godette i favori estremi del vecchio Brunetto Marsili, signore delle Rose, il quale tirò le cuoia prima che nascesse Irma, la futura madre di Valerio. La quale poi, venendo a conoscenza di tale origine, ne morì, lasciando Valerio alle cure di una matrigna e quindi preparandone di riflesso la fuga. Valerio è adolescente, lascia la casa presso il Galluzzo, va come garzone di fornaio in San Frediano, con la scorta delle poche lire che suo padre Irnerio, inetto e balordo, gli ha lasciato in tasca. «Bisogna soffocarli tutti questi superstiti e minuscoli Atridi con le loro stesse fumate. Io ho il mio avvenire da conquistare...» (p. 84). Nonna Celeste, tra alambicchi, stese di carte, palle di vetro, coi suoi ottanta anni suonati, scomparirà dalla scena; e con lei tutto quel mondo ancora ottocentesco, dipinto con grottesco spirito naturalistico e con troppe concessioni al gusto del «feuilleton» (si pensa anche alla Signora di Cronache di poveri amanti e all’ultima parte dell’esistenza di Ninì Batignani nello Scialo), che di ricordo in ricordo, di generazione in generazione scende giù sino ai tempi del Granduca, rivelando il suo disfacimento morale, il suo ambiguo e inconsistente splendore.

Valerio si intrupperà con una banda di monelli di San Frediano, che già riescono a combinare qualche furtarello e a porre solide basi per un futuro di birbanterie e di galera. Vengono in mente i tipici ragazzi pratoliniani, quelli che già incontrammo in Una giornata memorabile (una delle prime prose, datata all’autunno del ‘36), in certe prose delle Amiche (’39-’41), nel Quartiere (’43), in Cronaca familiare (’45), in Cronache di poveri amanti (’46), nelle Ragazze di San Frediano (’48), in parte anche in Un eroe del nostro tempo (’47), nei primi capitoli di Metello, e nella Costanza della ragione (’63): vale a dire in tutto il filone più vivo e originale della narrativa di Pratolini.

Valerio legge e studia, vuole farsi una cultura, e sta un po’ in disparte. Solo una volta parteciperà a un colpo, il più grosso, e la banda sarà presa; lui, l’unico a salvarsi. Lascia il forno, passa a una tipografia, fa amicizia con Corrado. La sua cultura si consolida, darà l’esame di maturità classica, si iscriverà a Lettere. Siamo intorno al ’35. E conoscerà Gloria.

Gloria è una bella e giovane ragazza, d’una di quelle famiglie irregolari e sgangherate da cui usciva la teppa di San Frediano: ha dubbio se suo padre sia veramente tale, per esempio, e la sorella batte il marciapiede... Ha perciò abbandonato la casa. L’amore tra i due è totale, luminoso, idillico, letterariamente riuscito e convincente come sempre questi idilli in Pratolini (e va ricordato che il romanzo avrebbe dovuto portare come titolo: I fidanzati del Mugnone). Valerio frequenta le balere ed è provetto ballerino: tutt’un mondo di periferia, a cui egli sente di appartenere, intessuto di speranze e di sogni. Sogni che la morte (imprevista e troppo sbrigativa) troncherà, perché la tresca della sorella e di alcuni lenoni aggirerà Gloria, che si getterà in Arno.

Poco tempo, e Valerio parte volontario per l’Africa. Crede nel fascismo, non ha conosciuto altro: l’ideologia comincia a fare sentire il suo peso nel racconto. Ne tornerà malato e sarà ricoverato in sanatorio. Intanto nasce l’amicizia col pittore Vieri, che ha un’amica, Rita; mentre lui sperimenta vari inevitabili amori, tra cui quello con Francesca, la modella lesbica (il personaggio « invertito » di turno, direbbe Cecchi). È una fase di calo morale infarcita di lunghi inserti politici e culturali, che si conclude con l’impiego al ministero: Valerio «si imbuca».

Qui salta fuori l’apologo –più di cento pagine: una novità sorprendente nel curriculum di Pratolini– dei topi e dei gatti, che divide il romanzo come un cuneo. Valerio, come dicevamo, ha sempre tenuto diari, perché s’è sempre sentito la vocazione di scrittore: i diari appunto che, messi assieme, costituiscono l’architettura disarticolata e accavallata del romanzo (che richiama quella della Costanza della ragione).

Valerio, malato, scrisse questa storia allegorica (da cui in parte, sembra, il titolo del romanzo) a sfondo satirico, in cui si assiste a un pericoloso giuoco di topi che si travestono da gatti, un giuoco infar­cito di conformismo e di fronda, concluso nella morale che due topi amanti della libertà e acrobati di professione sempre più si invischiano nel «labirinto»: vale a dire nel fascismo o nel regime.

La storia di Valerio riprende nel ’45, a Milano. È diventato comunista, naturalmente; si è sposato con Lisa, una brava napoletana che gli sa dare forza e figli. Ma la tagliola lo aspetta: Francesca è stata fucilata come prostituta e seviziatrice di partigiani e nel marciume uscito fuori appare il suo nome. Passeranno anche i cinque anni che lui deve trascorrere fuori dal partito. Intanto scrive, pubblica articoli, studia. Ora non si occupa più, come un tempo, di Proust, di Joyce, di Svevo, di Kafka; ma di Marx e della sinistra hegeliana.

L’ultima postilla, cui abbiamo fatto cenno, è del 2 luglio 1965: oscura, ma sufficientemente chiara per spremerne il senso di derisione che si ricava dall’allegoria di una vita che tende a presentarsi emblematica. Vi si fa professione di sincerità e chiarezza (ancora, sembra, una «costanza della ragione», giusto il titolo del romanzo omonimo, che cronologicamente si innesta nella composizione della «storia italiana» affiancandone lo spirito e certe conclusioni ideologiche); vi s’avverte la volontà di seguitare nel cammino con tenacia e dirittura, nonostante le delusioni inferte dai tempi.

Quale, allora, il senso ideologico di questa vita? Due punti soli. Il primo (p. 317):

“Mi sento in una gabbia (che è il mio paese, la sua umanità e la sua cultura e insieme è la mia anima, il mio corpo) dalle sbarre ricoperte di apparati carnevaleschi e di luci; e dentro, coi piedi nel letamaio, asfissiante, mortale, io vi sto aggrappato, stordito da queste esalazioni, accecato da quei colori e quella luminaria, impedito ad evadere, con l’angoscia che al di là delle sbarre ci sia il vuoto, un grande abisso, nel quale o si rotola con tutta la gabbia o se ne resta per sempre prigionieri. E tra questa miseria, si adatta la mia vita.”

Non c’è equivoco: gli «apparati carnevaleschi» e il «letamaio» dicono più che a sufficienza; e l’immagine della gabbia esprime bene il senso di impotenza angosciosa a cui il personaggio è pervenuto. Poi l’abisso, nel quale semmai rotolare rischiando il tutto per tutto (una rivoluzione? ma già l’operaio Bruno, nella Costanza della ragione –lo vedremo– aveva riconosciuto che non era più tempo di rivoluzioni ma piuttosto di lotte sindacali: e ci troviamo praticamente in questi stessi anni, cioè dopo il ’60 3), o perdersi, rinunciando ai propri ideali.

Il secondo punto (p. 549) è invece meno esasperato, e se non lascia intravedere rassegnazione, scopre tuttavia un senso storico che tocca probabilmente il nocciolo della condizione ideologica del per­sonaggio-scrittore e della sua generazione (salva, si capisce, la spe­ranza d’essere nuovamente chiamati «a sparare», per l’ultima volta «o mai più»).

“Tuttavia credo di poter dire, non ancora dimostrare, che uomini di transizione quali siamo, con un piede nel mondo debellato e l’altro in quello futuro, in quest’interregno che dovrà nuovamente chiamarci a sparare, o mai più, si può essere romantici e rivoluzionari, decadenti e positivi, vincitori e vinti. La nostra disperazione può nascere singolarmente da traumi privati, ma nella sostanza delle cose è dovuta alla costante ambiguità in cui ci siamo realizzati.”

È interessante, a parte i risultati artistici, vedere come sia maturata in Pratolini la narrativa dell’impegno politico. È nota la sua poetica, secondo la quale, dato fondo al materiale familiare e autobiografico, dato fondo soprattutto a quell’onda di sentimento e di memoria che si era coagulata nelle pagine indimenticabili di Via dei Magazzini, delle Amiche, del Quartiere, di Cronaca familiare, di Cronache di poveri amanti e anche –noi vorremmo aggiungere– delle Ragazze di San Frediano, era venuto il momento di vedere bene addentro quella realtà, di farne la storia e non solo dipingerla, di penetrarla con intento critico e non solo cantarla: di riviverla, insomma, da un opposto punto di vista.

«L’epoca d’oro della memoria, l’autobiografismo, quel mettere a nudo il proprio cuore [...]: ormai la possedevo.» 4 E in fondo non è fuori luogo l’affermazione, che ritroviamo più volte in bocca a Pratolini, secondo cui non si sarebbe trattato che di riscrivere lo stesso libro: con lo stesso personaggio autobiografico al centro, con la stessa cornice fiorentina, con alcuni ricorrenti episodi (il lavoro nella tipografia, la malattia e il sanatorio, i rapporti con una matrigna, le imprese dei monelli...). Interessante è vedere come, da questo terreno della memoria autobiografica, germini l’ideologia politica, sin dalle primissime prove, costituendo il nocciolo dello sviluppo futuro.

Basta prendere in mano Il quartiere. Quelle storie intrecciate di ragazzi che si fanno uomini sono tutte scandite sul ritmo di una protesta sociale che viene raccolta dalla profondità dei secoli. Essa provoca i momenti di pausa del racconto, momenti di palese apologia sociale. La povertà dei vicoli di Santa Croce viene denudata e offerta alla pietà ma anche all’attenzione critica di una nuova sensibilità morale. La vitalità dei ragazzi in questi casi si spegne in discussioni ideologiche. Ma si sente quanto l’animo dello scrittore si tenda a contatto con questo aspetto di quella realtà umana. È ancora una povertà accettata, vissuta con speranza ma anche con caparbio compiacimento (malgrado Giorgio e suo padre sovversivo, due bellissime figure): «fino al giorno in cui avessimo conquistata la ragione»5, quasi a preannunciare il romanzo di venti anni dopo; anche se il fuoco cova sotto la cenere e la distruzione del quartiere sembra preludere simbolicamente a un nuovo tempo di forse possibili, anche se remote, realizzazioni.

“Siamo gente consumata da servaggi e fazioni; scontiamo colpe secolari, nostre per quanto v’è di somigliante, nei nostri tratti, con le figure che ci contemplano dalle pareti del Carmine, affrescate da Masaccio”.6

Ma si può risalire anche più indietro. C’è già un’implicita protesta nelle birbanterie, nelle cazzottature e nel comportamento generale dei ragazzi di Una giornata memorabile, tra i primissimi chiamati in scena da Pratolini. Il nonno socialista di Via dei Magazzini pare il seme, il padre patetico e fiero di tutti i socialisti, adolescenti e maturi, che popoleranno la narrativa dello scrittore. Non si dice del Mio cuore a Ponte Milvio, con la Resistenza in atto, e di quell’esemplare Lungo viaggio di Natale, datato al giorno di San Silvestro del ’46, che tante cose riesce ad esprimere, nelle poche pagine e nel dialogo scarno, della povera Italia di quell’immediato dopoguerra, della filiale pietà dello scrittore e della sua promessa, intima e implicita, di poterne un giorno dire molto di più.

“Eravamo tante zolle d’Italia e formavamo un mucchio di sfottuta terra italiana [...]. Io debbo chiamare più gente possibile attorno a quel mucchietto di terra —Italia che noi eravamo.”

Cronaca familiare è il racconto di un tenero itinerario spirituale, la delicata scoperta di un cuore fraterno, che si aprirà al momento di dileguare nella morte. Eppure al termine, quando i colloqui dei due fratelli assumono il tono severo e trasparente, eppur lirico, di una verità che prelude al commiato, nella cornice dell’ospedale, l’ideologia marxista affiora come una balenante equazione dell’amore e della umana solidarietà; e spunta l’omaggio, nelle ultime righe, agli «amici più cari caduti nella Resistenza».

In Cronache di poveri amanti l’ideologia emerge determinata e palese, e tuttavia sposandosi – e si vorrebbe dire: perfettamente -alla struttura narrativa, fatta essa stessa motivo narrativo. Cronache di poveri amanti è a nostro avviso il libro più bello e pieno di Pratolini proprio per questa sintesi, grazie alla quale la storia politica diventa storia d’uomini e il fascismo dolore, sofferenza e lotta. È una rara conquista della nostra narrativa, solitamente refrattaria alla storia e alla passione politica. Pratolini non raggiungerà più questo equilibrio: la trilogia della «storia italiana» sopporterà infatti una preponderanza ideologica assolutamente soverchiante. Si dovrà arrivare alla Costanza della ragione per sfiorarlo; ma ancora una volta la politica soffocherà a tratti il personaggio del giovane Bruno penetrando persino nelle vicende più intime col suo peso ingombrante ed esterno, cioè non risolto in fatto d’arte, in vita viva, in azione.

In Cronache di poveri amanti il fascismo è Carlino, il comunismo è Maciste, il gigante buono che morirà in una notte epica – la «notte dell’Apocalisse» – ed è il più tiepido Ugo. E la povertà, già teorizzata nel Quartiere, è vita di strada, di vicinato grumoso, malizioso, petulante e pietoso; è storia di occhiate, di orecchie tese a carpire segreti, di amori leciti e illeciti; è storia di litigi e di scenate, di idilli, di furti e di bastonature. È insomma storia di popolino, che nella sua antica vita quotidiana, fittamente perseguita di casa in casa, di pianerottolo in pianerottolo, esprime il suo no al fascismo, lancia la sua speranza proletaria nel futuro, cede forse a una fiacchezza rassegnata, ma esprime pienamente il suo messaggio, che è un messaggio autentico perché nasce da una umanità vera, di una Firenze che sentiamo storicamente e umanamente vera, nel suo cuore più antico, a due passi dalla casa dove si dice sia nato Dante, a pochi metri da Piazza della Signoria. Si sfiora il nome di Grani­sci; si informa velocemente che quando i fatti accadono il partito comunista ha appena quattro anni di vita: nient’altro. Ma l’ideologia formicola sotto la pelle e negli occhi dei piccoli abitanti di via del Corno. Maciste, l’eroe del comunismo in erba, non ha mai letto Marx e la «notte dell’Apocalisse», come un antico cavaliere, con la sua motocicletta, giocherà la pelle per un’ideologia che è sì tale ma che nello stesso tempo è superata e sublimata nella generosità e nell’altruismo, è diventata umanità. Il suo cadavere, steso a braccia aperte sugli scalini di San Lorenzo, non sarà soltanto quello di un marxista ma sarà prima di tutto quello d’un uomo. E quanto alla povertà, basteranno, a esprimerne l’istanza, nelle quasi seicento pa­gine del romanzo, due semplici righe come queste:

“La vita è una cella un po’ fuori dell’ordinario, più uno è povero più si restringono i metri quadrati a sua disposizione.”8

Sarebbe perciò errato suddividere rigidamente l’opera di Pratolini in due tempi distinti e circoscrivere il primo nei limiti del puro bozzetto rionale. Vi erano in esso i germi per gli sviluppi dell’ideologia, ovviamente favoriti anche dall’evolversi del gusto e del costume letterario, che bruscamente s’allontanava dal lirismo strapaesano e dal gusto della memoria per affrontare, appunto, le strutture ambiziose dell’«impegno» e della «ragione».

E si può definire della «ragione», il motivo di fondo del secondo tempo pratoliniano. Si prenda Bruno, il protagonista della Costanza della ragione (e questo titolo si riverbera, per la sua centralità cronologica, su tutta la trilogia della «storia italiana» 9). Nel suo atteggiamento verso il sentimentalismo e l’ostinata cecità della madre si scopre l’intento dello scrittore, la sua ribellione al vecchio modo di intendere la vita, il mondo e la società, la strenua volontà di vedere chiaro, d’essere sincero fino alla brutalità, e di guardare avanti. Per questo Bruno, pur essendo del gruppo, in parte si stacca da tutti gli adolescenti pratoliniani: proprio per l’esasperazione di un sentimento un tempo velato di pudore e incline ali’accettazione. Persine il nuovo quartiere in cui Bruno vive e agisce sottolinea questo cambiamento: Rifredi, in periferia, tra fabbriche, un complesso ospedaliere e tra profughi greci e istriani. Avrebbe forse potuto essere anche il Pignone. Ma la vecchia culla di Santa Croce e di San Frediano, quel San Frediano che aveva beffato, nelle Ragazze di San Frediano, le avventure amorose di Bob il bello, partigiano fasullo tra l’altro, oramai sono lontane.

Nella Costanza della ragione, l’abbiamo osservato, il carico ideologico talora trabocca; ma bisogna anche dire che in più di un’occa­sione esso è assorbito dalla vitalità del gruppo di ragazzi a cui Pratolini è felicemente tornato e che sono in sostanza malati di anarchismo e di libertà. Non importa che Bruno si proclami comunista, Benito fascista e Gioe magari cattolico. Importa il loro fervore di vivere. L’ideologia infatti si commisura a questa fase dell’esperienza e la genialità dello scrittore sta proprio nel coglierla qui, vaga e virulenta, mentre si stempera, si accavalla, si confonde con elementi estranei, ma assume il tono della verità. Anche in Millo l’ideologia è vera, il discreto e affezionato pretendente della madre vedova, ma è tanto più vera quanto più assimilata all’amore e assorbita in quotidianità di vita e in normale «routine» di fabbrica (la Galileo, la fantastica «Gali», a cui anche Bruno vuole arrivare).

Si lasciano volentieri da parte gli eccessi verbosi di Bruno, le lunghe tirate ideologiche e certe incongruenze del canovaccio (l’improvvisa morte di Lori, per esempio, la ragazza di Bruno). Persuade invece sin dal primo momento il rapporto tra Bruno e la madre, fondato su un sentimento elegiaco che determina persine l’insolita struttura, ad ampi recuperi del passato, del romanzo 10. La madre si ostina a sperare nel ritorno del marito disperso in guerra; vuole vivere di ricordi, almeno sino a quando (abbastanza all’improvviso) ci rivelerà certi trascorsi. Ma prima di questo, essa per Bruno è il pas­sato, è inutile e piagnucoloso sentimentalismo, è viltà; è insomma il contrario della «ragione». «Ecco perché ha i nervi a pezzi», dice Bruno: «perché non s’è mai chiesta la ragione di nulla...»11. E più avanti:

“Ma come sradicare dalla faccia della terra l’ipocrisia, la mollezza degli affetti, la pietà mescolata alla cattiveria, e la buonafede anche, la finzione che consola, l’innocenza in definitiva, se lei ne è un esemplare perfetto?...”12

Di nuovo, e con più crudele determinazione:

“Sembra che soltanto noi ragazzi si sia entrati nell’età della ragione. Di cui è obbligatorio servirsi, con accanimento, se vogliamo vedere il mondo e la gente nella parte nascosta del viso: giudicarli, questi vecchi [...]. Dobbiamo far chiaro, ce n’è bisogno come della luce per camminare; e si deve, poiché noi colpa non ne abbiamo.”13

Una delle scene più forti, nella seconda parte del romanzo, rappresenta Bruno, gelosamente ed erroneamente sospettoso dei rapporti tra la madre e Millo, mentre con violenza provoca un inutile chiarimento e l’allontanamento di quello che in realtà non era che un leale amico e quasi un tutore per lui. Si tratta di una coerente e strenua attuazione della «Costanza della ragione», la quale però a questo punto si riconferma per quello che è nel suo fondo: istinto, tipico dell’età adolescente, quasi una forza della natura. La «ragione» risulta infatti tanto più convincente quanto più rinuncia alle sue prerogative essenziali e viene invece colta nel viluppo delle passioni giovanili, nebulosa, carica di propositi e di speranze, violenta e irriducibile, a tratti balenante con sorprendente chiarezza, a tratti brancolante nel tumulto dell’animo. È a questo livello che «ragione» e ideologia divengono natura e danno vita a personaggi vivi, e nel medesimo tempo riescono a esprimere il loro messaggio: in realtà ineluttabile, per la necessità che preme dai recessi più nascosti dell’uomo, dove la vita si apre alla luce del giorno, da a se stessa una forma, in una sorta di stupefatta e aggressiva attesa.

II discorso può essere allargato a tutta la narrativa di Pratolini. Essa si con figura alla distanza, globalmente considerata, come la narrativa di una società popolare in gestazione e di un uomo –astrattamente configurato– fermato tra adolescenza e giovinezza. Giorgio Pullini (e a noi non sembra che altri abbiano centrato così bene il segno) parlò in un suo saggio di narrativa aurorale.14

Quella società, che lo stesso Pratolini ebbe a definire «ciompa», e una società rappresentata in un momento di pullulante attesa. È il momento della speranza, dei progetti vaghi e delle illusioni, talora della lotta aperta e dell’eroismo; per certuni, come per Maciste, e addirittura il momento della morte. Essa è curva sotto il peso di secoli di storia: Pratolini gode a richiamarsi a Masaccio, a Dante, al Magnifico. Ma il suo animo è nel fondo infantile e candido. Si muove in un chiuso provincialismo rionale, ancorato ad antichissime tradizioni folcloristiche (quelle rificolone delle Cronache di poveri amanti e certe fiere nella piazza di Santa Croce e altro ancora!), ma è tutta aperta all’avvenire. Vive della passione dei suoi giovani, che si macerano per uscire dalle pastoie di sempre, e che sostanzialmente la informano.

Sembrerebbe smentire tutto questo una parte di Cronache di poveri amanti. La Signora, il vecchio Nesi carbonaio, certi componenti la banda del Moro, lo Staderini, Beppino Garresi ci danno il quadro di una società vecchia e poco edificante; e alcuni di questi, come la Signora e il Nesi, sono tra i personaggi di maggior rilievo artistico e di maggior peso nell’economia della storia. Ma il grosso di questa società resta giovane e le giovani coppie la illuminano di allegria e di speranza: Otello e Aurora, Bianca e Mario, Ugo e Gesuina, Giara e Bruno (quel leggiadro e musicale motivo, insomma, dei quattro «angeli custodi», cioè le quattro ragazze in fiore di via del Corno), poi Mario e Milena, restata vedova di Alfredo, morto in seguito alla bastonatura dei fascisti, infine Eugenio e Bianca... E giovani e attivi sono gli uomini che si scontrano nelle due fazioni opposte. Via del Corno, incrostata di vita secolare, tenebrosa a tratti come l’antro del Nesi, oppressa dall’occhio libidinoso e grifagno della Signora, che vorrebbe incenerirla, è uno scrigno di vita nascente.15

Sociologicamente tale schiera è proletaria. Le sue speranze e i suoi problemi, il modo di affrontarli, il suo modo di agire e di essere, rivela una palese fisionomia classista. È chiaro che mai verrà varcato il confine con la borghesia. La speranza di questa società, la sua felicità, il suo eroismo, si esplicano prima di quel momento razionale, tipicamente borghese, che si sposa a un’oculata amministrazione di traguardi sociali oramai consolidati. La sua vita è tutta di là, in una sorta di crepuscolo o di limbo sociale, o di zona franca, in cui v’è ancora spazio per un «epos» e la lotta per un mondo migliore può estendersi in progetti sconfinati ed esaltanti.

Di questa società, e di questa natura «aurorale», Pratolini ha il genio. Lo confermano gli assai scarsi risultati che lo scrittore ha ricavato quando ha affrontato la borghesia, pur minuta, nello Scialo, o quando ha immerso uno dei suoi eroi popolari, pur in parte riuscito, Metello, nel reticolato dei patteggiamenti sindacali, costringendolo a una «routine» che è al di là della sua natura. Metello è vivo sino al momento in cui sale sul podio ideale del sindacalista: è vivo quando è ragazzo, si forma una famiglia, magari ha avventure amorose, e cerca lavoro: quando insomma è parente stretto, nonostante l’epoca diversa, dei popolani del Quartiere e delle Cronache di poveri amanti, per i quali la «routine» sindacale resta un traguardo ignoto. Alla stessa maniera il giovane Bruno della Costanza della ragione, per qualcuno addirittura nipote di Metello, convince prima della «ragione»: il lettore sente la minaccia mortale della «ragione» quando sia per tradursi in ideologia. Ed è difficile, per converso, trovare personaggio più scialbo del Giovanni Corsini dello Scialo, che incarna la piccola borghesia, impiegatuccio interessato e arrivista (finalmente viaggerà in taxi!) affannato in operazioni economiche equivoche. Lo stesso Valerio Marsili in Allegoria e derisione vive come personaggio solo quando si mescola con la teppa di San Frediano o con ragazze come Gloria, prima cioè che lo penetri il tarlo della cultura, della politica, delle idee, e la tipica petulanza ideologica del «parvenu» intellettuale.16

Se guardiamo ai personaggi, vediamo al centro Valerio, un giovane del popolo, ricco soltanto del voluminoso e patetico bagaglio della sua autobiografia. E Valerio è Pratolini. Da Una giornata memorabile a Via dei Magazzini a Memorie dell’adolescenza (percorriamo quelli che sono divenuti i capitoli del Diario sentimentale] sino agli Uomini si voltano, alle Amiche, al Mio cuore a Ponte Milvio, al Lungo viaggio di Natale, su su al Quartiere, a Cronaca familiare, alle Cronache di poveri amanti, alle Ragazze di San Frediano (escludiamo Un eroe del nostro tempo per l’eccentricità in cui si pone il romanzo nei confronti di questo nucleo, malgrado il protagonista sia un adolescente, e per il peso determinante di un’ideologia antifascista ed esasperata che trova giustificazione nella psicosi dell’immediato dopoguerra e nel pericoloso traviamento morale delle giovani generazioni), sino alla parte più genuina della Costanza della ragione: e Pratolini che narra la sua giovinezza, la sua vita sino alla maturità, sino all’incirca ai trent’anni.

Ed è, pur attraverso dolori, sofferenze, delusioni, una specie di appassionato canto alla vita, a quella perpetua meraviglia che è la sua scoperta, di ora in ora, di giorno in giorno. Vi hanno largo spazio le comitive adolescenti, le monellerie, gli amori tendenti all’idillio, le prime preoccupazioni economiche, la ricerca del primo lavoro, i rapporti con le generazioni anziane: tutto un mondo, insomma, che si affaccia alla vita, che raccoglie eredità antiche, ma è plasmabile e disponibile.

Valerio riassume bene l’anima dei giovani personaggi di Pratolini. Ci sono in lui slancio e istinto, velleità e violenza, tenerezza e passione. La «ragione» balugina come un approdo lontano, lo strumento di una vita diversa, il segno di un altro mondo e di un’altra società. Le ribellioni del giovane eroe, i suoi colpi di testa, le sue cazzottature, le avventure amorose, i lunghi ragionamenti e le discussioni con gli amici (troppo lunghi talora) sono le espressioni tangibili e commoventi della sua natura, permeata da una raffinata civiltà (quella di Masaccio) ma tradotta in termini popolari (da fiera di Santa Croce). Per essa lo squadrista in camicia nera armato di manganello non è che un antico sicario travestito e il marxismo semplicemente un vago e luminoso porto. Già a Rifredi e al Pignone questa natura vive come estranea.

E la caratterizza un fresco sentimento della vita. Malgrado l’antico dolore e la protesta in cui pure si realizza, trascorre da una scoperta all’altra e quello che alla fine si ricava è un senso ottimistico di fiducia esistenziale. Il dolore e la morte distendono ombre precoci sulla vita: basta pensare alla morte della madre e del fratello, che ispira alcune delle pagine più belle. Eppure la vita resta vittoriosa, colma della sua bellezza, puro bene di fronte al quale ogni protesta e ogni «ragione» passa in secondo ordine e che compensa quei ragazzi, primo fra essi Valerio, di ogni privazione e di ogni ingiustizia; e che educa l’animo alla pietà per il prossimo, all’amore, alla carità.17

“Un ragazzo di quindici anni può arrivare a credere che il mondo, con uomini case strade, e stadii mare alberi, sia durato fino a quel momento dei suoi quindici anni perché lui potesse liberamente percorrerlo, fidarsi in esso, e sfidarlo, avventurarsi solo, libero, fra le creature e le cose, meravigliosamente.”

Queste parole si leggono nel capitolo Mio padre, contenuto nel Diario sentimentale (p. 191), uno dei più belli di Pratolini. Esso dice bene il senso della scoperta del mondo malgrado i dolori della famiglia e la separazione dal padre; e giunge a toccare direttamente, come forse in nessun altro punto, la felicità di vivere, vista attraverso le lacrime di una sofferente separazione (p. 192):

“Così, lungo degli anni, ogni tanto su una strada qualunque della città, padre e figlio s’incontravano, gli sguardi e le mani traboccanti d’affetto, sorvegliandosi nelle parole, tacendo la reciproca miseria, felici del dono che era stato loro riservato, d’essere vivi sulla terra: s’il­luminava negli occhi d’entrambi la pupilla.”

Circoscrivere il genio narrativo di Pratolini entro questi confini umani e sociali, secondo noi, non significa limitarlo. Esce, da questa area, una precisa visione del mondo, senza la quale, ovviamente, non esiste vero scrittore. Nel medesimo tempo s’avvertono le radici che scendono nel passato di una tradizione novellistica e cronistica tipicamente fiorentina. Dietro l’«epos» popolare pratoliniano, talora comico e arguto –anche se più spesso patetico e lirico– sta quella vena che dal Boccaccio e dal Sacchetti sale su, attraverso minori come il Velluti e il Morelli, per giungere agli approdi, pur imborghesiti, di un Palazzeschi memorialista o di un Cicognani. Dentro la cornice dei vicoli fiorentini è sempre quella pasta umana che si agita e se i giovani come Valerio possono evadere in un’atmosfera di sogno, certo i vecchi come il Nesi o lo Staderini ne sono pieni. In questo senso è accettabile la definizione di Luigi Russo di un Pratolini «poeta del suo quartiere» (anche se è doveroso aggiungere: e della giovinezza).18

Con tono elegiaco Pratolini torna ai suoi anni fiorentini in una minuscola «plaquette» di dodici poesie stampata presso Scheiwiller (’67), dal titolo La città ha i miei trent’anni. Di primo acchito sorprende il piccolo «exploit» poetico; ma in realtà esso riconferma l’atmosfera e l’ambiente di tutta la sua «prima» narrativa, il sentimento che la nutriva e persino l’area culturale che in essa si delineava intorno agli Anni Trenta. Le poesie furono scritte tra il novembre ’43 e il maggio ’44 «durante l’occupazione tedesca di Roma». Confessa Pratolini: «Ancora oggi vi ascolto l’eco tutta privata d’una breve stagione della vita, forse la più felice ».

«La città ha i miei trent’anni», canta Pratolini: ha cioè gli anni dell’amore, delle meravigliose scoperte della vita, degli amici più cari, di certi luoghi indimenticabili, di certe letture: Petrarca, Dante, Montale, Esenin, Mallarmé, Lorca...; e certi films, e certi miti, come il Messico rivoluzionario («Wallace Beery e Lister eran la stessa cosa»).

Una poesia, per esempio, è dedicata a Quartiere e vale non solo come confessione sentimentale ma come un’illuminante indicazione critica: e non è necessario aggiungere altro, perché proprio in esso, lirismo e ideologia emergono con spicco e foga non più eguagliati (p. 14):

Ecco questo è il libronel quale vi pregose io cadrò voi che rimarretedi scorgere la mia figura stellareuna presenza amorosa un calmo addio.

In mezzo ai ricordi, a un «miele di fanciulle e di fame» (e c’è tutta la «prima» narrativa di Pratolini in questo verso, e il senso di quegli anni), spunta il motivo politico e conferma il suo antico germinare. Ci furono, in un certo tempo, disordini a Torino? Poté balenare una speranza? «Rammenta», dice lo scrittore alla sua donna. E nell’elegiaco rintoccare di questo ammonimento, ideologia e memoria si fondono nell’atmosfera giovanile tipica di Quartiere e di Cronache di poveri amanti, e l’ideologia resta vitale motivo d’arte (pp. 17-18):

A Torino rammentarammenta   sempre,   amore,per quando saranno spenti la fame e il geloche ci trovano sazi dei nostri baci
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Fu a Torino,  rammenta per quandosarà leggenda la cattività di torturala sorda morte ora ad ogni angolodi strada ad ogni rampa di scale 
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
rammenta per quando nascerà il figlioe gli darai il latte del tuo seno gioiosoper quando l’Italia farà le sue vendette...

Giovinezza, amore, felicità di vivere e speranza politica (la vendetta) fanno tutt’uno. E più avanti, mentre risuonano «le raffiche di mitra» e la Resistenza mostra il suo volto, ecco i dubbi e i timori che saranno destinati ad accentuarsi e divenire amarezza e, come s’è visto, addirittura « derisione » e coscienza di una forse insuperabile «ambiguità» storica (p. 22):

Oppure siamo destinatia portare nel tempodella ricostruzione e della paceeterno questo odio e questa desolazione?

Estremamente libere e sciolte, invece, e anch’esse illuminanti della poetica pratoliniana, alcune parole alla figlia (p. 23):


Saranno davvero

per te
figlia
libertà e amore
un’unica parola?

E non sono libertà e amore i due sentimenti fondamentali, intorno a cui ruota il vivere dei giovani pratoliniani, i cardini di una poetica che è quella della stagione meravigliosa che precede la vita?

La Firenze dei trent’anni è la stessa di questa poetica: la Firenze di Valerio e di Olga, di Santa Croce e di San Frediano, del nonno socialista e del padre cameriere. È la Firenze popolana che accetta, al limite, il Bruno esasperato della «Gali» e che rifiuta i Giovanni Corsini e in buona parte anche i Valerio Marsili e i Metello: una Firenze addirittura che cacciò da sé quel tristo « eroe del nostro tempo » che si chiamava Sandrino. Una Firenze che non sopporta «impegno» il quale non salga dal suo antico sangue e dalle sue pietre ferrigne, in forma di secolare protesta, patimento e sofferenza di padri e di figli, e che possa conoscere le gioie limpide dell’amore e della giovinezza, quelle che sono riservate all’età che precede la «ragione».

Sono l’età e la Firenze che anche Valerio Marsili ha conosciuto. Peccato che la vita lo abbia trascinato oltre, in un tempo in cui non sembra più possibile quel sentimento ineguagliabile del vivere.



da: Gli anni Sessanta. Narrativa e storia, (Rizzoli, 1969)


Note

1 L’intervista, concessa a Gian Franco Venè, comparve sull’«Europeo», 8-12-’66. Diceva, tra l’altro, Pratolini: «L’impegno è permanente: differiscono le sue manifestazioni, non i suoi obiettivi».
2 In una intervista a Carlo Bo, comparsa sull’«Europeo», 24-7-’60, Pratolini dichiarò: «Supposi [...] che i nostri mali si potessero far risalire all’indomani del­l’Unità. [...]. Nell’età umbertina, non il censo dominante, e “le storiche benemerenze della storica destra” avevano portato avanti l’Italia, avevano fatto Europa tra noi, ma la classe operaia, ai suoi albori rivoluzionari [...]. Né [...] era stata vera egemone nel secondo ventennio del secolo la grossa borghesia [...]; la classe operaia nemmeno, la cui evoluzione e le cui lotte, il cui autentico e oscuro eroismo, erano culminati in una disfatta terribile, ma la media e piccola borghesia, con le sue remore, il suo conformismo, il suo quietismo...». (Tale schema può essere completato nel suo spirito dalle prime righe della «parte seconda» dello Scialo [p. 338]: «Le cronache d’Italia sono un susseguirsi di faide, di scontri di fazione, di lotte civili. Su di esse hanno sempre finito per imporsi le dittature...». Va tuttavia, per l’esattezza, registrata l’intenzione di trasformare la trilogia in tetralogia, con un nuovo romanzo dal ’45 a oggi, come si legge in una recente dichiarazione di Pratolini ad Antonio Sacca, in Opera aperta, 8-9 aprile ’67, p. 23.)
3 La costanza della ragione (Mondadori, ’63), p. 450: «Che fare? Non lo so. So tuttavia che non si pongono più in termini di rivoluzione i nostri problemi. Da ariete ci siamo trasformati in staccionata. Ci appassionano ora i sindacati, può essere una strada?».
4 Nella citata intervista a Carlo Bo. Aggiunge pure Pratolini: «La crisi del neorealismo, che risale a quegli anni, come il suicidio di Pavese e il silenzio che noi sappiamo quanto operoso di Vittorini, coincidono con il mio brusco voltar pagina». In un’altra intervista, concessa a G. A. Cibotto per «La Fiera letteraria», 8-1-’65, così definirà la sua narrativa, succeduta a quella «uscita all’ombra della memoria» [Gibotto]: «l’approfondimento realistico e critico delle premesse liriche e memorialistiche contenute in quei libretti».
5 II quartiere (Mondadori, ’66) p. 33.
6 Op. cit., p. 90.
7 Diario sentimentale (Mondadori, ’62) p. 290.
8 Cronache di poveri amanti (Mondadori, ’66) p. 36.
9 In una intervista al «Corriere della Sera », 5-5-’63, Pratolini chiarì la genesi della Costanza della ragione, venuta a interrompere la stesura continuativa della Storia italiana, definendolo un «libro anticipato» (come a suo tempo fu un «libro anticipato» Un eroe del nostro tempo). Disse tra l’altro: «La costanza della ragione vuole essere, semmai, la risposta, appunto anticipata, agli interrogativi rimasti naturalmente aperti sulle pagine di quei due primi libri della trilogia».
10 Meriterebbero più estesa trattazione, se secondo noi non si arrestassero alla buccia dell’opera, le novità formali e strutturali della Costanza della ragione e di Allegoria e derisione, rispetto alla linearità narrativa consueta a Pratolini, un tempo appena qua e là interrotta dagli inserti epistolari o diaristici. Pratolini stesso ha richiamato l’attenzione sulla novità strutturale della Costanza della ragione nella citata intervista al «Corriere della Sera». Tra i critici militanti, vi ha particolarmente insistito Luigi Baldacci (che già l’aveva rilevata nella Costanza della ragione, in «Epoca», 12-5-‘63), nella recensione ad Allegoria e derisione, «Epoca», 11-12-’66: «Si potrebbe dire che questa forma nuova di scrivere un romanzo denunciando l’impossibilità – oggi – del romanzo tradizionale, è anche il contenuto più autentico di Allegoria e derisione».
11 La costanza della ragione (Mondadori, ’63) p. 40.
12 Op. cit., p. 41.
13 Op. cit., p. 87.
14 Nel Romanzo italiano del dopoguerra, p. 126. Pullini tuttavia limita l’osservazione a Quartiere: «È un romanzo di giovani e non potrebbe non esserlo, dato il temperamento dell’autore: anzi, possiamo dire che, finora, il mondo di Pratolini è un mondo di giovani, dall’adolescenza alla prima maturità: un mondo aurorale, di esperienze appena iniziate e non ancora portate a termine, di contatti attesi, cercati, tentati e vissuti nel pieno delle energie fisiche e morali, prima che sopravvenga un senso di stanchezza, di adattamento».
15 Giorgio Pullini, nel saggio citato, non solo rileva come le simpatie di Pratolini sino alle Cronache di poveri amanti, andassero ai giovani, ma aggiunge che «i maturi (la Signora, il Nesi) partecipavano già di certe esasperazioni psicologiche e fisiologiche che ci richiamavano un po’ la narrativa di appendice...» (p. 143). Al Nesi e alla Signora andrebbero almeno aggiunte Ninì, dallo Scialo, e nonna Celeste, da Allegoria e derisione, per riconfermare, «ex contrario», il genio adolescente di Pratolini. Che poi i personaggi più estrinsecati e suggestivi siano giovani donne (e le annoverò Cecchi), sembra ribadire la nativa propensione dello scrittore per le psicologie irrazionali e istintive, e indicare nella femminilità la maturità maggiormente perseguibile dalla sua arte di narratore. Né ci sembra che le donne «intellettuali» («chiamate a vivere accanto a degli intellettuali»: vedi intervista a G. A. Gibotto, «Fiera letteraria», l-12-’62), «altra categoria» rispetto a quelle tradizionali, di Allegoria e derisione, arricchiscano la loro natura in maniera persuasiva. Ma il discorso porterebbe lontano.
16 Pietro Pancrazi, uno dei primi e più acuti critici di Pratolini, e dallo scrittore fra i più stimati (vedi l’intervista concessa a Bo), ebbe a scrivere nel lontano ’49, recensendo Un eroe del nostro tempo (Scrittori d’oggi, «Serie quinta», Bari, ’50, p. 80): «E neppure direi che Pratolini abbia vera imboccatura ai toni pensosi o politici, e insomma alle idee...». Recensendo poi Cronache di poveri amanti aggiunse: «la sua musa potrà anche diventarlo, ma certamente non nacque petroliera» (ivi, p. 75). Emilio Cecchi, un altro dei più affezionati critici di Pratolini, che pure difese Metello, non esitò a definire Pratolini «un lirico del romanzo» (si vedano nel «Corriere della Sera», 22-6-’60 e 14-6-’63 le recensioni allo Scialo – «Un romanzo inflazionista» – e alla Costanza della ragione).
17 «Mai crudele verso gli uomini...» dice giustamente Francesco Flora nell’ampio saggio dedicato in gran parte alle Cronache, in «Letterature moderne», luglio-agosto ’51, p. 381.
18 Nella citata intervista, concessa a Carlo Bo, Pratolini rivela di aver « rubato » a Donato Velluti, il trecentesco cronista fiorentino autore di un’affettuosa e rionale Cronaca domestica, il titolo di Cronaca familiare; e ricorda di aver dedicato un saggio al Sacchetti. Né tralascia di impugnare che studiosi come Sapegno, Schiaffini e Devoto si sono accorti degli echi della tradizione nei suoi scritti. «Suoni, aria, conforto, spinta, sono per me, riportati nelle letture, i narratori e i cronisti del Trecento».

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