Benedetta Craveri | Leonardo Sciascia l'ottimista

Questa è l'ultima intervista rilasciata da Leonardo Sciascia, apparsa su Le Monde del 6 ottobre 1989.  Sciascia moriva il mese successi...

Questa è l'ultima intervista rilasciata da Leonardo Sciascia, apparsa su Le Monde del 6 ottobre 1989.  Sciascia moriva il mese successivo, il 20 novembre 1989



Di   Benedetta Craveri


Incontriamo Leonardo Sciascia a Catania, dove si è recato per aprire la mostra di un'amica pittrice. Si sa che non ama parlare di sé. Egli ha la reputazione di uomo taciturno, ma per una volta, ha accettato di rispondere alle nostre domande. Pensiamo  di interrogarlo sulle sue radici siciliane e la sua formazione culturale europea, sulla sua inclinazione per la letteratura francese del XVIII secolo, sulle ricerche storiche che conduce in vista dei suoi romanzi, sulla sua passione per gli enigmi giudiziari e gli intrighi, sul suo scetticismo politico, e sulla sua vita  attuale in Sicilia, condotta tra il suo paese  di Racalmuto e Palermo. Tuttavia, Sciascia ha voluto che gli sottoponessimo le  domande e si è impegnato a risponderci  per iscritto. Addio alle sorprese del dialogo!

Le risposte di Sciascia non hanno effettivamente nulla della spontaneità né della naturalezza di una conversazione, ma hanno la concentrazione, la precisione e lo stile che gli sono propri. Non ha così voluto ricordarci che, per un autore, il solo modo di parlare di sé, è la scrittura?


Come è nata la  sua vocazione di scrittore? Gli anni, l'esperienza, il successo hanno modificato la sua relazione con la scrittura?

C'è, innanzi tutto, il piacere di scrivere, ed è  rimasto invariato in me dal tempo in cui, alle elementari, sono passato dalla copia alla descrizione di ciò che vedevo e commentavo: i luoghi, le persone, gli eventi. A  scuola, allora, si cominciava con le aste, centinaia di aste su quaderni a quadretti con la matita, non ancora col pennino e l'inchiostro. Poi, si passava alle vocali; poi, alle consonanti; poi, all'assemblaggio di una consonante e di una vocale; quindi, si congiungevano le sillabe per formare parole. E si copiavano parole dal sillabario e si facevano schede d’esercizi.

Esercizi che duravano dei mesi. Una volta che la  mano era più sicura e più leggera, si passava all'utilizzo del  pennino e dell'inchiostro con un tale piacere che mi ricordo finanche il gusto di quest'inchiostro, come se lo bevessi.  Il secondo anno, si finiva di copiare e si iniziava a fare temi: piccoli testi sulle nostre famiglie, sulle stagioni, sul lavoro, e, ovviamente, su Mussolini, il cui  ritratto, con quello del re (e, tra i due, un crocifisso di gesso), ci dominava con un'espressione fiera e marziale. Fu allora, grazie a questi temi, che occorreva comporre sulle persone e le cose, che mi venne questo piacere di scrivere che provo ancora oggi. Sono forse reazionario, ma mi sembra che questo vecchio metodo, che si chiama, credo, sillabico,  sia il migliore a far  nascere la passione della scrittura, a conferirle il senso di una scoperta avventurosa.  In definitiva, la mia relazione con la scrittura non è fondamentalmente cambiata da allora.

Nel suo ultimo romanzo, Il cavaliere e la morte, pubblicato l'anno scorso in Italia, per le edizioni Adelphi, lei parla  della “difficoltà di essere siciliano”. Questa difficoltà è anche la sua?

È   la difficoltà che Giuseppe Antonio Borgese riassumeva con la frase del poeta antico: Nec tecum nec sine te vivere possum. Amare un paese e una gente ed odiarli allo stesso tempo, sentirsi simili e diversi, volere e non volere, occorre riconoscere che è un bel  rompicapo (e, giustamente, un rompicapo non è una cosa bella).

Nel panorama della letteratura italiana moderna, gli autori siciliani occupano un posto così di rilievo che si è indotti a  chiedersi se non sarebbe preferibile trattare a parte la letteratura siciliana. Quali sono, secondo lei, i caratteri specifici di questa letteratura facente capo a  Sciascia, Gesualdo Bufalino o Vincenzo Consolo?

La letteratura italiana è caratterizzata da storia, cultura e tradizione particolari a ciascuna  regione; con i contributi lessicali e sintattici di ciascun dialetto. Quella dei Siciliani ha un carattere più specifico. Ma è italiana… Se vogliamo enucleare le particolarità, le caratteristiche  attraverso le quali, in breve, è percepita come “siciliana” all'interno della letteratura italiana, indicherei, approssimativamente, tre o quattro punti.. Sulla scorta di una definizione che Cicerone dà dei  Siciliani (“gente di spirito fine e sospettosa, nata per le controversie”), è facile scorgere  nella storia dell'isola una cultura a  dominanza giuridica, la cui la forma segna della propria impronta l'esistenza medesima. Dalle “controversie” relative a privilegi, giurisdizioni, esenzioni e grazie, alle “controversie” sull'essere, l'esistenza, la conoscenza. “È la terra, dirà Borgese, dove si è iniziato a dubitare” (da Gorgia a Pirandello, va da sé). Ciò per il primo punto. Il secondo è relativo alla dominazione araba, che le altre regioni d'Italia non hanno conosciuto e che, in Sicilia, ha dato nomi a luoghi, ad oggetti, a persone, e che è restata attaccata alla memoria collettiva - o all’inconscio collettivo- agli splendori di un'arte del vivere, di coltivare la terra,di sognare ed essere tolleranti. Benché l'antichità classica sia fisicamente presente, ed in tutta la sua bellezza, è “il tempo dei  Saraceni”,  questo mondo fiabesco che, in fondo, seduce i Siciliani. Il terzo punto è relativo alle espressioni letterarie ed artistiche, e sembra contraddire il primo: è l'attenzione alla realtà, il desiderio di fissarla (per distruggerla in seguito, eventualmente: come in Pirandello, come in Brancati). È ciò che spiega il momento in cui la cultura siciliana si infiamma rispetto ai movimenti  “realistici”europei: Antonello da Messina rispetto ai fiamminghi, gli scrittori, da Verga a Pirandello, rispetto  al “verismo” “francese, il fiorire di tutta una pleiade di fotografi rispetto a Cartier-Bresson. Un altro punto ancora riguarda la relazione diretta della cultura siciliana con la cultura francese, e, più generalmente, il suo sogno di Parigi come capitale mondiale...

Ne  Il cavaliere e la morte, lei evoca “il pessimismo innato, atavico e disperato degli uomini di Sicilia”. Ma, è lo stesso pessimismo che si trova in tutta la vostra opera?

Si, pessimista. Ma c'è realmente qualcosa, in Sicilia, in Italia, e direi anche nel mondo, che può incitare all'ottimismo? Pessimista, sì. Ma, parlando del mio ultimo libro, Moravia ha detto una bella cosa, e, ciò che più conta, di un assoluto buon senso: che c'è l'ottimismo della scrittura. E quale più bella prova d'ottimismo di quella che continuo a dare scrivendo su ciò che Machiavelli  chiamava la “verità effettuale” delle cose ed incassando per questo le reazioni più violente degli imbecilli,  per non dire di più? Il vero pessimismo sarebbe di non scrivere più, di lasciare libero corso alla menzogna. Se non lo faccio, vuole dire, in definitiva, che sono incurabilmente ottimista.  


da: Le Monde - 6 ottobre 1989 (trad. a cura di Alfio Squillaci)

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