Giorgio Caproni

Didascalia e altre poesie DIDASCALIA Fu in una casa rossa: la Casa Cantoniera. Mi ci trovai una sera di tenebra, e pa...



Didascalia e altre poesie


DIDASCALIA

Fu in una casa rossa:
la Casa Cantoniera.
Mi ci trovai una sera
di tenebra, e pareva scossa
la mente da un transitare
continuo come il mare.

Sentivo foglie secche,
nel buio, scricchiolare.
Attraversando le stecche
delle persiane, del mare
avevano la luminescenza
scheletri di luci rare.

Erano lampi erranti
d' ammotorati viandanti.
frusciavano in me l' idea
che fosse il passaggio d' Enea.



VERSI
«A l' accent familier
nous devinons le spectre»

La notte quali elastiche automobili
vagano nel profondo e con i fari
accesi, deragliando sulle mobili
curve sterzate a secco, di lunari
vampe fanno spettrali le ramaglie
e tramano di scheletri di luce
i soffitti imbiancati? Fra le maglie
fitte d' un dormiveglia che conduce
il sangue a sabbie di verdi e fosforiche
prosciugazioni, ahi se colpisce l' occhio
della mente quel transito, e a teoriche
lo spinge dissennate cui il malocchio
fa da deus ex machina!...Leggère
di metallo e di gas, le vive piume
celeri t' aggrediscono - l' acume
t' aprono in petto, e il fruscio, delle vele.

T' aprono in petto le folli falene
accecate di luce, e nel silenzio
mortale delle mobili cantilene
soffici delle gomme, entri nel denso
fantasma - entri nei lievi stritolii
lucidi del ghiaino che gremisce
le giunture dell' ossa, e in pigolii
minimi penetrando ove finisce
sul suo orlo la vita, là Euridice
tocchi, cui nebulosa e sfatta casca
la palla morta di mano. E si dice
il sangue che c' è amore ancora, e schianta
inutilmente la tempia, oh le leghe
lunghe che ti trascinano - il rumore
di tenebra, in cui il battito del cuore
ti ferma in petto il fruscio delle streghe!

Ti ferma in petto il richiamo d' Averno
che dai banchi di scuola ti sovrasta
metallurgico, il senso è in quell' eterno
rombo di fibre rotolanti a un' asta
assurda di chilometri, sui lidi
nubescenti di latte trovi requie
nell' assurdo delirio -Trovi i gridi
spenti in un' acqua che appanna una quiete
senza umano riscontro, ed è nel raggio
d' ombra che di qua penetra i pensieri
che là prendono corpo, che al paesaggio
di siero, lungo i campi dei Cimmeri
del tuo occhio disfatto, riconosci
il tuo lémure magro (il familiare
spettro della tua scienza) nel pulsare
di quei pistoni nel fitto dei boschi.

Nel pulsare del sangue del tuo Enea
solo nella catastrofe, cui sgalla
il piede ossuto la rossa fumea
bassa che arrazza il lido. Enea che in spalla
un passato che crolla tenta invano
di porre in salvo, e al rullo d' un tamburo
ch'è uno schianto di mura, per la mano
ha ancora così gracile un futuro
da non reggersi ritto. Nell' avvampa
funebre d' una fuga su una rena
che scotta ancora di sangue, che scampo
può mai esserti il mare (la falena
verde dai fari bianchi) se con lui
senti di soprassalto che nel punto
d' estrema solitudine, sei giunto
più esatto e incerto dei nostri anni bui?

Nel punto in cui, trascinando il fanale
rosso del suo calcagno, Enea un pontile
cerca che al lancinante occhio via mare
possa offrire altro suolo - possa offrire
al suo cuore di vedovo (di padre,
di figlio - al cuore dell' ottenebrato
principe d' Aquitania), oltre le magre
torri abolite l' imbarco sperato
da chiunque non vuol piegarsi. E,
con l' alba già spuntata a cancellare
sul soffitto quel transito, non è
certo un risveglio la luce che appare
timida sulla calce. Il tremolio
scialbo del giorno in erba, in cui già un sole
che stenta a alzarsi allontana anche in cuore
di quei motori il perduto ronzio.




EPILOGO

Sentivo lo scricchiolio,
nel buio, delle mie scarpe:
sentivo quasi di talpe
seppellite un rodio
sul volto, ma sentivo
già prossimo ventilare
anche il respiro del mare.

Era una sera di tenebra,
mi pare a Pegli, o a Sestri.
Avevo lasciato Genova
a piedi, e freschi
nel sangue i miei rancori
bruciavano, come amori.

M' approssimavo al mare
sentendomi annientare
dal pigolio delle scarpe:
sentendo già di barche
al largo un odore
di catrame e di notte
sciacquante, ma anche
sentendo già al sol, rotte,
le mie costole, bianche.

Avevo raggiunto la rena,
ma senza avere più lena.
Forse era il peso nei panni,
dell' acqua dei miei anni.


A TULLIO

Qui forse potrei vivere
potrei forse anche scrivere
potrei perfino dire
qui è gentile morire

Genova mia città fina:
ardesia e ghiaia marina.
Mare e ragazze chiare
con fresche collane di vetro
(ragazze voltate indietro
col fiasco sul portone
prima di rincasare)
ah perder anche il nome
di Roma, enfasi e orina.

Qui forse potrei scrivere:
potrei forse anche vivere.



L' ASCENSORE

Quando andrò in paradiso
non voglio che una campana
lunga sappia di tegola
all'alba - d'acqua piovana.

Quando mi sarò deciso
d'andarci, in paradiso
ci andrò con l'ascensore
di Castelletto, nelle ore notturne,
rubando un poco
di tempo al mio riposo.

Ci andrò rubando (forse
di bocca) dei pezzettini
di pane ai miei due bambini.
Ma là sentirò alitare
la luce nera del mare
fra le mie ciglia, e... forse
(forse) sul belvedere
dove si sta in vestaglia,
chissà che fra la ragazzaglia
aizzata (fra le leggiadre
giovani in libera uscita
con cipria e odor di vita
viva) non riconosca
sotto un fanale mia madre.

Con lei mi metterò a guardare
le candide luci sul mare.
Staremo alla ringhiera
di ferro - saremo soli
e fidanzati, come
mai in tanti anni siam stati.
E quando le si farà a puntini,
al brivido della ringhiera,
la pelle lungo le braccia,
allora con la sua diaccia
spalla se n'andrà lontana:
la voce le si farà di cera
nel buio che la assottiglia,
dicendo "Giorgio, oh mio Giorgio
caro: tu hai una famiglia."

E io dovrò ridiscendere,
forse tornare a Roma.
Dovrò tornare a attendere
(forse) che una paloma
bIanca da una canzone per radio,
sulla mia stanca
spalla si posi. E alfine
(alfine) dovrò riporre
la penna, chiuder la càntera:
"É festa", dire a Rina
e al maschio, e alla mia bambina.

E il cuore lo avrò di cenere
udendo quella campana,
udendo sapor di tegole,
l'inverno dell'acqua piovana.

Ma no! se mi sarò deciso
un giorno, pel paradiso
io prenderò l'ascensore
di Castelletto, nelle ore
notturne, rubando un poco
di tempo al mio riposo.

Ruberò anche una rosa
che poi, dolce mia sposa,
ti muterò in veleno
lasciandoti a pianterreno
mite per dirmi: "Ciao,
scrivimi qualche volta,"
mentre chiusa la porta
e allentatosi il freno
un brivido il vetro ha scosso.

E allora sarò commosso
fino a rompermi il cuore:
io sentirò crollare
sui tegoli le mie più amare
lacrime, e dirò "Chi suona,
chi suona questa campana
d'acqua che lava altr'acqua
piovana e non mi perdona?"

E mentre, stando a terreno,
mite tu dirai: "Ciao, scrivi,"
ancora scuotendo il freno
un poco i vetri, tra i vivi
viva col tuo fazzoletto
timida a sospirare
io ti vedrò restare
sola sopra la terra:

proprio come il giorno stesso
che ti lasciai per la guerra.



DONNA CHE APRE RIVIERE

Sei donna di marine,
donna che apre riviere.
L'aria delle mattine
bianche è la tua aria
di sale e sono vele
al vento, sono bandiere
spiegate a bordo l'ampie
vesti tue così chiare.



STORNELLO

Mia Genova difesa e proprietaria.
Ardesia mia. Arenaria.
Le case così salde nei colori
a fresco in piena aria,
è dalle case tue che invano impara,
sospese nella brezza
salina, una fermezza
la mia vita precaria.

Genova mia di sasso. Iride. Aria.



PER UNA GIOVINETTA

Sempre col batticuore,
te rapita nell'ansia
continua delle fugaci
ore,tanto sbadata
miro mentre alle paci
finte dell'aria fidi
i risi,e data
tutta che sei ai profumi
di scoglio, agli aromi
forti di monte o ai fumi
dei vini nei giovanili
ginocchi, di quanti agguati
non sai sian folti i pochi
giorni tuoi prelibati.


ALLA GIOVINEZZA

Giorno di meravigliose
essenze e di ricchi aromi
adorno, sei tu che sciogli
i canti delle giovinette
chine sull'ago. E ai lini,
e ai sogni, e alle note
ruvide dei clarini
al ballo, rechi ricami
fievoli - fiere canzoni,
e schianti d'amore ai petti
umani.



QUANDO PASSAVA

Livorno, quando lei passava,
d'aria e di barche odorava.
Che voglia di lavorare
nasceva, al suo ancheggiare!

Sull'uscio dello Sbolci,
un giovane dagli occhi rossi
restava col bicchiere
in mano, smesso di bere.


PER LEI

Per lei voglio rime chiare,
usuali: in -are.
Rime magari vietate,
ma aperte, ventilate.
Rime coi suoni fini
(di mare) dei suoi orecchini.
O che abbiano, coralline,
le tinte delle sue collanine.
Rime che a distanza
(Annina era così schietta)
conservino l'eleganza
povera, ma altrettanto netta.
Rime che non siano labili
Anche se orecchiabili.
Rime non crepuscolari,
ma verdi, elementari.


ALBA

Una cosa scipita,
col suo sapore di prati
bagnati, questa mattina
nella mia bocca ancora
assopita.

Negli occhi nascono come
nell'acque degli acquitrini
le case, il ponte, gli ulivi:
senza calore.

E' assente il sale
del mondo: il sole.



SPIAGGIA DI SERA

Così sbiadito a quest'ora
lo sguardo del mare,
che pare negli occhi
(macchie d'indaco appena
celesti)
del bagnino che tira in secco
le barche.

Come una randa cade
l'ultimo lembo di sole.

Di tante risa di donne,
un pigro schiumare
bianco sull'alghe, e un fresco
vento che sala il viso
rimane.


CONDIZIONE


Un uomo solo,
chiuso nella sua stanza.
Con tutte le sue ragioni.
Tutti i suoi torti.
Solo in una stanza vuota,
a parlare. Ai morti.


PERCH'IO...

...perch'io, che nella notte abito solo,
anch'io, di notte, strusciando un cerino
sul muro, accendo cauto una candela
bianca nella mia mente - apro una vela
timida nella tenebra, e il pennino
strusciando che mi scricchiola, anch'io scrivo
e riscrivo in silenzio e a lungo il pianto
che mi bagna la mente.



LO SPATRIATO

Lo hanno portato via
dal luogo della sua lingua.
Lo hanno scaricato male
in terra straniera.
Ora, non sa più dove sia
la sua tribù. È perduto.
Chiede. Brancola. Urla.

Peggio che se fosse muto.


CADENZA

Tonica, terza, quinta,
settima diminuita.
Rimane così irrisolto
l'accordo della mia vita?



MAGGIO

Al bel tempo di maggio le serate
si fanno lunghe; e all'odore del fieno
che la strada, dal fondo, scalda in pieno
lume di luna, le allegre cantate
dall'osterie lontane, e le risate
dei giovani in amore, ad un sereno
spazio aprono porte e petto. Ameno
mese di maggio! E come alle folate
calde dall'erba risollevi i prati
ilari di chiarore, alle briose
tue arie, sopra i volti illuminati
a nuovo, una speranza di grandiose
notti più umane scalda i delicati
occhi, ed il sangue, alle giovani spose.


IL CARRO DI VETRO

Il sole della mattina,
in me, che acuta spina.
Al carro tutto di vetro
perché anch'io andavo dietro?

Portavano via Annina
(nel sole) quella mattina.
Erano quattro cavalli
(neri) senza sonagli.

Annina con me a Palermo
di notte era morta, e d'inverno.
Fuori c'era il temporale.
Poi cominciò ad albeggiare.

Dalla caserma vicina
allora, anche quella mattina,
perché si mise a suonare
la sveglia militare?

Era la prima mattina
del suo non potersi destare.



PREGHIERA

Anima mia, leggera
va’ a Livorno, ti prego.
E con la tua candela
Timida, di nottetempo
fa’ un giro; e, se n’hai il tempo,
perlustra e scruta, e scrivi
se per caso Anna Picchi
è ancora viva tra i vivi.

Proprio quest’oggi torno,
deluso, da Livorno.
Ma tu, tanto più netta
di me, la camicetta
ricorderai, e il rubino
di sangue, sul serpentino
d’oro che lei portava
sul petto, dove s’appannava.

Anima mia, sii brava
e va’ in cerca di lei.
Tu sai cosa darei
se la incontrassi per strada




ATQUE IN PERPETUUM, FRATER...

Atque in perpetuum, frater...
Quanto inverno, quanta
neve ho attraversato, Piero,
per venirti a trovare.

Cosa mi ha accolto?

Il gelo
della tua morte, e tutta
tutta quella neve bianca
di febbraio - il nero
della tua fossa.

Ho anch'io
detto le mie preghiere
di rito.

Ma solo,
Piero, per dirti addio
e addio per sempre, io
che in te avevo il solo e vero
amico, fratello mio.


PENSIERO PIO
   
Sta forse nel non essere
l'immensità di Dio?


DEUS ABSCONDITUS

Un semplice dato:
Dio non s'è nascosto.
Dio s'è suicidato.



PREGHIERA D'ESORTAZIONE O D'INCORAGGIAMENTO

Dio di volontà,
Dio onnipotente, cerca
(sfòrzati), a furia d'insitere
-almeno- d'esistere.


SASSATE

ho provato a parlare.
Forse, ignoro la lingua.
Tutte frasi sbagliate.
Le risposte: sassate.


A RINA


Nell'aria di settembre (aria
d'innocenza sul chiareggiato
colle) sopra le zolle
ruvide mi sono care
le case a colori grezzi
del tuo paese natale.

Scherzano battendo l'ale
candide sui tetti a fiore
giunti, le colombelle
nuove.

Mentre commuove
dei voli l'aria il giro
tondo, nel cielo ai tocchi
festevoli delle campane
è il lindore dei tuoi virginei
occhi.

SPIAGGIA DI SERA

Così sbiadito a quest'ora
lo sguardo del mare,
che pare negli occhi
(macchie d'indaco appena
celesti)
del bagnino che tira in secco
le barche.

Come una randa cade
l'ultimo lembo di sole.

Di tante risa di donne,
un pigro schiumare
bianco sull'alghe, e un fresco
vento che sala il viso
rimane.


DONNA CHE APRE RIVIERE

Sei donna di marine,
donna che apre riviere.
L’aria delle mattine
bianche è la tua aria
di sale e sono vele
al vento, sono bandiere
spiegate a bordo l’ampie
vesti tue così chiare.



CLAUSOLA

Tanto per non finire:
la morte, già così allegra a viverla,
ora la dovrei morire?

(Non me la sento, d'ucciderla)


FURTO

Hanno rubato Dio.

Il cielo è vuoto.

Il ladro non è ancora stato
(non lo sarà mai) arrestato.


SQUARCIO

Viltà d'ogni teorema.

Sapere cos'è il bicchiere.

Disperatamente sapere
che cosa non è il bicchiere,
le disperate sere
quando (la mano trema,
trema) nel patema
è impossibile bere.



PER LEI


Per lei voglio rime chiare,
usuali: in -are.
Rime magari vietate,
ma aperte: ventilate.
Rime coi suoni fini
(di mare) dei suoi orecchini.
O che abbiano, coralline,
le tinte delle sue collanine.
Rime che a distanza
(Annina era cosí schietta)
conservino l'eleganza
povera, ma altrettanto netta.
Rime che non siano labili,
anche se orecchiabili.
Rime non crepuscolari,
ma verdi, elementari.


BORGORATTI


Anche le vampe fiorite
ai balconi di questo paese,
labile memoria ormai
dimentica la sera.

Come un'allegoria,
una fanciulla appare
sulla porta dell'osteria.
Alle sue spalle è un vociare
confuso d'uomini – e l'aspro
odor del vino.


LITANÌA


Genova mia città intera.
Geranio. Polveriera.
Genova di ferro e aria,
mia lavagna, arenaria.

Genova città pulita.
Brezza e luce in salita.
Genova verticale,
vertigine, aria scale.

Genova nera e bianca.
Cacumine. Distanza.
Genova dove non vivo,
mio nome, sostantivo.

Genova mio rimario.
Puerizia. Sillabario.
Genova mia tradita,
rimorso di tutta la vita.

Genova in comitiva.
Giubilo. Anima viva.
Genova in solitudine,
straducole, ebrietudine.

Genova di limone.
Di specchio. Di cannone.
Genova da intravedere,
mattoni, ghiaia, scogliere.

Genova grigia e celeste.
Ragazze. Bottiglie. Ceste.
Genova di tufo e sole,
rincorse, sassaiole.

Genova tutta tetto.
Macerie. Castelletto.
Genova d'aerei fatti,
Albaro, Borgoratti.

Genova che mi struggi.
Intestini. Caruggi.
Genova e così sia,
mare in un'osteria.

Genova illividita.
Inverno nelle dita.
Genova mercantile,
industriale, civile.

Genova d'uomini destri.
Ansaldo. San Giorgio. Sestri.
Genova in banchina,
transatlantico, trina.


Genova tutta cantiere.
Bisagno. Belvedere.
Genova di canarino,
persiana verde, zecchino.

Genova di torri bianche.
Di lucri. Di palanche.
Genova in salamoia,
acqua morta di noia.

Genova di mala voce.
Mia delizia. Mia croce.
Genova d'Oregina,
lamiera, vento, brina.

Genova nome barbaro.
Campana. Montale, Sbarbaro.
Genova dei casamenti
lunghi, miei tormenti.

Genova di sentina.
Di lavatoio. Latrina.
Genova di petroliera,
struggimento, scogliera.

Genova di tramontana.
Di tanfo. Sottana.
Genova d'acquamarina,
area, turchina.

Genova di luci ladre.
Figlioli. Padre. Madre.
Genova vecchia e ragazza,
pazzia, vaso, terrazza.

Genova di Soziglia.
Cunicolo. Pollame. Trilia.
Genova d'aglio e di rose,
di Pré, di Fontane Masrose.

Genova di Caricamento.
Di Voltri. Di sgomento.
Genova dell'Acquasola,
dolcissima, usignuola.

Genova tutta colore.
Bandiera. Rimorchiatore.
Genova viva e diletta,
salino, orto, spalletta.

Genova di Barile.
Cattolica. Acqua d'Aprile.
Genova comunista,
bocciofila, tempista.


Genova di Corso Oddone.
Mareggiata. Spintone.
Genova di piovasco,
follia, Paganini, Magnasco.

Genova che non mi lascia.
Mia fidanzata. Bagascia.
Genova ch'è tutto dire,
sospiro da non finire.

Genova quarta corda.
Sirena che non si scorda.
Genova d'ascensore,
paterna, stretta al cuore.

Genova mio pettorale.
Mio falsetto. Crinale.
Genova illuminata,
notturna, umida, alzata.

Genova di mio fratello.
Cattedrale. Bordello.
Genova di violino,
di topo, di casino.

Genova di mia sorella.
Sospiro. Maris Stella.
Genova portuale,
cinese, gutturale.

Genova di Sottoripa.
Emporio. Sesso. Stipa.
Genova di Porta Soprana,
d'angelo e di puttana.

Genova di coltello.
Di pesce. Di mantello.
Genova di lampione
a gas, costernazione.

Genova di Raibetta.
Di Gatta Mora. Infetta.
Genova della Strega,
strapiombo che i denti allega.

Genova che non si dice.
Di barche. Di vernice.
Genova balneare,
d'urti da non scordare.

Genova di "Paolo & Lele".
Di scogli. Furibondo. Vele.
Genova di Villa Quartara,
dove l'amore s'impara.


Genova di caserma.
Di latteria. Di sperma.
Genova mia di Sturla,
che ancora nel sangue mi urla.

Genova d'argento e stagno.
Di zanzara. Di scagno.
Genova di magro fieno,
canile, Marassi, Staglieno.

Genova di grige mura.
Distretto. La paura.
Genova dell'entroterra,
sassi rossi, la guerra.

Genova di cose trite.
La morte. La nefrite.
Genova bianca e a vela,
speranza, tenda, tela.

Genova che si riscatta.
Tettoia. Azzurro. Latta.
Genova sempre umana,
presente, partigiana.

Genova della mia Rina.
Valtrebbia. Aria fina.
Genova paese di foglie
fresche, dove ho preso moglie.

Genova sempre nuova.
Vita che si ritrova.
Genova lunga e lontana,
patria della mia Silvana.

Genova palpitante.
Mio cuore. Mio brillante.
Genova mio domicilio,
dove m'è nato Attilio.

Genova dell'Acquaverde.
Mio padre che vi si perde.
Genova di singhiozzi,
mia madre, Via Bernardo Strozzi.

Genova di lamenti.
Enea. Bombardamenti.
Genova disperata,
invano da me implorata.

Genova della Spezia.
Infanzia che si screzia.
Genova di Livorno,
Partenza senza ritorno.

Genova di tutta la vita.
Mia litania infinita.
Genova di stocafisso
e di garofano, fisso
bersaglio dove inclina
la rondine: la rima.



VENEZIANA

Veneziana, nel fresco
d'acqua dei tuoi iridati
occhi, trovo l'arguta
ombrata grazia d'una
scena sulla laguna.
E a marinai, e a tese
vele, a care attese
per giorni lunghi e a scoppi
di giubilo agli improvvisi
ritorni, bei cari e ansiosi
occhi senza sconforto
penso: brioso porto
di quei lindi paesi,
dove grazia di motti
salaci e di femminili
scherzi inganna ai vivi
il gioco alterno di tante
partenze e di tanti arrivi.



CONGEDO DEL VIAGGIATORE CERIMONIOSO

Amici, credo che sia
meglio per me cominciare
a tirar giù la valigia.
Anche se non so bene l'ora
d'arrivo, e neppure
conosca quali stazioni
precedano la mia,
sicuri segni mi dicono,
da quanto m'è giunto all'orecchio
di questi luoghi, ch'io
vi dovrò presto lasciare.

Vogliatemi perdonare
quel po' di disturbo che reco.
Con voi sono stato lieto
dalla partenza, e molto
vi sono grato, credetemi,
per l'ottima compagnia.

Ancora vorrei conversare
a lungo con voi. Ma sia.
Il luogo del trasferimento
lo ignoro. Sento
però che vi dovrò ricordare
spesso, nella nuova sede,
mentre il mio occhio già vede
dal finestrino, oltre il fumo
umido del nebbione
che ci avvolge, rosso
il disco della mia stazione.

Chiedo congedo a voi
senza potervi nascondere,
lieve, una costernazione.
Era così bello parlare
insieme, seduti di fronte:
così bello confondere
i volti (fumare,
scambiandoci le sigarette),
e tutto quel raccontare
di noi (quell'inventare
facile, nel dire agli altri),
fino a poter confessare
quanto, anche messi alle strette,
mai avremmo osato un istante
(per sbaglio) confidare.

(Scusate. È una valigia pesante
anche se non contiene gran che:
tanto ch'io mi domando perché
l'ho recata, e quale
aiuto mi potrà dare
poi, quando l'avrò con me.
Ma pur la debbo portare,
non fosse che per seguire l'uso.
Lasciatemi, vi prego, passare.
Ecco. Ora ch'essa è
nel corridoio, mi sento
più sciolto. Vogliate scusare).

Dicevo, ch'era bello stare
insieme. Chiacchierare.
Abbiamo avuto qualche
diverbio, è naturale.
Ci siamo - ed è normale
anche questo - odiati
su più d'un punto, e frenati
soltanto per cortesia.
Ma, cos'importa. Sia
come sia, torno
a dirvi, e di cuore, grazie
per l'ottima compagnia.

Congedo a lei, dottore,
e alla sua faconda dottrina.
Congedo a te, ragazzina
smilza, e al tuo lieve afrore
di ricreatorio e di prato
sul volto, la cui tinta
mite è sì lieve spinta.
Congedo, o militare
(o marinaio! In terra
come in cielo ed in mare)
alla pace e alla guerra.
Ed anche a lei, sacerdote,
congedo, che m'ha chiesto s'io
(scherzava!) ho avuto in dote
di credere al vero Dio.

Congedo alla sapienza
e congedo all'amore.
Congedo anche alla religione.
Ormai sono a destinazione.

Ora che più forte sento
stridere il freno, vi lascio
davvero, amici. Addio.
Di questo, sono certo: io
son giunto alla disperazione
calma, senza sgomento.

Scendo. Buon proseguimento.



L'USCITA MATTUTINA


Come scendeva fina
e giovane le scale Annina!
Mordendosi la catenina
d'oro, usciva via
lasciando nel buio una scia
di cipria, che non finiva.

L'ora era di mattina
presto, ancora albina.
Ma come s'illuminava
la strada dove lei passava!

Tutto Cors'Amedeo,
sentendola, si destava.
Ne conosceva il neo
sul labbro, e sottile
la nuca e l'andatura
ilare - la cintura
stretta, che acre e gentile
(Annina si voltava)
all'opera stimolava.

Andava in alba e in trina
pari a un'operaia regina.
Andava col volto franco
(ma cauto, e vergine, il fianco)
e tutta di lei risuonava
al suo tacchettio la contrada.



RICORDO

Ricordo una chiesa antica,
romita,
nell'ora in cui l'aria s'arancia
e si scheggia ogni voce
sotto l'arcata del cielo.
Eri stanca,
e ci sedemmo sopra un gradino
come due mendicanti.
Invece il sangue ferveva
di meraviglia, a vedere
ogni uccello mutarsi in stella
nel cielo.


IN CORSA         

   Quant'erba francese.

   Il «Palatino» fila
verso Parigi.

          È giorno.

   Passano villaggi gotici.
Boschi di profondo verde.

    Il presente si perde
già nel futuro.
          Il futuro
è già tempo passato.

         Sono ancora in treno.
                              Sono
(da un secolo) già ritornato.



DI DOMENICA SERA   

      La prima impressione.
Pont du Carrousel. Lo spazio
color piombopiccione.

         Nel vuoto domenicale,
il deserto rumore
d'un passo. La péniche
che silenziosa risale
la Senna, a lento motore.





GIORGIO CAPRONI  è considerato da tutti come uno tra i più grandi poeti della seconda metà del secolo scorso per qualità dei concetti e quantità di produzione, egli scrive quasi ininterrottamente fra il 1932 e 1990 (data della sua stessa morte). Il suo numero di poesie a noi note supera le mille composizioni messe nere su bianco proprio in quel lunghissimo periodo di produzione. Caproni nasce a Livorno il 7 gennaio 1912. Nel marzo del 1922 si trasferisce a Genova con la famiglia, dove termina i suoi studi e si iscrive alla Facoltà di Magistero, studiando contemporaneamente violino e composizione e frequentando le lezioni di filosofia di Giuseppe Rensi. Nel 1936 pubblica la sua prima raccolta di poesie. Commesso, impiegato, e infine maestro elementare, nel 1938 si trasferisce, con la giovane moglie Rina, a Roma, dove continuerà a fare il maestro fino al 1973, appartato e lontano dai salotti letterari. Dopo la guerra e la resistenza,spinto anche da necessità economiche, collabora più o meno saltuariamente a numerose riviste ("L'Unità", "Mondo operaio", "Avanti!", "Italia socialista", "Il lavoro nuovo", "La fiera letteraria", etc.), con articoli, racconti, traduzioni. Intensa la sua attività di traduttore di prosa e di poesia soprattutto dal francese; ricordiamo, tra l'altro: Il tempo ritrovato di Proust, I fiori del male di Baudelaire, Morte a credito di Céline, Bel-ami di Maupassant, Frénaud, Char, Genet, Apollinaire. Le sue raccolte poetiche guadagnano numerosi premi sin dalle Stanze delle funicolare (premio Viareggio) e consensi di critica, ma il grande successo di pubblico, in Italia e all'estero, arriva nel 1975, con Il muro della terra (premio Gatti e premio Jean Malrieu étranger, per il miglior libro tradotto in francese), e si conferma con il Franco cacciatore, che ottiene i premi Montale e Feltrinelli. Il poeta riceve nel 1984 la laurea honoris causa in Lettere e Filosofia all'Università di Urbino; e nel 1985 la cittadinanza onoraria di Genova, città che aveva lasciato un'impronta decisiva nella sua vita e nella sua opera poetica. Tra gli altri riconoscimenti, nel 1986 ottiene i premi Chianciano, Marradi Campana e Pasolini, per Il conte di Kevenhuller. Il poeta si è spento a Roma il 22 gennaio 1990. Bibliografia essenziale: Come un'allegoria (1936); Ballo a Fontanigorda (1938); Finzioni (1941); Cronistoria (1943); Il passaggio d'Enea (1956); Il seme del piangere (1959); Congedo del viaggiatore cerimonioso (1965); Il muro della terra (1975); Il franco cacciatore (1982); Il Conte di Kevenhuller (1986); Res Amissa (1991); Poesie (1932-1991) [1995].


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