Alfonso Gatto | Sciarada e altre poesie

SCIARADA È difficile dire, ma si deve dire, il cuore è detto che non si può dire. Sempre uno specchio quanto più profondo colora...




SCIARADA


È difficile dire, ma si deve dire,
il cuore è detto che non si può dire.
Sempre uno specchio quanto più profondo
colora tutto il giorno che passa
e di sé nulla, un abisso, un macigno.

O romperlo solo
romperlo rotto e di nuovo allagato
romperlo sempre.
Ma forse era un volo
il cuore detto che non si può dire,
la mano aperta che lascia anche il filo
e di sé nulla, più nulla trattiene.

È difficile dire, ma si deve dire,
il cuore è detto che non si può dire,
il cuore duro per rompere il cuore
dentro ha raccolto la sua stessa mano.
Quasi uno scherzo
e per dirlo si gioca.

La morte è uno soffio che pesa l’intero.
Ma la dolce collina del nostro cuore lontano
la luna del nostro amore lontano,
l’inverno del nostro cuore vicino.


CANTO ALLE RONDINI


Questa verde serata ancora nuova
e la luna che sfiora calma il giorno
oltre la luce aperto con le rondini
daranno pace e fiume alla campagna
ed agli esuli morti un altro amore;
ci rimpiange monotono quel grido
brullo che spinge già l' inverno, è solo
l' uomo che porta la città lontano.


e nei treni che spuntano, e nell' ora
fonda che annotta, sperano le donne
ai freddi affissi d' un teatro, cuore
logoro nome che patimmo un giorno.



LA PERGOLA


I primi freddi e l'ultimo tepore
dell'ottobre marino, la canaria
nel suo scialle di brividi ne muore
teneramente, quasi fatta d'aria
e di luce e di nulla, solitaria
cerula voce del posteggiatore
al suo filo di grazia, ma la varia
tristezza del suo volgere all'amore
il sollievo dell'anima è nel vento
prima di sera, ancora chiaro: porta
al largo la memoria ch'ebbe un volto,
un nome che ritorna dall'ascolto,
invocata distanza, luna sorta
dal nulla agli occhi dell'incantesimo.


L'ALBA


Sorgeva l'alba, le finestre chiare
sulla neve notturna, e già la rosa
del vento nella luce apriva il mare
al tratteggio dei gessi, alla mimosa
del sole giallo come fune: tutto
era memoria e oblio, quieto latte
di sonno, e come un'ombra vaga il lutto
delle fiorite nuvole distratte.


IN UN SOFFIO


Risvegliare dal nulla la parola.
E' questa la speranza della morte
che vive del suo fumo quando è sola,
del silenzio che ventila le porte.
Il passato non cessa di passare
e l'odore che sparve è l'aria calda
che ferma gli oleandri lungo il mare
in un soffio di mandorla e di cialda.


PAESETTO DI RIVIERA


La sera amorosa
ha raccolto le logge
per farle salpare
le case tranquille
sognanti la rosa
vaghezza dei poggi
discendono al mare
in isole, in ville
accanto alle chiese.


VIA APPIA


Eterna sera agli alberi fuggiti
nel silenzio: la strada fredda accora
i morti in terra verde: di svaniti
suoni nell' aria armoniosa odora

vento dorato il mare dei cipressi.
Calma specchiata di monti la sera
immagina giardini nei recessi
tristi dell'acqua: erbosa primavera

stringe la terra in uno scoglio vivo.
Cade nel sonno docile la pena
dei monti addormentati sulla riva:
sopra la pace luminosa arena.

Nella memoria li depone il bianco
vento del mare: ad alba solitaria
passano in sogno a non toccarsi: banco
del mattino la ghiaia fredda d'aria.


ARIETTA SETTEMBRINA


Ritornerà sul mare
la dolcezza dei venti
a schiuder le acque chiare
nel verde delle correnti.

Al porto sul veliero
di carrube l'estate
imbruna, resta nero
il cane delle sassate.

S'addorme la campagna
di limoni e d'arena
nel canto che si lagna
monotono di pena.

Così prossima al mondo
dei gracili segni,
tu riposi nel fondo
della dolcezza che spegni.


INVERNO A ROMA


I bambini che pensano negli occhi
hanno l'inverno, il lungo inverno. Soli
s' appoggiano ai ginocchi per vedere
dentro lo sguardo illuminarsi il sole.
Di là da sé, nel cielo, le bambine
ai fili luminosi della pioggia
si toccano i capelli, vanno sole
ridendo con le labbra screpolate.
Son passate nei secoli parole
d' amore e di pietà, ma le bambine
stringendo lo scialletto vanno sole
sole nel cielo e nella pioggia. Il tetto
gocciola sugli uccelli della gronda.


OSTERIA FLEGREA


Come assidua di nulla al nulla assorta
la luce della polvere! La porta
al verde oscilla, l'improvvisa vampa
del soffio è breve.

Fissa il gufo
l'invidia della vita,
l'immemore che beve
nella pergola azzurra del suo tufo
ed al sereno della morte invita.


IL CAPRIMULGO


Tornerà sempre l'ironia serena
del sortilegio sulle tue corolle,
fiore disfatto.
E tu che voli e piangi
stridendo coi tuoi grandi occhi oscuri,
o caprimulgo dalle piume molli,
il buio sempre ingoierà la notte
delle farfalle nere, le lucenti
blatte in cui l'uomo misero rattrae
le mani e gli occhi a rispettarle,
umane della pietà per sé.
Per la scala degli inferi discende
il consenso perenne, l'ordinata
congrega delle vittime plaudenti.

O misura dell'uomo in sé dipinto
costretto oltre la morte, mummia salva
a schermo delle mani,
a non aver più limiti, distratta
è la forza latente, il bruco insonne
della materia che ci traccia e insegue.
Un fenomeno oscuro il divenire
l'enfasi sorda che alle sue parole
non crede più, ma giura. Ancora scende
questa scala degli inferi e l'informe
che chiede un senso smania di figure.


IDILLIO DEL PICCOLO MORTO


La villa silenziosa che raccoglie
dalla riviera docile i suoi lumi
scopre fluenti d’inquiete foglie
viali argentei, siderali fiumi.
In dolorosa esilità mi chiami,
piccolo morto intirizzito d’aria:
la notte calma con pazienti rami
il sonno bianco della Solitaria.
Ma nello slancio rapido dei pini
culmina il cielo delle vette, azzurro,
ed incantati tremano ai vicini
boschi dell’aria gli alberi al susurro
che ti lambisce in una vana pace.
Ora sei bianco e come inteso al vivo
della tua cieca trasparenza. Tace,
rannicchiato, l’erompere giulivo
d’una suprema volontà di spazio:
piccolo morto svincoli le forme
ora che s’è rinchiuso nel tuo strazio
in un silenzio intenso il mondo e dorme.
Esorbiti: cautela del tuo volto
l’aria trasale, illimpidita. Lento,
ripiegato su te, quasi in ascolto
del tuo silenzio, ti rassegni al vento.
Doloroso inesperto alla tua pena,
invaghito monotono di stento,
t’illumini di te: notte serena
spacca troni di roccia al firmamento.
Puro del cielo, e nell’odore stretto
al tuo respiro d’anima fiorita,
il mondo si rannicchia nel tuo petto
nel desiderio caldo della vita.
Così la strada addormentata sale
odorosa di tombe incontro all’aria
nuova del volto, al tuo dolore uguale
per ogni tempo che verrà. Non varia
luna al silenzio che stupì la bara.
Traforata da ruderi celesti
la notte stacca serenata e chiara
l’ora profonda: nel silenzio resti
come un’eco di foglie inquiete, rara.


PASSEGGIATA FUORI PORTA


Non basta l’ oblio,
la gassosa bevuta a mezza strada.
Nulla più che ci aggrada,
che sia blando e leggero
come lo spirito del mattino;
sempre morti tra noi,
il terrore vicino
di un’ altra guerra
e la mente dubitosa
di quel che sarà poi.
senza speranze la terra.
Che diremo al bambino
se vede nella bottiglia
il celeste pensiero
d’ un mare che gli somiglia?
Bastasse l’ angelo arguto
a dirci che il male
è tutto là sul giornale
per chi l’ ha fatto
per chi l’ ha ricevuto.
Il male ci coglie d’ un tratto.
Immeritata la gioia
che non sia di tutti
e i nostri lutti
che non son nostri, i pensieri…
La testa è più distratta ove più impara
a dir col passo gli stessi pensieri.

POESIA D’ AMORE


Le grandi notti d’ estate
che nulla muove oltre il chiaro
filtro dei baci, il tuo volto
un sogno nelle mie mani.
Lontana come i tuoi occhi
tu sei venuta dal mare
dal vento che pare l’ anima.
E baci perdutamente
sino a che l’ arida bocca
come la notte è dischiusa
portata via dal suo soffio.
Tu vivi allora, tu vivi
il sogno ch’ esisti è vero.
Da quanto t’ ho cercata.
Ti stringo per dirti che i sogni
son belli come il tuo volto,
lontani come i tuoi occhi.
E il bacio che cerco è l’ anima.

IL BAMBINO DI GOMMA


Melampo era un bambino
di gomma e cancellava
i passi che segnava
mettendosi in cammino.
Era di gomma rossa,
tondo come una palla,
e stava sempre a galla
nel bagno, e senza ossa
dolce, tenero, buono,
scendeva dalle scale
senza mai farsi male
saltando dal balcone.
A scuola era bocciato,
sempre il quaderno bianco!
Eppure era il più franco
a scrivere il dettato.
Scriveva e poi cassava
con la mano di gomma,
i numeri, la somma,
le lettere, e tornava
a scrivere, a cassare.
E sempre zitto rosso
con tutti gli occhi addosso
senza poter parlare.
O povero Melampo!
Un giorno, detto fatto,
saltò su di scatto
e si bucò la pancia.
Fischiò come un pallone
sgonfiato d’ogni affanno
e visse senza danno
tappando col bottone
il buco della pancia.
Visse nel tempo antico
Melampo – ve l’ho detto? -
Fischiò col suo fischietto
premendosi a soffietto
il disco all’ombelico.




ALFONSO GATTO nacque a Salerno da Giuseppe e da Erminia Albirosa il 17 luglio 1909. La sua era una famiglia di marinai e di piccoli armatori che provenivano dalla Calabria. Frequentò l'università di Napoli senza però laurearsi. Lavorò come commesso, come istitutore di collegio, correttore di bozze ed infine divenne giornalista. A partire dal 1943 fece parte della Resistenza. Oltre che poeta fu anche scrittore e, in particolare, scrisse testi per l'infanzia. Negli ultimi anni della vita si dedico' alla critica dell'arte e della pittura. Mori' a Orbetello (Grosseto) nel 1976, in un incidente d'auto. Fra le sue opere: Isola; (1932); Morto ai paesi (1937); Poesie (1939); L'allodola (1943); La spiaggia dei poveri (1944); Amore della vita (1944); Il sigaro di fuoco (1945); Il capo sulla neve (1949); Nuove poesie (1949); La madre e la morte (1950); La forza degli occhi (1954); La madre e la morte (1959); Poesie (1961); Osteria flegrea (1962); La storia delle vittime (1966); Rime di viaggio per la terra dipinta (1969); Poesie d'amore (1963). La raccolta di poesie Desinenze viene pubblicata postuma a Milano nel 1977.

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