Andrea Capra* | Quasimodo e i Lirici Greci 1

Il paradosso dei Lirici greci A distanza di quasi settant’anni dalla loro prima pubblicazione, i Lirici greci di Quasimodo sono p...



Il paradosso dei Lirici greci


A distanza di quasi settant’anni dalla loro prima pubblicazione, i Lirici greci di Quasimodo sono per il lettore di oggi un’esperienza strana. Quasimodo da tempo ha perso quella centralità che in passato gli era riconosciuta, ed è ormai quasi scomparso dalle più recenti antologie e letterature italiane. Del resto, una sommaria ricognizione bibliografica è sufficiente a constatare come i contributi critici a lui dedicati –salvo un effimero sussulto in occasione del centenario della nascita– si siano malinconicamente diradati a partire dagli anni Settanta 2.

Eppure, proprio i Lirici continuano a essere un’opera molto amata, l’unica che abbia in qualche modo resistito alla sfortuna postuma del poeta:

Il suo più vero contributo originale alla poesia del nostro secolo non è da riconoscersi nella produzione creativa, ma nelle traduzioni dei Lirici greci, che sono uno dei documenti più significativi del-l’intera stagione ermetica 3. 
...la traduzione dei Lirici greci (1940) [...] rappresenta il risultato più duraturo di tutta l’attività letteraria di Quasimodo 4.

Questi giudizi, rispettivamente di Edoardo Sanguineti e Romano Luperini, inquadrano bene –e certo hanno largamente contribuito a creare e diffondere– la vulgata critica di oggi. Dunque un Premio Nobel per la letteratura è oggi letto quasi soltanto per le sue traduzioni di poeti vissuti oltre 2500 anni fa. Ecco un primo paradosso, che ne contiene in sé uno speculare: intere generazioni di lettori si sono accostati a Saffo, Alceo e altri lirici greci attraverso le traduzioni di un poeta che notoriamente del greco aveva una conoscenza limitata. Proprio per questo la pubblicazione dei Lirici, dal forte taglio anticlassicistico e antiaccademico, fu accompagnata da polemiche roventi che non vale la pena di rievocare, se non per l’eco –ormai stemperata in un giudizio equilibrato– ancora percepibile nelle parole di Filippo Maria Pontani:

La versione del Quasimodo, apparsa nel 1940, rivoluzionaria e rivelatrice, resta storicamente e qualitativamente importante. Fece giustizia della magniloquenza classicistica, delle cincischiature decadentistiche, delle piattezze scolastiche [...] e riuscì a tendere il linguaggio, liberato da rimbombi e rinverginato nella cadenza del verso e del fraseggio, verso l’essenzialità degli originali. Il limi-te del Quasimodo fu l’inadeguato possesso del greco, che lo portò a gravi abbagli, fraintendimenti e arbitrii di cui è inutile fare scandalo, ma che vanno ascritti a suo carico 5.

Pontani scriveva queste cose nel 1969, a prefazione dei suoi Lirici greci, che alla scarsa acribia di Quasimodo oppongono una fedeltà a tratti virtuosistica, consapevolmente fondata su «un impegno
di medesimazione di filologia e poesia, che è la sola condizione di validità della resa» 6.

Un Quasimodo infedele, dunque, i cui errori, peraltro fecondi, sono facilmente spiegabili alla luce della temperie culturale di quegli anni, come ben chiarisce –con sensibilità di poeta, critico e attento osservatore della società– un saggio di Franco Fortini:

Si trattò della felicissima contaminazione di testi che la condizione di frammento sottraeva a una lettura storica e di una lingua italiana di grande trasparenza e semplicità. Si può dire che i modi di quella poesia abbiano introdotto una assai vasta società di lettori all’amore per l’attonito arcaismo, l’atemporalità, i brevi testi carichi (in apparenza) di significati occulti, che hanno reso possibile non solo una larga imitazione ma un vero e proprio mutamento del gusto 7.

I (de)meriti storici delle traduzioni di Quasimodo sono dunque ormai un fatto assodato, e tuttavia «appare un po’ sorprendente che alla vastità della bibliografia critica sul poeta faccia riscontro una notevole scarsità di studi specifici sulle singole traduzioni e sui modi complessivi del tradurre quasimodiano» 8. Questa scarsità rappresenta un ulteriore paradosso, che dovrebbe costituire uno sprone alla ricerca. Cercherò nel mio intervento di suggerire qualche possibile prospettiva di indagine, per una verifica –anche alla luce di recenti e importanti progressi nella conoscenza della lirica e in generale della civiltà greca arcaica– delle posizioni via via assunte dalla critica.


«Siculo greco»

Sire, Eccellenze, Signore, Signori, il premio per la letteratura quest’anno è il poeta italiano Salvatore Quasimodo, di origine siciliana, nato vicino a Siracusa e, più esattamente, nella cittadina di Modica, a una decina di chilometri dalla costa. Non è difficile immaginare quanto il luogo natio abbia significato per la sua vocazione futura. Gli antichi templi greci dell’Isola, i grandi anfiteatri presso il mare Jonio, la mitica fonte di Aretusa, le gigantesche rovine di Girgenti e di Salinunte: quale scenario per la fantasia della sua fanciullezza! Qui gli eroi della poesia ellenica sono stati ospiti del re Gerone, qui le voci di Pindaro e di Eschilo perdurano come un’eco antica attraverso il tempo.

Queste parole 9 aprono il discorso di Anders Österling per il Nobel a Quasimodo, e la Grecia vi gioca un ruolo fondamentale 10. Quasimodo, si sa, era incline a una sorta di mitologia personale, in cui fantasia e vanità si fondono inestricabilmente. Questa tendenza si nota fin dal nome e dalla patria: il banale Quasimòdo si mutò nel più esotico ed eufonico Quasìmodo, e d’altra parte il poeta si spacciò per Siracusano, la città del cognato Vittorini: di qui le parole compromissorie e forse un po’ imbarazzate di Österling a proposito delle origini del poeta. Quest’ultimo punto è senz’altro interessante per il nostro tema: alla barocca Modica si sostituisce la «greca» Siracusa, un elemento non trascurabile nella costruzione di quella sorta di identità ellenica così importante per Quasimodo 11.

Del resto, la nonna materna era di Patrasso, una «prova inconfutabile» –ha sostenuto ancora di recente il figlio Alessandro– «della matrice greca del poeta» 12, che nella lirica Micene (1958) definì se stesso con la celebre espressione di «siculo greco»:

Sulla strada di Micene alberata
di eucalyptus puoi trovare formaggio
di pecora e vino resinato “À la belle
Hélène de Ménélas”, un’osteria
che svia il pensiero dal sangue
degli Atridi. La tua reggia, Agamennone,
è covo di briganti sotto il monte 
Zara di sasso non scalfito
da radici a strapiombo su burroni 
sghembi. I poeti parlano molto di 
te, dell’invenzione del delitto 
nella tua casa di crisi,
del furore funebre di Elettra,
che nutrì per dieci anni con l’occhio 
del sesso il fratello lontano
al matricidio, parlano i diabolici 
della logica della regina,
la moglie del soldato assente 
Agamennone, mente, spada tradita. 
E tu solo ti sei perduto,
Oreste, il tuo viso scomparve senza 
maschera d’oro. Ai Leoni della porta, 
agli scheletri dell’armonia scenica 
rialzati dai filologi delle pietre,
il mio saluto di siculo greco.


In questi versi, riflesso neanche troppo mediato –come altre liriche della raccolta– di un viaggio turistico in Grecia, si nota fin da subito la ricerca di un contatto immediato e «popolare» con la terra dei miti, al riparo dalle fosche vicende di cui quei luoghi furono teatro letterario. Se Quasimodo beve retsina alla «Belle Hélène» 13, in un contesto segnato –come la sua Sicilia– dalla presenza di una natura selvaggia ed esposta al brigantaggio, ecco invece che «i poeti», insieme ai meno perspicui «diabolici», «parlano molto» dei miti di Micene. L’evocazione di quelle fosche vicende sembra funzionare come una recusatio non molto benevola: gli altri si occupano di Micene da un punto di vista letterario (i «poeti»), forse psicologico (i «diabolici») e peggio ancora archeologico (i «filologi delle pietre»); Quasimodo, invece, abbraccia senza sforzo la selvaggia bellezza del paesaggio greco e l’ospitalità del suo popolo.

Con ogni probabilità, la menzione dei «poeti» –accompagnata com’è a quella dei «diabolici» e dei «filologi delle pietre»– va intesa come un riferimento a fatti letterari anche moderni: di soli quattro anni prima (1954), per esempio, è la pubblicazione dell’Electre di Marguerite Yourcenar 14. È comunque da escludere un riferimento malevolo a Eschilo, che anzi figura negli scritti di Quasimodo come una specie di alter ego del poeta. Vediamo i versi di A un poeta nemico:

Sulla sabbia di Gela colore della paglia
mi stendevo fanciullo in riva al mare
antico di Grecia con molti sogni nei pugni
stretti nel petto. Là Eschilo esule
misurò versi e passi sconsolati,
in quel golfo arso l’aquila lo vide
e fu l’ultimo giorno. Uomo del Nord, che mi vuoi
minimo o morto per tua pace, spera:
la madre di mio padre avrà cent’anni
a nuova primavera. Spera: che io domani
non giochi col tuo cranio giallo per le piogge.

Qui la figura del «siculo greco» assume contorni più precisi: Quasimodo accredita per se stesso l’immagine di un erede di Eschilo, il poeta di Eleusi che scrisse per il teatro della democrazia ateniese ma non disdegnò le tirannidi di Siracusa e di Gela, dove trovò la morte. La poesia allude un po’ oscuramente alla leggenda, variamente tramandata, della morte di Eschilo: un’aquila avrebbe lasciato cadere sulla sua testa calva la tartaruga che ghermiva nel becco 15. Questo, mi pare, introduce il motivo del cranio nella seconda metà della poesia, ma dal nostro punto di vista il vero interesse di questi versi sta nell’evidente equiparazione con il tragediografo greco, ricca di echi letterari. Il poeta si stende «fanciullo in riva al mare / antico di Grecia», con un richiamo direi abbastanza scoperto al «greco mar» del «fanciulletto» Foscolo steso sulle sponde di A Zacinto, e quindi all’esperienza di un altro grande poeta italo-greco. Anche Eschilo, specularmente, è presentato come un greco-siculo, ma la sua immagine non richiama le platee plaudenti degli assolati teatri greci, tutt’altro: Quasimodo privilegia piuttosto un’incongrua immagine solitaria e malinconica, con accenti che direi petrarcheschi («Solo e pensoso i più deserti campi / vo misurando a passi tardi e lenti...») 16.

Questo Eschilo pensoso e solitario si trova anche in un altro componimento della serie greca «turistica» 17. Mi riferisco a Eleusi, che è poi il paese natale di Eschilo:

Un generale ha innalzato a Eleusi
una torre di cemento e piombo
con l’orologio che batte di notte
le cifre dei misteri...
...Là Eschilo parlava a Ecate lunare:
Che c’è di bene
che c’è privo di male?

Anche in questo caso, Quasimodo si riallaccia alla tradizione bio-grafica, che faceva di Eschilo un adepto del culto misterico eleusino, e al tempo stesso la «citazione» Che c’è di bene / che c’è privo di male? riproduce un verso delle Coefore, in cui Elettra dialoga con il coro 18. Ne emerge però un’immagine non poco anacronistica: il verso pronunciato da Elettra, sdoppiato in due, diviene una pensosa interrogazione notturna e lunare sul senso della vita, che mi pare richiami irresistibilmente certe atmosfere leopardiane, e in particolare le brevi e spezzate domande alla luna del pastore errante nel Canto notturno 19.

Questi e simili esempi mostrano bene le credenziali che Quasimodo sentiva di avere nel suo approccio ‘immediato’ al mondo greco: un’eredità geografica e per così dire naturale, che tuttavia –a ben guardare– rivela tratti letterari marcati, perfino ingenui.

Lirismo solitario

La figura «lirica» e «solitaria» di Eschilo può valere da chiave di lettura per meglio comprendere l’accostarsi di Quasimodo alla poesia greca. Il rapporto con l’antico è largamente mediato da esperienze poetiche moderne, tanto che l’Eschilo di Quasimodo –attraverso un gioco di richiami fin troppo facile– ripercorre la via maestra della lirica italiana: Petrarca, Foscolo, Leopardi. Si tratta di un evidente travisamento della realtà storica, perché Eschilo, l’eroe di Maratona che l’Aristofane delle Rane avrebbe voluto risuscitare quale maestro degli Ateniesi, è invece l’esempio migliore di una voce poetica decisamente pubblica, progressiva, organica alla società: insomma, quanto di più lontano dalla solitudine meditabonda che Quasimodo gli attribuisce.

La metamorfosi di Eschilo è interessante proprio perché estrema e particolarmente inverosimile: a maggior ragione c’è da aspettarsi un simile travisamento nel caso dei lirici greci, la cui vicenda biografica e poetica è più evanescente –non ne sappiamo quasi nulla– ed esposta alla manipolazione, come ben notava Fortini. Vediamo, per esempio, le considerazioni svolte da Quasimodo nel saggio Traduzioni dai classici:

Il desiderio d’una lettura diretta dei testi di alcuni poeti dell’antichità mi spinse, un giorno, a tradurre le pagine più amate dei poeti della Grecia. Il greco ritornava a essere ancora un’avventura, un destino a cui i poeti non possono sottrarsi. Le parole dei cantori che abitarono le isole di fronte alla mia terra ritornarono lentamente nella mia voce, come contenuti eterni, dimenticati dai filologi per amore di una esattezza che non è mai poetica e qualche volta neppure linguistica. E la prima fu Saffo, l’isolana a cui Omero aveva data la sua cadenza più alta, il grido più desolato della sua umana e provvisoria giornata [...] Sentivo, rileggendo i testi, che qualche cosa di quelle voci, di quei «numeri» (anche se non equivalenti) era passato nella nostra lingua. A me bastava, forse bastava a molti altri, che ritornavano a leggere i greci al di là dei ricordi scolastici, liberi da una costrizione filologica severa e qualche volta presuntuosa 20.

Ritornano qui, potenziati, tutti gli elementi che già abbiamo intravisto: l’idea di una lettura immediata, «diretta» dei lirici, la polemica antifilologica, e soprattutto il privilegio «geografico» di un’eredità greca isolana 21, nonché l’interpretazione della poesia antica secondo il paradigma che potremmo definire del «lirismo solitario». I lirici sono collocati nelle «isole di fronte alla mia terra», concetto geografico piuttosto fumoso: l’isola di Saffo è l’orientale Lesbo, a un passo dalla Troade, sicché è perlomeno stravagante parlarne come di un’isola che sta di fronte alla Sicilia.

Quasimodo ricorre insomma alle consuete forzature tese ad accreditare un’identità greca come ritorno alle origini, e in questo quadro l’«isolana» Saffo appare come un nuovo, potente alter ego, naturalmente secondo il paradigma del «lirismo solitario», che si declina qui in uno stupefacente «grido desolato».

Queste considerazioni di Quasimodo risalgono al periodo post-bellico, che nel giudizio di molta critica rappresenterebbe una seconda fase della sua poesia 22. Altri sottolineano invece gli elementi di continuità, ma se non altro si può dire con certezza che soltanto dopo la guerra Quasimodo sviluppò una poetica esplicita, mentre le prime e più famose raccolte poetiche non furono accompagnate da una riflessione teorica, almeno pubblica 23. Tuttavia, ci soccorrono qui le lettere di Quasimodo all’amata Maria Cumani, da cui emerge, precocemente, un’appassionata identificazione con la poesia di Saffo:

Stanotte sono stato con Saffo. Io pensavo di dire a te quelle parole (la traduzione dal greco la troverai trascritta dietro questo foglio) della poesia più alta dell’antichità, e quello che di greco c’è nel mio sangue s’è svegliato. Forse sono riuscito (ma ancora non sono contento) a ritrovare la voce del poeta: in qualche punto certamente. Ma, se ti capita, confronta la traduzione tentata da Foscolo della stessa ode e vedrai quanto il melodramma abbia reso ridicola quella purissima poesia. E quella di Pascoli? Ma non è superbia la mia. Sono stato aiutato dal tuo amore… (10 luglio 1937, h. 4.10) 24.

Temi consueti, ma espressi con un’enfasi particolare: la continuità con i Greci diventa qui addirittura un fatto di sangue. Quasimodo ha appuntato l’ora notturna, le quattro e dieci del mattino: ecco il «lirismo solitario» al suo zenit notturno. E ancora, tre giorni dopo:

...Io sto traducendo la più lunga lirica di Saffo che ci rimane. Tralascio di tradurre i frammenti di pochi versi (forse qualcuno dei più intensi, no) perché la lettura del testo greco dà immediatamente tutto quello che il poeta voleva rendere. Sono inizi di canto, momenti di grande abbandono. Eccone uno, «per te»: 
«È tramontata la luna e le Pleiadi:
è mezzanotte. L’ora fugge e io giaccio sola». 
Anceschi (che ti ringrazia della cartolina) è rimasto assai impressionato della prima traduzione. Naturalmente è una Saffo veduta e sentita da me, ed ecco che quelle parole suonano come nelle mie migliori liriche... (13 luglio 1937) 25.

Sulla traduzione di questo frammento di Saffo torneremo; per ora notiamo ancora l’«abbandono», ulteriore espressione di «lirismo solitario», e infine l’importante ammissione finale: è una Saffo tutta di Quasimodo, «veduta e sentita» da lui, con un timbro poetico che fa delle sue traduzioni qualcosa di simile alle composizioni originali. Un’ammissione contraddittoria rispetto alla pretesa di aver reso Saffo fedelmente, e comunque molto meglio di Pascoli e Foscolo? Forse no: dal punto di vista «presuntuoso» di Quasimodo la vicinanza «di sangue» rende questa Saffo al tempo stesso fedele e intimamente sua, e anche su questo bisognerà ritornare.

Il «lirismo solitario» di Quasimodo può essere valutato, credo, anche in un’altra prospettiva. Della poesia lirica greca non è purtroppo sopravvissuto molto, e fra l’altro quel che è rimasto ci è spesso giunto in condizioni molto precarie: brandelli di papiro, pezzetti di coccio, citazioni molto parziali –magari ispirate a curiosità grammaticali o linguistiche– presso autori più tardi. Di questo già magro corpus Quasimodo trasceglie soltanto una piccola parte, e il criterio di selezione non pare casuale. Pindaro è l’unico lirico greco di cui sia rimasto un numero congruo di odi complete, ma Quasimodo non traduce neppure un verso di questo poeta. Saffo —ormai lo sappiamo— è la sua voce preferita, ma anche qui siamo lontani dall’esaustività. Nella lettera a Maria Cumani, Quasimodo diceva di aver tralasciato «i frammenti di pochi versi», ma a ben guardare non questo è il criterio che lo ha guidato: ammettiamo pure che Pindaro, autore di lunghi componimenti encomiastici ai suoi occhi troppo «ufficiali» 26, non incontrasse il suo favore, che dire del lungo frammento in cui Saffo narra le nozze di Ettore e Andromaca? Con i suoi 32 versi, questo è il componimento più lungo –seppur frammentario– che abbiamo della poetessa, ma Quasimodo non lo ha tradotto 27. In realtà, un esame dei canti inclusi nella raccolta mostrerebbe che Quasimodo ha accuratamente evitato di tradurre poesie in cui si trovano narrazioni mitologiche, evidentemente perché la narrazione, ai suoi occhi, è antitetica al lirismo solitario. Una prova di questo la fornisce Luciano Anceschi, l’amico filosofo che Quasimodo menziona nella lettera e che ebbe il merito di lanciare –con una famosa introduzione– i Lirici greci. Ora, Anceschi parla di una «rigorosa purezza lirica», e poco oltre dice: «Oggi, infine, nel nostro gusto e tempo (nascosto) del cuore al centro della poetica spiritualità della Grecia stanno i grandi lirici, e per essi noi daremmo tutto Omero – epico e narratore» 28. È un «noi» che senza dubbio include anche l’amico Quasimodo, e una conferma decisiva mi pare venga da una nota del poeta alla sua traduzione di un Partenio di Alcmane:

PARTENIO È qui tradotta la seconda parte del Partenio. La prima, di contenuto mitico, cantata dal coro e di scarsissimo valore poetico, è giunta a noi in condizioni tali da escludere un tentativo di traduzione.

Di nuovo, Quasimodo invoca ragioni «tecniche», l’impossibilità di tradurre frammenti troppo mal ridotti, ma sappiamo bene che –in altri casi– egli non arretra neanche di fronte a testi in condizioni veramente disperate. La ragione è un’altra: «lirismo solitario» e narrazione mitologica sono ai suoi occhi incompatibili, e in questa fase della sua vita quella di Quasimodo è una scelta secca a favore del primo 29.

La lirica greca ieri e oggi: e Quasimodo?

L’equivoco del «lirismo solitario» è naturalmente un incidente di percorso ampiamente prevedibile, se si pensa al periodo in cui i Lirici greci videro la luce. Ricordiamo le parole di Fortini: la condizione di frammento «sottraeva a una lettura storica» quegli antichi testi, e d’altra parte il pubblico era probabilmente pronto a recepire il gusto di un «attonito arcaismo». Il gusto del frammento poetico –per citare un arguto critico– portò Quasimodo a scambiare dei «frantumi» di narrazione –questo sono in certo modo i malconci resti della poesia greca– per «frammenti» lirici autosufficienti, capaci di rivelare sublimi profondità 30. Ma qual è, poi, la «lettura storica» della lirica greca? Non sarà il caso di valutare l’esperienza di Quasimodo alla luce del mutevole panorama della critica 31?

«Poesia lirica» è un’etichetta formata da due parole greche, ma si tratta in realtà di una categoria postuma, che comprende l’antica poesia giambica, elegia e «melica», ossia cantata, nonché, spesso, forme di poesia più tarde, come emerge proprio dalla lista di componimenti che Quasimodo inserisce nei suoi Lirici. Queste forme di poesia erano chiaramente percepite dai Greci come generi distinti, accomunati da somiglianze abbastanza vaghe, non più forti di quelle che intercorrono –per esempio– fra epica ed elegia, o fra giambo e commedia. Perfino la «melica», un tipo di poesia che era generalmente eseguita con l’accompagnamento della lira, ha poco in comune con la nozione moderna di poesia lirica. Per quanto ne sappiamo, la «melica» –il genere di Saffo– fu chiamata «lirica» solo dagli eruditi alessandrini, e la prima apparizione letteraria di questo termine risale addirittura a Orazio, che se ne serve in riferimento alle proprie Odi nonché ai loro modelli greci 32.

Certo, alcuni studiosi già negli anni della giovinezza di Quasimodo erano ben consapevoli che in Grecia una «poesia lirica» modernamente intesa non esisteva affatto 33, ma questo non ha impedito che un concetto in ultima analisi romantico di lirica influenzasse profondamente il comune sentire riguardo alla poesia della Grecia arcaica.

Nell’opporre la purezza lirica al discorsivo e mitologico Omero, Quasimodo e l’amico Anceschi riflettono dunque un punto di vista comune, che a pochi anni di distanza dalla pubblicazione dei Lirici greci avrebbe trovato la sua formulazione più celebre nel fortunatissimo libro di Bruno Snell Die Entdeckung des Geistes. Entstehung des europäischen Denkens bei den Griechen 34. Snell interpretò il senso comune quando definì la lirica greca «la prima rivelazione della soggettività» dopo l’era anonima e «oggettiva» della poesia omerica. Si tratta di una visione teleologica della civiltà greca ed europea, che vede nella lirica greca un importante passo in avanti lungo un percorso –non privo di compiacimenti eurocentrici– che avrebbe portato alla definitiva «scoperta del pensiero». I presupposti di questo modello interpretativo, dominante almeno fino agli anni Sessanta, si possono riassumere in quattro punti:

emozione: la lirica è espressione diretta dei sentimenti del poeta;
biografismo: la lirica riflette chiaramente le esperienze biografi-che dell’autore;
letterarietà: la lirica è il prodotto di una scrittura artistica;
evoluzione: la lirica è un’‘era’, che fa da ponte fra epica arcaica e teatro e filosofia classici.

Di questi quattro assiomi, un tempo quasi indiscutibili e certo largamente operanti anche nel «lirismo solitario» di Quasimodo, oggi rimane in piedi ben poco. Come emerge da uno studio più accurato delle fonti, spesso l’‘io’ che prende parola nei frammenti della lirica greca non corrisponde affatto all’‘io’ biografico ed emotivo del poeta, ma può addirittura rappresentare personaggi fittizi –per esempio un frammento di Archiloco, che parrebbe del tutto in linea con le presunte idee anticonvenzionali del poeta, esprime in realtà il punto di vista di un certo Carone, un altrimenti sconosciuto falegname 35. Per lo più ci mancano i contesti per stabilire chi sia l’«io» poetico che di volta in volta si esprime, ma i pochi casi noti suggeriscono molta cautela e mettono fuori gioco la tradizionale interpretazione «romantica» di questi componimenti.

La presenza di un «io» fittizio e mobile, del resto, è comune nelle società orali, che si affidano in minima parte alla scrittura, poesia compresa. Questo era precisamente il caso della Grecia arcaica: i canti erano eseguiti con danza e musica, ed è perlomeno dubbio che i poeti più antichi si avvalessero della scrittura anche nella fase della composizione. Le poesie si imparavano di bocca in bocca, come in questo bell’aneddoto che riguarda Saffo e Solone:

L’Ateniese Solone, quando a simposio sentì il nipote intonare un canto di Saffo, ne provò piacere e pretese dal ragazzo che glielo insegnasse. Poiché qualcuno gli chiese a che scopo lo facesse, lui rispose: «Non voglio morire senza conoscere questo canto!» 36.

I canti che oggi chiamiamo «lirici greci», ascoltati e rieseguiti mille volte, formano nella testa del cantore un repertorio attivo di elementi poetici che potevano essere sempre riutilizzati nel contesto inebriante del simposio o in altre occasioni di festa. Inutile dire che siamo lontanissimi dalla poesia silenziosa e libresca cui siamo abituati noi moderni, destinata a un pubblico «scelto» per numero e spesso per composizione sociale. Da questo punto di vista anche la «letterarietà» –se pure c’è– assume valenze ben diverse da quelle cui siamo abituati.

Infine, anche l’idea di un’«era» della lirica si sta rivelando poco fondata. Per esempio, le lunghe narrazioni mitologiche di alcuni componimenti «lirici» ricordano da vicino le esecuzioni di Femio e Demodoco, gli aedi dell’Odissea 37. Archiloco, il primo poeta che avrebbe rivelato la soggettività lirica, era talora definito un rapsodo, segno che i Greci lo sentivano vicino ai cantori della poesia omerica. Soprattutto, l’esistenza di canti lirici –compresi canti nuziali e luttuosi– è chiaramente presupposta dai poemi omerici, dunque non è affatto necessario parlare di una «priorità» dell’epica rispetto alla lirica: è lo stato della documentazione ad aver suggerito una simile immagine; ma, a ben guardare, è probabile che la lirica abbia lasciato tracce nell’epica non meno di quanto la seconda abbia influenzato la prima. In generale, poi, la presenza della narrazione mitica nella lirica appare oggi sempre più rilevante anche grazie alla scoperta di nuovi testi su papiro che le sabbie del deserto ci stanno via via restituendo. Così oggi conosciamo meglio narrazioni a carattere mitologico di poeti «lirici» come Simonide, Archiloco nonché della stessa Saffo, con la pubblicazione recentissima di un nuovo testo che restituisce la sua versione della vicenda di Titono e dell’Aurora, accanto a quella omerica già nota in precedenza 38.

Insieme ai quattro pilastri del modello interpretativo tradizionale crolla –è chiaro– anche ogni residua tentazione di vedere nei poeti della Grecia arcaica una forma di «lirismo solitario» ante litteram. Il problema delle traduzioni di Quasimodo, quindi, è culturale prima ancora che linguistico: di fronte al travisamento radicale della natura del canto dei Greci, certe imperfezioni linguistiche appaiono davvero poca cosa. Quasimodo appartiene a un mondo libresco irrimediabilmente lontano dai suoi presunti antenati greci 39, e il suo «canto» –perfino quando evoca le celebri «cetre al vento» di Alle fronde dei salici– parrebbe poco più di una metafora ormai stantia.

Tutto da buttare, dunque?

Naturalmente no: una simile conclusione sarebbe profonda-mente ingiusta, e per più di una ragione. Non solo gli «errori» di Quasimodo sono fecondi per la sua poesia oltre che pienamente scusabili per i tempi, ma vedremo alla fine del discorso che il suo accostarsi alla lirica greca si è rivelato per certi versi lungimirante.

Traduttore e poeta

Una strategia per rivalutare l’attività di Quasimodo traduttore consiste nel sottolineare l’importanza dei Lirici greci nel quadro della sua produzione poetica originale, che avrebbe tratto bene-ficio dal contatto con la lirica arcaica 40. Così, secondo Sergio Antonielli le raccolte postbelliche di Quasimodo sono accomunate dal fatto che «poeticamente Quasimodo alla guerra s’era preparato traducendo i greci [...] e questa è la data centro della sua storia» 41. Una versione più recente e ingegnosa di questa tesi vede nelle Nuove poesie, la raccolta che nel 1942 completa il volume collettivo Ed è subito sera, un consapevole riflesso della «novità» dei Lirici greci:

...nel 1940 Quasimodo aveva pubblicato i Lirici greci, dei quali Anceschi nella prefazione diceva che «sono poesie di Quasimodo», insistendo sul carattere di «novità» di tutta l’operazione (e parlava di «composizione nuova», «nuova lingua”, «nuova disposizione» ecc.). A questo punto il titolo Nuove poesie (1942), pur alludendo a un «nuovo» cronologico posteriore alle Poesie del 1928, è soprattutto una dichiarazione di consapevolezza del proprio ruolo di poeta nuovo 42.

Così Giuseppe Savoca. Per quanto riguarda lo stesso Quasimodo, l’atteggiamento è ambivalente. Ci sono, è vero, affermazioni che vanno nel senso di un reciso rifiuto dell’influenza sulla sua poesia originale delle traduzioni 43, ma altrove sembrano aprirsi spiragli che vanno proprio nella direzione indicata poi dalla critica:

Dobbiamo tener conto poi del lavoro di riflessione poetica, che si inserisce in quello creativo negli intervalli di silenzio: intendo parlare delle traduzioni dei poeti antichi e moderni [...] Perché la purezza della poesia di cui s’è parlato tanto in questi anni, non è stata da me intesa come eredità del decadentismo, ma in funzione del suo linguaggio diretto e concreto. E qui è appunto il segreto dei «classici», dai poeti epici ai lirici: dai greci ai nostri grandi poeti fino a Leopardi [...] La benevolenza dei filologi si conquista col tempo: quando apparvero i miei Lirici greci un pollice verso balenò nel campo della filologia classica, ma ormai la rottura di una tradizione aulica era avvenuta.

Queste parole, tratte da Una poetica (1950) 44, si possono forse interpretare come un contributo dei Lirici greci in direzione di un linguaggio più chiaro e concreto, quale è quello delle raccolte post-belliche. Ma una risposta al problema, naturalmente, dovrebbe emergere sul piano dell’analisi testuale.
   
Un tentativo di mostrare in concreto l’influenza dei Lirici greci sulla successiva produzione di Quasimodo dovrebbe partire naturalmente dalla raccolta Nuove poesie, la più vicina cronologicamente. In questo senso, in un articolo compreso nell’edizione Mondadori dei Lirici greci, Niva Lorenzini riconosce echi dei Lirici soprattutto in due poesie, Ora che sale il giorno e Davanti al sepolcro di Ilaria del Carretto:

Sotto tenera luna già i tuoi colli,
lungo il Serchio fanciulle in vesti rosse
e turchine si muovono leggere.
Così al tuo dolce tempo, cara, e Sirio
perde colore, e ogni ora s’allontana,
e il gabbiano s’infuria sulle spiagge
derelitte. Gli amanti vanno lieti
nell’aria di settembre, i loro gesti
accompagnano ombre di parole
che conosci. Non hanno pietà; e tu
tenuta dalla terra, che lamenti?
Sei qui rimasta sola. Il mio sussulto
forse è il tuo, uguale d’ira e di spavento.
Remoti i morti e più ancora i vivi,
i miei compagni vili e taciturni.

Finita è la notte e la luna
si scioglie lenta nel sereno,
tramonta nei canali.
È così vivo settembre in questa 
terra di pianura, i prati sono verdi 
come nelle valli del sud a 
primavera. Ho lasciato i compagni,
ho nascosto il cuore dentro le vecchie 
mura, per restare solo a ricordarti.
Come sei più lontana della 
luna, ora che sale il giorno
e sulle pietre batte il piede dei cavalli!

I corsivi segnalano i punti di contatto che la Lorenzini individua in queste poesie –consecutive nella raccolta!– con due traduzioni da Saffo:

Piena splendeva la luna
quando presso l’altare si fermarono:
e le Cretesi con armonia
sui piedi leggeri cominciarono
spensierate a girare intorno all’ara
sulla tenera erba appena nata (fr. 154 Voigt + 93 Diehl) 45

Tramontata è la luna
e le Pleiadi a mezzo della notte;
anche giovinezza già dilegua,
e ora nel mio letto resto sola (fr. 94 Voigt)

«L’accostamento con Saffo» –dice la Lorenzini– «è di nuovo prodigioso, ottenuto questa volta per accoppiamento di immagini (luna-danza, fanciulle-le Cretesi) e iterazione di sintagmi (tenera luna-tenera erba, si muovono leggere-piedi leggeri)», e d’altra parte «lo stupore cresce» se si considera la seconda lirica, che offre «una ulteriore prova di traduzione mediante disseminazione del medesimo frammento» 46. In questo contesto, vale la pena di ricordare che la traduzione del frammento 94 mutò nel tempo: il greco παρὰ δ’ ἔρχετ’ ὤρα è reso con «l’ora fugge» nella versione che abbiamo visto nella lettera alla Cumani, ma poi si trasforma nello stupefacente «anche giovinezza già dilegua», che suscitò non poche polemiche e una piccata replica di Quasimodo:

Se tu traduci «l’ora passa ed io dormo sola» continui a darmi un’informazione, dopo quella del tramonto della luna e delle Pleiadi. Io non ho preteso di rendere «più autentico» il testo di Saffo, anzi ho cercato di restituirlo nel suo valore originario con un’approssimazione che tende al limite consentito dal nostro linguaggio alla cui nuova potenza, se permetti, credo di avere contribuito un poco in questi ultimi dieci anni di poesia 47.

Lungo questa strada, il discorso critico può farsi più serrato e minuzioso: si potrebbe sostenere che proprio la polemica comprova l’importanza di questo verso per Quasimodo, rendendo così più probabili o pregnanti i successivi autoriecheggiamenti – se tali sono, dato il carattere abbastanza generico del lessico come anche dei motivi. Si potrebbe dire che anche in questo caso il rapporto con Saffo è tutt’altro che immediato. Proprio questo verso, con la sua prima traduzione «l’ora fugge», richiama certe movenze della poesia latina 48, e in particolare –direi– la comune sineddoche di hora per tempus, nonché il celebre tempus fugit di Virgilio, che già in Seneca si carica di un forte sovrasenso esistenziale, ed è quindi premessa naturale –nel suo trascendere l’informazione fattuale– per la successiva resa «e già giovinezza dilegua» 49.

D’altra parte, anche Ora che sale il giorno rivela forse altre influenze. Io, per esempio, ci sento il Leopardi del Primo amore, che rimane solo mentre il cavallo, sul far del giorno, porta via la cuginetta di cui il poeta era innamorato 50, e a conferma di questa mia impressione potrei anche addurre un buon indizio esterno: la piccola sezione leopardiana dell’antologia di poesia amorosa che Quasimodo pubblicò nel 1957 si apre proprio con il Primo amore, quasi a sottolineare l’importanza che questo componimento –non certo fra i più noti e amati dalla critica– rivestiva per il nostro poeta 51. Ma è chiaro che altre letture potrebbero evocare altri echi ad altri lettori: in questo campo la raccolta delle «prove», se tali hanno da essere, rischia di rivelarsi una fatica di Sisifo 52.

Vigne, tende e fiumi nelle terre dell’est

Con le traduzioni di Quasimodo, nelle loro successive stratificazioni e attraverso la molteplice rete di potenziali influssi sulla produzione originale del poeta, il gioco intertestuale si fa duro. Ora che i fondi delle traduzioni inedite del poeta stanno venendo alla luce 53, c’è da aspettarsi un’agguerrita fioritura di simili studi, se davvero l’interesse per le traduzioni di Quasimodo è destinato a una «vera e propria renaissance» 54. Le possibilità di ricerca sono enormi, forse anche troppo, e preferirei concludere su una nota –diciamo così– meno intertestuale e più umana, anche se indugiare sul rapporto della poesia con la realtà piuttosto che con altri testi è un’operazione decisamente fuori moda. Nella sua metico-losa analisi la Lorenzini trascura un dettaglio che mi pare bello ricordare: la lirica per Ilaria del Carretto è la trasposizione poetica di una giornata felice, una gita in bicicletta che Quasimodo e Maria Cumani fecero insieme a Lucca 55, e anche la successiva Ora che sale il giorno si rivolge evidentemente a lei. In questo senso, è del tutto naturale e umano che riemergano le atmosfere saffiche –non so se valga la pena di parlare di veri e propri intertesti– delle lettere notturne che Quasimodo aveva scritto alla sua amata mentre traduceva i Lirici. È, questo, il segno di un’identificazione viscerale di Quasimodo con la poetessa di Lesbo, che nella sua fantasia –l’abbiamo visto– abitava addirittura «di fronte alla sua terra». Ma Saffo e la poesia greca, anche negli anni successivi, tornarono alla memoria del poeta.

La stessa atmosfera d’amore notturno, in un silenzio rotto dalla voce dell’antica poesia, riemerge anche nella raccolta Giorno dopo giorno, che pure segna l’apertura del poeta ai temi civili, con una voce più «pubblica». Ecco 19 gennaio 1944:

Ti leggo dolci versi d’un antico,
e le parole nate fra le vigne,
le tende, in riva ai fiumi delle terre
dell’est, come ora ricadono lugubri
e desolate in questa profondissima
notte di guerra in cui nessuno corre
il cielo degli angeli della morte,
e s’ode il vento con rombo di crollo
se scuote le lamiere che qui in alto
dividono le logge, e la malinconia
sale dei cani che urlano negli orti
ai colpi di moschetto delle ronde
per le vie deserte. Qualcuno vive.
Forse qualcuno vive. Ma noi, qui,
chiusi in ascolto dell’antica voce,
cerchiamo un segno che superi la vita,
l’oscuro sortilegio della terra
dove anche fra le tombe di macerie
l’erba maligna solleva il suo fiore.

Non è chiaro chi sia l’«antico» dai versi dolci, ma si tratterà pro-babilmente di Alceo, o ancora una volta di Saffo: così lascia pensare l’accenno alle «terre dell’est» 56, né deve ingannare la forma maschile «antico», dato che anche nelle lettere a Maria Cumani Quasimodo chiamava Saffo «il poeta».

Siamo quindi di fronte alla trasposizione poetica di quell’at-mosfera notturna così evidente nelle lettere a Maria Cumani. C’è però la novità lugubre della guerra, sicché –per dirla con parole formidabili– «quello che era il chiuso sfero cosmico della «parola» diventa come un aperto rifugio antiaereo, un’arca biblica sul furioso pelago della guerra» 57. È una novità che ha una conseguenza importante anche sul modo in cui Quasimodo si rapporta alla lirica greca. Se nelle lettere emergeva un’identificazione totale con il «grido desolato» di Saffo, qui invece il rapporto si fa anche oppositivo: i «dolci versi» del poeta antico, nati all’aria aperta nello splendore di un paesaggio greco ora correttamente collocato a «est», riemergono come un corpo estraneo nel contesto chiuso e lugubre dei bombardamenti di Milano, e recano una parola di salvezza 58. È, finalmente, il riconoscimento di un’alterità della poesia antica: uno spunto molto interessante, specie se lo confrontiamo con le tendenze più recenti e avvertite della ricerca sulla lirica greca antica. Quella greca, infatti, è anche poesia «di spazi ampi inondati di sole»:

La lirica greca arcaica è vincolata ai luoghi e alle stagioni. Archiloco è la primavera dei riti di Paro e la nebbia che nasconde le coste di Tracia, Alcmane è la valle dell’Eurota, Saffo è una collina poco più elevata della nave città del suo conterraneo Alceo, Ipponatte è la fila di navigli che affolla il porto di Efeso, Bacchilide è anche l’agorà di Atene 59.

Così Massimo Vetta, uno dei maggiori studiosi di lirica greca. Quasimodo cominciò a poetare in anni in cui furoreggiava la nozione di purezza lirica, eppure la presenza forte e sensuale dei paesaggi –a partire da Acque e terre– è presente fin dalle sue prime poesie, che anzi egli poi sottopose a un processo di «purificazione», eliminando progressivamente i toni più sapidi di «acre verismo» 60.  L’ispirazione poetica di Quasimodo è fin dai primi anni fortemente legata ai luoghi, alle lunghe cavalcate nella natura selvaggia del Sud cui lo costringeva il suo mestiere di ingegnere civile, dalle luci di Acque e terre fino al «disfacimento acquatico e vegetale» –sono parole di Elio Vittorini– di Oboe sommerso 61. Il processo continua con le traduzioni, se è vero che «la Sicilia insieme autobiografica e mitica della prima poesia quasimodiana conduce alla Grecia ideale e metastorica dei lirici» 62. Con il passare degli anni, poi, questa ispirazione paesaggistica si discioglierà in un nuovo senso della fratellanza umana –anche dopo la guerra, che anzi contribuisce a fare del suo sentimento della natura un fatto non più privato, ma condiviso 63. E questa sua vocazione riemerge qui in una visione nuova della poesia di Saffo, che diviene una poesia di luoghi aperti.

Ora, che questa sia la vera cifra della poesia di Saffo è precisamente la conclusione cui giunge la più recente, importantissima monografia dedicata alla poetessa di Lesbo: un lavoro che al termine di un’impeccabile analisi filologica chiarisce in maniera, credo, definitiva il carattere ‘aperto’ delle occasioni e dei luoghi della sua produzione poetica 64. Del resto, perfino l’ombroso Eschilo solitario, caro al poeta, non è immune da queste aperture «solari». Nel commentare una rappresentazione al teatro greco di Siracusa (1948), Quasimodo indugia sull’atteggiamento «popolare» del pubblico, armato di gazzose, ceci abbrustoliti e cappelli di paglia, fino a dire che «Eschilo avrebbe pianto di gioia e di rabbia a un simile spettacolo. Io avevo visto il popolo dell’antica Grecia a una festa dionisiaca» 65.

Come si vede, nel caso di Saffo, in certo modo, l’occhio del poeta ha preceduto quello dello studioso, e in quest’ottica i dissapori fra Quasimodo e i filologi possono essere visti in una prospettiva più equilibrata 66. Del resto, la conoscenza del greco, carente in Quasimodo, è un’arma a doppio taglio, come di recente ha sottolineato Diego Lanza nei Greci di Einaudi, forse la più importante sintesi sulla civiltà greca apparsa in questi anni:

«Non mi interessa imparare le lingue dei morti!» sentii dire una volta a un ragazzo di vivace intelligenza e di ricchi interessi culturali che aveva deciso di abbandonare il liceo classico. E lingua dei morti piuttosto che lingua morta è appunto il greco che si pretende i giovani ingeriscano, prima ancora di aver loro parlato dei Greci, dei legami ereditari che ci uniscono a loro, e insieme della fatica per arrivare a intenderne almeno un poco i linguaggi; il greco come strumento di iniziazione, il suo alfabeto e la sua grammatica come arcano sistema cifrato di superiore sapienza. E con quale esito? Per scoprire poi che in quella lingua di translucida irreale razionalità, della quale diventa difficile immaginare il banale uso della comunicazione quotidiana, gli antichi non esprimevano che i nostri concetti più logori, condividevano le nostre più fruste convinzioni, covavano le nostre più comuni preoccupazioni, in una parola non erano quasi in nulla diversi da noi. Ma questi Greci, ricostruiti a misura di scrupoloso grecista, questi Greci davvero meglio sarebbe non si fossero mai conosciuti, o, se conosciuti, li si dimenticasse al più presto 67.


In queste parole, suggerite da una scaltrita dimestichezza con l’antropologia culturale, sembra di risentire le ingenue proteste di Quasimodo contro i grecisti suoi detrattori: entrambi sottolineano il rischio corso da certi studiosi fin troppo dotti, le cui conoscenze tecniche in qualche caso si rivelano inutili o addirittura controproducenti nel riconoscere quanto di interessante e diverso si nasconde nei resti di una civiltà lontana nel tempo ma anche nella mentalità. E così, tipicamente, alcuni studiosi o traduttori amano figurarsi i poeti della Grecia arcaica come poeti-filologi, mossi dai loro stessi raffinati interessi letterari.

Consideriamo le traduzioni di Quasimodo e Pontani di uno stesso frammento di Anacreonte:

ἠϕρίστησα μὲν ἰτρίου λεπτοῦ μικρὸν ἀποκλάς,
οἴνου δ' ἐξέπιον κάδον· νῦν δ' ἁβρῶς ἐρόεσσαν
ψάλλω πηκτίδα τῆι φίληι κωμάζων παιδὶ ἁβρῆι.

Cenai con un piccolo pezzo di focaccia,
ma bevvi avidamente un’anfora di vino;
ora l’amata cetra tocco con dolcezza
e canto amore alla mia tenera fanciulla.

Ho spezzato un frammento di focaccia sottile,
ho scolato un orciolo di vino: il mio pranzo.
Ora faccio vibrare
mollemente la mia cetra d’amore,
canto la serenata alla ragazza.

Quasimodo si fa subito riconoscere con un grave «errore», se tale è 68: il verbo che traduce con «cenai» (ἠϕρίστησα) indica il pranzo o la colazione, e forse altre imprecisioni si potrebbero trovare –al di là del fatto che il testo dell’ultimo verso è corrotto, e quindi ogni traduzione è necessariamente incerta. La dizione è di grande semplicità 69, quasi prosastica 70, e il ritmo della traduzione, nei suoi quattro versi, ha un che di paratattico, con un’elementare giustapposizione delle quattro azioni riferite a cibo, bevanda, musica e canto d’amore: pare il titolo del film Mangiare, bere, uomo, donna 71, un inno alla semplicità della vita nei suoi più immediati elementi costitutivi. Per converso, la traduzione di Pontani rivela «finezza» lessicale («orciolo», «focaccia sottile») e si presenta come un intarsio sincopato di settenari, endecasillabi e altro ancora 72, con l’isolato «il mio pranzo» a invertire l’ordine delle informazioni, ritardando così, concettosamente, la comprensione dell’intera sequenza.

Ma quale delle due traduzioni esprime meglio l’originale? Difficile dirlo, naturalmente, però è bene sottolineare il contrasto tra la semplicità ritmica e lessicale di Quasimodo e la meticolosa orditura metrico-stilistica di Pontani, il quale non a caso definisce Anacreonte «un poeta letteratissimo, che sconta in sé le esperienze degli epici e dei monodici eolici e si staglia nel quadro della lirica arcaica per una risorsa di elegante stilizzazione che prelude agli alessandrini» 73. Ora che il carattere orale della cultura arcaica greca è una definitiva acquisizione della critica, una simile affermazione appare quasi surreale: come immaginare un poeta «letteratissimo» in un mondo senza libri? Ricordiamo Solone, pronto a imparare Saffo da un compagno di bevute. Almeno in questo caso, l’‘ingenuo’ Quasimodo, che il greco lo imparò tardivamente e quasi da autodidatta, sembra aver trovato con la poe-sia arcaica una sintonia cui neppure la perfetta padronanza del greco di Pontani è riuscita a pervenire 74.

In conclusione, non può stupire il successo, anche popolare, di Quasimodo: ancora di recente, i Lirici greci sono stati ripubblicati a grande tiratura 75; più in generale –almeno per un certo periodo– egli è stato «di gran lunga il poeta italiano più tradotto e quindi più letto nel mondo» 76. Le valutazioni, poi, sono un fatto di gusto e di criteri che a me paiono soggettivi, ma se non altro l’operazione di Quasimodo può dirsi riuscita nel senso che ha raggiunto –ne è convinto il poeta, e non a torto– il suo destina-tario ideale, lontano dagli «alessandrini con le corazze dei simboli e delle purezze mistiche» 77:

I Lirici greci, e fu il principio di una più vera lettura dei classici in tutta l’Europa, entrarono nuovi nella generazione letteraria di quel tempo. Questi giovani, sapevo, scrivevano lettere d’amore citando versi delle mie liriche, mentre altri ne apparivano sui muri delle prigioni, segnati dai condannati politici 78.

Mutatis mutandis, la poesia torna a essere un fatto quotidiano e potenzialmente di tutti, come nella Grecia arcaica 79: potrà piacere o no, ma in questo davvero Quasimodo – pur fra civetterie e malintesi su cui è facile ironizzare –ha «dato poesia agli uomini», per citare le ultime parole di Cesare Pavese. E così l’«operaio dei sogni», come il nostro «siculo» amava definirsi, si è dimostrato in questo veramente «greco».


I Quaderni del Vittorini n. 2/2008


*  Durham University

Note

1 Le pagine che seguono nascono da una comunicazione tenuta il 5 novembre 2007 al Liceo «Vittorini» di Milano. Ringrazio di cuore Giuliana Chiara e Cristiano Dognini per l’invito e per i consigli. Grazie anche agli studenti e ai colleghi per l’attenzione che mi hanno dedicato.

2 Cfr. p.e. la bibliografia comprensiva in SALINA BORRELLO e BARBARO (1995). Per il centenario del 2001 sono usciti gli atti di due convegni, tenutisi rispettivamente a Princeton (FRASSICA 2002, che esplicitamente si propone di «sollecitare una ripresa degli studi sulla sua opera», p. 9) e a Gela (DE GIOVANNI 2004, che già nel titolo denuncia «un Premio Nobel dimenticato»). Paradossalmente, a Quasimodo non giovò il Nobel del 1959, che alla lunga –anche a causa del carattere scontroso del poeta– si è anzi rivelato in certo modo controproducente per la sua fortuna: cfr. le considerazioni di BO (1986).

3 SANGUINETI (1969), p. LIX.

4 LUPERINI (1981), p. 605.

5 PONTANI (1969), p. VIII.

6 Ibidem.

7 FORTINI (1976).

8 SAVOCA (2002), p. 87. Per quanto riguarda i Lirici greci, CANTELMO (1971-73) –un saggio sconosciuto a Savoca– costituisce un’importante eccezione, che è però parziale perché copre un numero di traduzioni relativamente limitato.

9 Riportate in MUNAFÒ (1973), pp. 218-21.

10 Di qui, presumibilmente, il titolo altisonante («De Salvatoris Quasimodi poetae laureati spiritu atque ardore classico») del saggio di BILINSKI (1961), a proposito degli influssi delle traduzioni dai classici sulla produzione di Quasimodo.

11 Come osserva IOLI (2002), si trattò «di una vera e propria dichiarazione di poetica, perché egli identificò in quella città la matrice siculo-greca dei suoi versi» (p. 59).

12 A. QUASIMODO (2002), p. 147; così Alessandro introduce una lettera della (bis)nonna Rosa Papandrea.

13 Una curiosa analogia lega questi versi a quelli, anteriori di circa un ventennio, di un altro Premio Nobel, il greco Ghiorgos Seferis. Anch’egli autore di una lirica intitolata Micene, Seferis, in un successivo componimento intitolato Alla maniera di G. S., ritorna sulle sue esperienze di viaggio e in particolare sul soggiorno a Micene, rievocando fra l’altro l’albergo la «Bella Elena di Menelao» (v. 13), che nella traduzione italiana di F. M. Pontani figura in francese come l’albergo «Belle Hélène», per rendere –dice Pontani– «il sapore sarcastico dell’intitolazione, pomposa e "commerciale"» (SEFERIS 1963, p. 318). Non sono in condizione di dire se o quale rapporto vi possa essere tra la poesia di Seferis e la serie dei componimenti di Quasimodo dedicata ai suoi viaggi in Grecia, serie che tuttavia appare dominata da un analogo sentimento di scollamento fra il passato dei miti e la minaccia di un presente per certi versi mortificante.

14 Nonché la traduzione dello stesso Quasimodo dell’Elettra di Sofocle.

15 La vicenda è tramandata nelle Vita preposta ai manoscritti eschilei, ma trova riscontro in varie altre fonti. Cfr. p.e. CENTANNI (2003), p. LXVII.

16 Non per caso, Quasimodo è autore di un saggio sul “sentimento della solitudine” in Petrarca (QUASIMODO 1945).

17 Così BÀRBERI SQUAROTTI (1958), citato in MUNAFÒ (1973), p. 228.

18 Cfr. Eschilo, Coefore, v. 337, con le osservazioni di GRANESE (1986), p. 298 e sgg.

19 Per la capillare presenza di Leopardi in altre liriche del secondo Quasimodo, cfr. MACRÌ (1986). Non bisogna dimenticare, poi, che Ecate è comunemente identificata con la Luna.

20 QUASIMODO (1960), p. 73. Questi saggi comprendono anche lo scritto del 1942 L’uomo di Eschilo, che, coerentemente, disegna un Eschilo incompreso dalla gente.

21 Per il «mito» dell’insularità in Quasimodo, cfr. TEDESCO (1977).

22 Per un equilibrato bilancio dell’annosa questione, cfr. p.e. le considerazioni di ERBA (2002).

23 Sulla produzione saggistica di Quasimodo, cfr. in generale SIPALA (1973).

24 TONDO (1971), p. 59.

25 Ibidem.

26 Questa l’ipotesi di Leone Traverso, secondo cui Quasimodo avrebbe evitato «i pezzi gnomici e oratorii o comunque ristretti al giro di una polemica occasionale (Callino, Tirteo, Focilide, Teognide, Solone, Senofane ecc.) e insieme le manifestazioni illustri – a prima vista un po’ estranee al nostro spirito – di poeti considerati, ma non sempre a ragione, come ufficiali, quali Pindaro e Bacchilide» (in FINZI 1969, p. 291).

27 Si tratta del frammento 44 Voigt.

28 ANCESCHI (1940), pp. XIX e XX nell’ed. Mondadori del 1985 dei Lirici Greci.

29 Il Quasimodo postbellico, com’è noto, tradurrà anche poesia epica (cfr. in generale GIGANTE 1970), e soprattutto chiederà di «dimenticare Petrarca e le sue ossessive cadenze» in favore di Dante, invocando al con-tempo una poesia «di natura corale» che «presume all’epica» (così nel Discorso sulla poesia del 1954, poi in QUASIMODO 1960).

30 ANGELINI (1940), riportato in LORENZINI (1985), pp. 220-21.

31 Le considerazioni che seguono riproducono in forma semplificata il panorama critico delineato in CAPRA (2008), cui rimando per bibliografia e ulteriori informazioni.

32 Odi, I 1.35-36.

33 Cfr. FÄRBER (1936).

34 SNELL (1946).

35 Si tratta del celebre frammento 19 West, ricordato anche da Erodoto (Storie, I 12.2), in cui l’io parlante ripudia le ricchezze di Gige. La menzione di Aristotele è nella Retorica, 1418b.

36 Claudio Eliano, fr. 187. Riprendo questo punto da CAPRA (2007), pp. 307-8.

37 Per esempio la Gerioneide di Stesicoro o la Pitica IV di Pindaro, probabilmente eseguite con la cetra.

38 Il frammento 58 Voigt di Saffo, infatti, è stato integrato dalla pubblicazione di un papiro di Colonia (n. 21351): cfr. GRONEWALD e DANIEL (2004). La versione omerica del mito di Titono è in Inno omerico ad Afrodite, v. 218 e sgg.

39 Per l’importanza della forma-libro nell’opera di Quasimodo, cfr. SAVOCA (2002). Nel suo importante saggio sul concetto di poesia in Quasimodo, PAUTASSO (1986) giunge a dire che «la vera idea di poesia di Quasimodo può essere identificata [...] nell’ideale costruttivo che la sostiene, e che troviamo non nella dimensione della tanto conclamata parola, quanto nell’idea globale di libro» (p. 208).

40 Possibile anche l’itinerario inverso, naturalmente: CANTELMO (1971-73) mostra quanto la prima produzione di Quasimodo abbia influenzato le traduzioni dai lirici (cfr. in particolare p. 338 e sgg.). Impressionante, in particolare, mi pare il confronto fra Ed è subito sera e la traduzione di Mimnermo, 2, «... Fulmineo / precipita il frutto di giovinezza, / come la luce d’un giorno sulla terra».

41 ANTONIELLI (1955).

42 SAVOCA (2002), p. 92.

43 Cfr. QUASIMODO (1957), p. 92.

44 Poi in QUASIMODO (1957).

45 Con una disinvoltura che gli è consueta, Quasimodo ha fuso in un unico testo un frammento certamente attribuibile a Saffo («Piena... fermarono») e tre versi di incerta attribuzione (Saffo, Alceo o altro poeta lesbio). Questi versi non figurano come autentici nell’edizione Voigt.

46 LORENZINI (1985), pp. 254-55.

47 QUASIMODO e TRAVERSO (1940). Per CANTELMO (1971-73), «ὤρα non ha qui il significato indeterminato di "tempo", come sostiene la maggior parte dei critici, bensì quello di "ora", l’ora fissata per l’appuntamento, e comunque certamente non quello di "giovinezza", che è un’evidente forzatura tonale» (p. 327). In realtà, questo punto è tutt’ora molto discusso. Cfr. ALONI (1997), p. 265, nota 2.

48 Ringrazio Cristiano Dognini per questo spunto. La mediazione esistenziale «latina» pare in effetti importante, se è vero che «dai lirici greci ma propriamente dai latini, soprattutto da Virgilio e da Catullo, Quasimodo riprende l’uso dell’avverbio già per affidare ad esso i nostalgici e malinco-nici pensieri del fuggire della vita, come senso naturale di essa; del passaggio delle stagioni, dell’apparire e sparire degli eventi naturali» (TEDESCO 1977, pp. 106-7).

49 Per tempus fugit cfr. Virgilio, Georgiche, III 284; Seneca, Epistole a Lucilio, 108.24. Sui loci paralleli e sulla fortuna di espressioni come Tempus fugit e Ruit hora, cfr. le informatissime osservazioni di TOSI (1991) alle voci relative.

50 Cfr. in particolare i vv. 40-42: «Senza sonno io giacea sul dì novello / E i destrier che dovean farmi deserto / Battean la zampa sotto al patrio ostello».

51 QUASIMODO (1957), p. 521 e sgg. Al Primo amore, fanno seguito sei altri componimenti di Leopardi: La sera del dì di festa, La vita solitaria, Alla sua donna, Le ricordanze, Amore e Morte, Aspasia.

52 In Quasimodo si sono cercate le influenze più disparate. Già per Giuseppe Zagarrio, per esempio, in Quasimodo confluivano «la Sehnsucht  hölderliniana e il parmenidismo di Valery, la volontà dell’identico propria dell’ermetismo e l’eresia della purezza mallarmeana; ma si aggiunga, per completare il quadro delle confluenze, il richiamo suggestivo dell’idillio classico (e meglio teocriteo-alessandrino) e quello dell’avventurosa simbologia biblica» (ZAGARRIO 1969, p. 55). Per una galleria di poeti la cui presenza è riconoscibile in Quasimodo, cfr. tutta la sezione «Poesia e poeti nella cultura quasimodiana» in FINZI (1986), pp. 391-486.

53 Cfr. SANTI (1999) e RIZZINI (2002).

54 Così si esprime CONDELLO (2005), p. 84, nota 1.

55 Cfr. QUASIMODO (1969).

56 Questo dettaglio mi pare escluda l’identificazione dell’«antico» con Virgilio proposta da MACRÌ (1986), p. 24.

57 Ibidem.

58 Da questo punto di vista, il «segno che superi la vita» vale a «ipotizzare una vittoria sulla morte e sul male», sicché «la poesia di Quasimodo –a differenza di quella di Montale– crede nella possibilità di trovare "la parola che squadri da ogni lato", "la formula che mondi possa aprirti" e si affida al recupero dell’antica voce per decifrare "l’oscuro sortilegio della vita"» (FERRI 1986, p. 67).

59 VETTA (1999), p. 5.

60 TONDO (1971), p. 17. L’autore offre un’ottima analisi del processo di autocensura che Quasimodo esercitò su se stesso nel riproporre e modificare – di raccolta in raccolta – le sue poesie, da Acque e terre fino a Ed è subito sera (diversi testi della prima raccolta sono qui del tutto eliminati).

61 VITTORINI (1932).

62 CANTELMO (1971-73), p. 320.

63 Come osserva Robert Vivier, «È in quell’infanzia e in quella Sicilia, i cui bagliori illuminavano l’oscurità lirica delle prime raccolte, che si trovano le fonti alle quali Quasimodo ha attinto il senso umano reclamato dall’istante storico in cui fu precipitato. Ricco di questo tesoro intimo il poeta, invece di ripiegarsi nell’ermetismo individuale sempre più distaccato e prezioso, è andato verso i suoi fratelli [...] Il poeta innamorato della vita [...] ha scoperto che nelle cose dell’esistenza non questione di "io" ma di "noi"» (VIVIER 1959; citato in MUNAFÒ 1973, p. 213).

64 FERRARI (2007).

65 QUASIMODO (1961), p. 96.

66 Peraltro, non sono ovviamente mancati filologi che hanno tributato grande stima a Quasimodo e alle sue traduzioni. In questo senso è importante il libretto di GIGANTE (1970).

67 LANZA (2001), p. 1464.

68 Giustamente, CANTELMO (1971-73) osserva che è in generale «assai difficile discernere dove l’inadeguata preparazione filologica ceda alla libertà dell’interpretazione poetica, intento fondamentale, se non esclusivo, del nostro traduttore» (p. 327).

69 Per la «sistematica eliminazione o attenuazione di ogni tratto testuale eccessivamente connotato sul piano fisico o concreto» vedi CONDELLO (2005), la cui analisi, pur dedicata alla traduzione quasimodiana delle Coefore di Eschilo, mette in luce –attraverso il confronto con le versioni di Pasolini e Sanguineti– tendenze specifiche del Quasimodo traduttore operanti in larga misura anche nei Lirici. Un confronto di traduzioni «a tre», questa volta da Catullo (Carducci, Pascoli e Quasimodo), è proposto anche in DELLA CORTE (1989), che indugia sulla nota rottura di Quasimodo con il classicismo aulico.

70 Per MACRÌ (1956) questa traduzione è un esempio del «prosaismo completo delle ultime letture, che non s’arresta dinanzi alle allitterazioni più ingrate (‘piccolo pezzo ... folte di fiori ... piena più’) ...» (p. 133). La traduzione del 1940 di questo verso suona invece «Cenai con un pezzo di magra focaccia».

71 Il titolo del film di Ang Lee (Yin Shi Nan Nu, Taiwan 1994) riprende un proverbio cinese sulle necessità primarie della vita.

72 Si noti l’astuto enjambement «Ora faccio vibrare / mollemente la mia cetra d’amore»: con «mollemente», il settenario del primo verso si completerebbe in un perfetto endecasillabo, lasciando dopo di sé un nuovo settenario («la mia cetra d’amore»). Ma Pontani ha preferito la scaltrita aritmia di un verso formato da undici sillabe («mollemente la mia cetra d’amore») con accenti non canonici in terza e settima sede.

73 PONTANI (1969), p. 177.

74 Per questa vicenda di apprendimento tardivo, cfr. FINZI (1971), p. XCI.

75 QUASIMODO (2004).

76 BERTI (1955); citato in MUNAFÒ (1973), p. 242.

77 QUASIMODO (1960).

78 Ibidem. Altre testimonianze, del resto, confermano questa immagine. Ricorda Luciano Erba, al tempo della guerra, i lettori che «conoscevano addirittura a memoria le poesie di Acque e terre [...] Ricordo, come fosse ora, il risveglio da un giaciglio di fortuna accanto a dei compagni, sbandati come me dopo l’8 settembre del ’43, e uno di questi che a memoria, quasi recitasse una preghiera, ci diceva i primi versi di Acquamorta...» (ERBA 2002, p. 97).

79 Forse non è casuale che la critica, fra gli apporti della traduzione dei Lirici alla poesia originale di Quasimodo, abbia riconosciuto anche «la più precisa determinazione del linguaggio, i più precisi riferimenti geografici, una più equilibrata composizione dei motivi vita-morte e memoria-storia, un più costante approdo al "quotidiano" che cominciava a mostrarsi minaccioso sull’Europa e sul mondo» (MUNAFÒ 1973, p. 37).



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