Mariangela Gualtieri
Poesie scelte A cura di Marco Oliviero Ravazzoli da: Antenata (1992) dalla sezione Al tremore dei corpi I Nessun...
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Poesie scelte
A cura di Marco Oliviero Ravazzoli
da: Antenata (1992)
dalla sezione Al tremore dei corpi
I
Nessuno ha guardato oltre
quest’ombra e avuto parole
esatte.
Adesso guarda. Ci sono occhi
freschissimi.
Gole di un colore sgargiante
e dentro il cibo un semplice
soffio, puntini cose corte
tonde.
Per un errore che non mi spiego
eccomi pettinare
domandare chi e’
comperare il pane.
Questo cielo riposa
nelle tue mani
cicatrici e scudi polverosi
a te si addice l’ora
la piaga cosparsa di bava
portami a te
matrice o unghia
o sfera incomprensibile
o bagno venticello volo di
fionda.
Appena si corica tutto tace.
E’ festa e’ tardi
a poco a poco ritorno al mio sangue.
L’attimo
spaccato in parti
rivolta le foglie.
Questa bellezza atterrisce.
Una fiammella
si appoggia e respira su un niente
che mi riguarda.
Si sporge l’ulivo
alle acque invisibili
si spacca in due in tre.
Come tutto piega…
conserva l’alone di un fatto
che non sapremo.
Quest’acqua e’ vecchia
come il sangue, tornano insieme
al punto di partenza si dicono
le parole principali
mormorano entrambi dello stesso
ronzio.
Madre sangue
madre mare
madre delle cento buche
di tutte le spade delle fronti
affogate dei colpi di timone
e remi rotti di braccia
tirate via e ciocche
madre del chiaro d’onda di
quelle sfumature madre di
sale e senza latte senza
le tette rovesci al
tuo petto ributti
alla riva di sfinimento
madre di colpi indifferente di
Al posto dei molti cuori
due o tre tane ben fatte
al posto di quel tratteggio
il canto.
Le cose ghiacciano
si stringono fino al midollo
sfondano il poco tempo che misuriamo
teniamo alla fronte i pezzetti
teniamo il respiro tremulo
dentro ogni buco c’e’ un segno
nella goccia del fico
nelle bestie accucciate un tormento
sotto le piante un urlo tra le foglie
cresce smisurato per tutto il marzo.
L’amico che sta dietro le spalle
fiorito sempre folgore, non osso spugnoso
fune luminosa, latice, lingua corta
zampa poggiata gentilmente
fruscio molto grande
papavero.
Ogni giorno sentiamo battete l’ala.
*
Nel taglio di quest’ora
tutto e’ identico fra sé
a sé raccolto.
Se chiedo il chiarimento sempre sempre
la sfera non si spiega
lo sguardo non si spiega
il colore dello scasso
tanto vicina la lingua
al palo freddo di ferro.
da: Fuoco centrale (1995)
Io guardo spesso il cielo. Lo guardo di mattino nelle
ore di luce e tutto il cielo s'attacca agli occhi e viene a
bere, e io a lui mi attacco, come un vegetale
che si mangia la luce.
Da: Nei leoni e nei lupi (1997)
Nome che stai al centro,
il tuo suono ciocca e s'imperla di voci
ma nessuna ti tiene, nessuna ti osa in
suoni, in lettera e in cifra. Nelle tue solitudini
di mai chiamato. Come tutto è assai strano.
A me sembra. Assai strano.
Ti piantóno, ti indago, mi avvicino in
millimetri. Ti ho nella voce
senza che esca in suono.
*
Vengono. Non soffro più, non
mi fa male più nessun giorno, nessun anno,
celeste il mio stare nella prima morte, nella
seconda, so che la scrivente mano non è mia. Voci.
Mio corpo multiplo, labirinto e popoli che non
classifico.]
Ritornare a voi, le sepolte, le molte mani col dono.
Indicare l'uscio,]
slegare il catenaccio, fare dormire tutto il respiro,
crescere me, prego,]
senza polvere, senza peso, senza ginocchia piegate,
senza parti rotte,]
senza essere intelligente, senza tutto quel senso,
senza ornamento né]
unguento, senza screpolatura, senza cose nervose,
senza mosche, senza]
spine, con qualche spino.
Non c'è da voi colpa, né preghiera. Salute a voi.
Da: Chioma (2000)
Se la parola amore è
uno straccio lurido,
se non ho altra lingua per dire cosa
amo, se l'anima adesso è un ingombro
se il cielo è un posto come un altro,
se dormiamo e dormiamo,
se il mio canto è schiacciato nel cantone
se il mio canto o il tuo, se il mio canto,
se tutte le parole dei savi sono troppo
lente per questa corsa sui cocci,
se anche le bestie in quel loro morire bastonate
neppure si rivelano,
se c'è una tosse
se c'è una tosse che incrosta il cielo
e poi lo sputa
se abbiamo nemici dentro le teste
e macchinette rotte
se la mano è scontrosa alla mano
scontrosa rompe l'onda e il ramo
rompe l'ala e il becco
se abbiamo salmi stonati
se le macerie sulle facce stanche
fanno il peso di tutta la storia
se poi nessuno viene
nessuno s'alza dal fradicio delle tombe
a consegnarci un grappolo, una tazza
un giuramento alla luce
se se se
se c'è una sete che ci ammala,
se c'è un sorso per chi ha sete,
se davvero davvero muove il sole
se muove il sole e l'altre stelle
se la sua gran potenza, sua gran
potenza d'antico Amor,
se il nostro cuore è immenso,
se il nostro cuore
talvolta è immenso, se le
stelle nascono, se è vero che nascono anche adesso
se siamo polverine allo
sbaraglio, catenelle smagliate,
benedico ogni centimetro d'Amore ogni
minima scheggia d'Amore
ogni venatura o mulinello d'Amore
ogni tavola e letto d'Amore,
l'Amore benedico
che d'ognuno di noi alla catena
fa carne che risplende
Amore che sei il mio destino
insegnami che tutto fallirà
se non mi inchino alla tua benedizione
Da: Parsifal (2000)
dal Monologo del non so
Io non so se questa mia vita sta spianata su un
buco vuoto. Non so se il silenzio che indago
é intrecciato alla mia sostanza molle.
Io non so se quello che cerco e ho cercato e
cercherò, non so se quello che cerco
é un insulto a quel vuoto.
Non so se questo fatto di non avere
un paio d’ali, sia premio o castigo,
io non so se la polveriera
della mia inquietudine sia un trono
su cui mi siedo minacciato, se la fuga che
a scatti regolari mi pungola, se quel
puerile sogno di fuga sia uno sgambetto
d’angelo, d’un buffone d’angelo che
mi vuole inciampare.
Io non so se l’amore sia una guerra o una
tregua, non so se l’abbandono d’amore
sia una legge che la vita cuce fino al
ricamo finale. Io non so
che farmene di questi nemici che premono,
non so che farmene oggi di questo oggi
e me lo ciondolo fra le dita perplesse,
non so parlare di quello che
è sentito nel profondo me, non so parlarlo
quell’essere che é qui presente fra le vite degli
altri.
Io non so spiegarmi l’imperturbabilità
di Dio, e non mi spiego di non udire il
suo grave lamento, il suo urlo di collera o
d’amore, e non so vederlo che sono in cecità
ma vorrei sentirlo almeno piangere come piango io
guardando le facce indolorate, guardando le
facce con grave malattia terrestre,
io non so invocarlo né bestemmiarlo che
è troppo nella sottrazione e troppo
astratto per i miei chili umani.
Io non so forse non voglio
consegnarmi negli uffici del mondo,
e stare buono nelle sale d’aspetto della
vita. Io non so nient’altro
che la vita e molte nuvole intorno che
me la confondono me la confondono e non
so cosa aspetto, cosa sto aspettando in questo
sporgermi al tempo che viene. Io non so
e vorrei, vorrei, non so stare
fuori misura, fuori misura umana,
fuori da questa taglia finita.
Io non so perché guardando l’acqua del mare
mi salta in petto una gioia di figlio con la
madre. Non so se questa uscita mia in un secolo
a caso, se questo essere qui a casaccio,
io non so spiegarmi questa malattia
all’attacco del mondo, non so guarire
questa malattia che indolora e vorrei
sistemare ogni cosa, in un sogno puerile di
tregua, in un’arcadia anche retorica,
in un dormire abbracciato dei
guerrieri che si innamorano.
Io non ho capito e dovrei,
non ho capito il mondo della
vita, io non ho capito la legge sottostante
e non ho da fare la consegna a
questi cuccioli che aspettano, che esigono
da me l’aver capito.
Io non so la canzone
che spensiera e non so soccorrervi
non so pur volendolo
con quella forza di cagna
che dà il latte, non so soccorrervi nel vostro
sbando, io non so farvi un canto della
guarigione, non so farvi da balsamo
io non so mettervi nel coraggio essenziale,
nello slancio, nel palpito.
Il mio Graal l’ho ritrovato e perso cento
volte.
Io non so se le particelle piriche del mio
disagio fanno una miccia che incendia.
Non so se l’Attila del mondo ha
una forza che straborda le mie
dita pacifiche, non so se indurlo a
guerrigliare, non so se indurlo
se sedurlo se ridurlo a sagoma
di sogno, non so se alzare bandiera bianca
o finirò impantanato nella sua
normalità stupefacente, nella sua
normalità di Attila che
fa terra bruciata, non so se battermi,
essere patriota di un’idea sollevata, non so
se fare il giuramento alla
primavera che dice la sua infiorando e
incantando, non so se slanciarmi
nel cataclisma barbarico e dare
un goccio d’acqua alle bocche
screpolate di fratelli, non so
se fare il giuramento a questa tregua
domestica, se fare il giuramento delle
pance satolle o azionare un voltafaccia
che strozza ogni boccone. Non so se nell’uno o
nell’altro caso sono salvo, se sono salvo
quando viene l’angelo
col suo atto d’accusa, e ci condanna ancora
ad una logica finanziaria
e poi dà l’ordine di sospendere le vite.
Io non so se la bellezza è questa accademia di
centimetri, se la bellezza, la bellezza è questa
carnevalesca decadenza di saltimbanchi,
io non mi spiego la crocifissione
della grazia, e non mi spiego perchè
mi trovo qui, in questo covo rivoltato
in questa fossa con gli orchi attuali
in questo lato barbarico della specie,
e non so perchè stando a occidente non si
ode quell’alleluia delle cose.
Io non so se in questa schiena
senza ali ci son grandi pianure da cui fare
il decollo, se in questa spina dorsale
ci sono istruzioni
per la manovra di decollo, se sono io la freccia
di questo arco della schiena, se sono io
arco e freccia, non so in quale mano
non mano o zampa di Dio mi stanno
torchiando, e sottoponendo al duro
allenamento dei dolori terrestri.
Io non so se la solitudine, se quello
strazio chiamato solitudine, se quell’andare
via dei corpi cari, se quel restare soli
dei vivi, io non so se quel lamento della
solitudine, se quel portarci via le facce
se quel loro sparire
di facce che avevamo dentro il respiro, non so
se il dono sia questo portarci via le
carezze, questa slacciatura.
E’ poco il poco che so e di questo
poco io chiedo perdono. Io chiedo
perdono per quello che so, perdono io chiedo
per tutto quello che so.
da: Fuoco centrale e altre poesie per il teatro (2003)
dalla sezione: Fuoco centrale
Io sono spaccata, io sono nel passato prossimo,
io sono sempre cinque minuti fa,
il mio dire è fallimentare,
io non sono mai tutta, mai tutta, io appartengo
all'essere e non lo so dire, non lo so dire,
io appartengo e non lo so dire, non lo so dire,
io appartengo all'essere, all'essere e non lo so dire
io sono senza aggettivi, io sono senza predicati,
io indebolisco la sintassi, io consumo le parole,
io non ho parole pregnanti, io non ho parole
cangianti, io non ho parole mutevoli,
non ho parole perturbanti,
io non ho abbastanza parole, le parole mi si
consumano, io non ho parole che svelino, io non ho
parole che puliscano, io non ho parole che riposino,
io non ho mai parole abbastanza, mai abbastanza
parole, mai abbastanza parole
ho solo parole correnti, ho solo parole di serie,
ho solo parole fallimentari, ho solo parole deludenti,
ho solo parole che mi deludono,
le mie parole mi deludono, sempre mi deludono,
sempre sempre mi deludono, sempre mi mancano
io non sono mai tutta, mai tutta, io appartengo
all'essere e non lo so dire, non lo so dire, io
appartengo e non lo so dire, non lo so dire,
io appartengo all'essere, all'essere e non lo so dire.
dalla sezione: Solenne
Anch'io voglio tutte le sbandate
essere viva fino allo scortico
essere tavolo pietra bestiale essere
bucare la vita coi morsi
infilare le mani in suo pulsare
di vita scavare la vita scrostarla
sfondarla spericolarla battermi con lei fino
ai suoi sigilli.
Per amore - per amore - tutto per amore.
dalla sezione: Predica ai pesci
Bello, bello, bello mondo, bello ridere di
mondo in luce mattutina in
colorazione di mondo con stagioni e
popolazione e animali. Bello mondo
questo ricordo, questo io lo ricordo
bello, molto bello mondo, con cielo
diurno e notturno, con facce che
mi piacevano e musi e zampe e
vegetazione che mi sospirava e mi
sospirava leggera leggera, tirando
via chili e scarponi interiori che mi
infangavano, tirando via ferri da stiro
che mi portavo nel petto, e gran pulitura
di dentro. Bello questo io lo ricordo
bello -
Io ho avuto soccorso a volte da
una piccola foglia, da un frutto così
ben fatto che dava sollievo a mio
disordine di fondo. Si si.
Da: Senza Polvere Senza Peso (2006)
dalla sezione: Ai miei maestri immensi
Giorno d'aspromonte dove salgo
caricata con un peso un peso
che non si appoggia. Giorno
del mio stretto di magellano nel petto
con quel boccone che non s'inghiotte.
Giorno della testa poggiata alla mano.
Usciamo. Chiediamo che passi
tutto lo star male. A chi chiediamo?
Alla vigna che è tutta
uno scoppio di foglie nuove
al ramo dell'acacia con gli spini
all'edera e all'erba
sorelle imperatrici che sono
manto disteso e potentissimo trono.
E che cosa chiediamo?
Una piena falcata d'amore,
una giusta battaglia, aculei nella voce,
narcisi e rose
essere radiosonda
del niente che trasforma
il trascendente in cose.
dalla sezione: Acqua rotta
Gli altri sono troppi, per me.
Ho un cuore eremita. Sono
impastata di silenzio e di vento.
Sono antica.
Mi pento ogni volta che vado
lontano dal mio stare lento
nelle velocità della sera, nelle auto schizzate
di pianto. Col loro buio abitacolo.
E se sfreccio a volte
sulla modesta moto, è per cantare
a gola stesa l'ultimo del paradiso
fare il mio guizzo pericoloso
con tutto quel vento nel petto
seminare parole beate
nel panorama nervoso.
dalla sezione: So dare ferite perfette
“Giuro per i miei denti di latte” giuro per il
correre e per il sudare giuro per l'acqua e
per la sete giuro per tutti per i baci d'amore
giuro per quando si parla piano la notte
giuro per quando si ride forte giuro per la parola no
e giuro per la parola mai e per l’ebrezza
giuro, per la contentezza lo giuro.
Giuro che io salverò la delicatezza mia
la delicatezza del poco e del niente
del poco poco, salverò il poco e il niente
il colore sfumato, l'ombra piccola
l'impercettibile che viene alla luce
il seme dentro il seme, il niente dentro
quel seme. Perché da quel niente
nasce ogni frutto. Da quel niente
tutto viene.
Da: Paesaggio con Fratello Rotto (2007)
dalla sezione: Canto di ferro
Amore mio,
è difficile da questo fondo, da questo finale,
dire come mi manchi, come immenso tu sei nel mancare,
adesso che mi sono persa fra masse dure, fra cinghie di buio pesto,
senza divinità, senza la tua mano che tutto sorregge.
Tu mi credi più forte, mi pensi in oro e argento, ma guarda l’orma che lascio,
come di cagna, di passero stanco, di bruco, di mosca.
Non vedi come mi spengo se non mi ami? Mi secco come una pianta.
Amami ancora un poco, con cura, con tempo, con attesa. Amami come amano i forti spiriti,
senza pretesa, con fuoco generoso, con festa, senza ragionamento.
E scusa questo mio domandare ciò che si deve dare,
questo avere bisogno, scusalo. Non è degno del patto che lega la rondine al suo volo,
la rosa al suo profumo, il vino al suo colore, il tuo cuore al mio cuore.
Bambina mia.
Per te avrei dato tutti i giardini
del mio regno, se fossi stata regina,
fino all’ultima rosa, fino all’ultima piuma.
Tutto il regno per te.
Ti lascio invece baracche e spine,
polveri pesanti su tutto lo scenario
battiti molto forti
palpebre cucite tutto intorno. Ira
nelle periferie della specie e al centro. Ira.
Ma tu non credere a chi dipinge l’umano
come una bestia zoppa e questo mondo
come una palla alla fine.
Non credere a chi tinge tutto di buio pesto e
di sangue. Lo fa perché è facile farlo.
Noi siamo solo confusi, credi.
Ma sentiamo. Sentiamo ancora.
Siamo ancora capaci di amare qualcosa.
Ancora proviamo pietà.
C’è splendore in ogni cosa. Io l’ho visto.
Io ora lo vedo di più.
C’è splendore. Non avere paura.
Ciao faccia bella,
gioia più grande.
Il tuo destino è l’amore.
Sempre. Nient’altro.
Nient’altro nient’altro.
Da: Bestia di gioia (2010)
dalla sezione: Naturale sconosciuto
Tutto davanti al volto si rivolta
nulla sta fermo nella rotazione.
Il moto della terra
avvicenda le vite
alle vite, sbenda il pulcino
dal suo guscio e lo conduce becchettando
fino alla sua forma piena
fino alla matrice, alla riproduzione
fino al rosso vivo della cresta.
dalla sezione: Un niente più grande
La bambina è rimasta con me.
Non è mai nata.
Si sbilancia fra i miei precipizi
ride forte e lenta dorme
e forte resta
resta sempre. Col suo cuore
che fa cuore col mio.
La bambina di sole azzurrina.
dalla sezione: Sponde degli insonni
E’ venuto un sonno benedetto
e mi ha stretto nel suo respiro
mollato. Mi ha condotto
insieme a tutti i dormienti
nel posto di buio immacolato.
Come dormivo bene
questa notte! come ristorato
il corpo ride al normale mattino
che a me pare un tale paradiso.
Per questa gioia
è valso non dormire.
dalla sezione: Per solitario andaré
Cadono comandate
le pigne. Sopra tutto si gingilla
il tempo.
Cadono le aghe dei pini quando è ora.
C’è obbedienza nel regno.
Uova schiudono piccole piume
ordinatamente il bruco
penetra nell’invitante polpa.
Circola un bene
spintona o trattiene
in volo alto sostiene
anche noi siamo parte.
dalla sezione: Mio vero
Sii dolce con me. Sii gentile.
E’ breve il tempo che resta. Poi
saremo scie luminosissime.
E quanta nostalgia avremo
dell’umano. Come ora ne
abbiamo dell’infinità.
Ma non avremo le mani. Non potremo
fare carezze con le mani.
E nemmeno guance da sfiorare
leggere.
Una nostalgia d’imperfetto
ci gonfierà i fotoni lucenti.
Sii dolce con me.
Maneggiami con cura.
Abbi la cautela dei cristalli
con me e anche con te.
Quello che siamo
è prezioso più dell’opera blindata nei sotterranei
e affettivo e fragile. La vita ha bisogno
di un corpo per essere e tu sii dolce
con ogni corpo. Tocca leggermente
leggermente poggia il tuo piede
e abbi cura
di ogni meccanismo di volo
di ogni guizzo e volteggio
e maturazione e radice
e scorrere d’acqua e scatto
e becchettio e schiudersi o
svanire di foglie
fino al fenomeno
della fioritura,
fino al pezzo di carne sulla tavola
che è corpo mangiabile
per il mio ardore d’essere qui.
Ringraziamo. Ogni tanto.
Sia placido questo nostro esserci –
questo essere corpi scelti
per l’incastro dei compagni
d’amore.
Da: Caino (2011)
CAINO
Guardami –
Io
con dita di ingegno e brace
ho appeso al sangue le popolazioni
in navate di gelo
ho spinto rotto e sepolto
gli inermi della terra
ho vinto tante di quelle volte
facilmente ho battuto
ho stretto ho colpito forte
ho atterrito ho acceso
con ira improvvisa
tinto d’un fosco
la primavera di tutti
nel precipizio di un furore senz’argine
impossibile da barricare
ho tinto l’istante d’un sanguigno
somigliante al mio
quando gonfiava vicino a me, in me
uno strano scuro animale
in spinte
dalle profondità
un getto in risalita furibonda
da un ignoto di me
da un buio di me
da oscure regioni dal fondo di me
da un dentro del dentro di me -
sua massa d’ombra gonfiava
d’una marea potente
fino al trabocco dal petto
in una peste
in uno sbattere contro altra carne
e mutilarla e penarla
in un silenzio
dove l’ultimo gemito si raggruma
in freddo fratello
e apre un tacere che non smetterà.
Non smetterà di morire
questa vita
che passa da una carne a quell’altra
non smetterà questa bestia
la sua risalita dal petto.
Nasce ora, in questa notte
un altro più simile a me.
Nasce continuamente.
E io questa notte
in quest’ora
per lui e per me. Ho pietà.
PREGHIERA DELL’ALATO
Tu che ti nascondi dentro tutti i nomi.
Se tu fossi.
Se tu fossi una madre. Lui non scantonerebbe
cercandoti. Rovistando dentro particelle
atomi e formule non si sbatterebbe
su tavolacci a tagliare il cadavere più solo
lui non calpesterebbe le belle forme del mondo
se tu apparissi. Se tu consolassi
come la cagna in leccate il suo nato dolorante.
Se tu. Se tu partorissi. Se tu
con un latte semplice e una tazza
appari. Se tu. Per la sua voglia
d’essere immenso e senza morte se tu
per questo suo pestare
e fare male. Se tu appari
lui non dà da mangiare veleno
non raschia fino all’erosione
non inficca la mano nella costellazione
e l’atomo spaccato lo ricompone
se vuoi. Se glielo chiedi se appari. Se guidi in
chiarità. Se tieni. Se ripari. Se stringi
al petto. Se vieni a lui.
“Contano infiniti cadaveri. Sono
l’ultima specie umana”. Sporgenti
su una rovina che plana a colpi
d’ala nera, a becco, a unghiate.
Le ore sono alla fine. La terra
respira poco. Fa fatica.
Sale un’indifferenza di ferite
un dondolare senza meta. Se tu
che cavalchi gli abissi, tu
che puoi ciò che ti piace
appari ora
e piloti la terra in fiorite
loro pietrificate menti
loro indurite porte eccole aperte!
Tu che detti architetture sontuose
agli insetti e insegni ai becchi il cerchio dei nidi
e tane assai ingegnose e manovre
di piume e colori perché il seme si attacchi
tu mano nascosta e che nascondi.
Hai sponde troppo alte per i suoi arti
manovre misteriose, gittate troppo lunghe.
Adesso guarda. Ascolta la sua voce
questo suono suo sillabante
i suoi verbi. Le sue vocali non sono
altro che la tua furia respirante
le sue consonanti tu le hai strappate fuori
da una gola di bestia mutante.
Vedi non sa. Non sa più niente ora.
E’ qui balbettante. E’ nudo. Incerto.
Ha solo la parola per chiamarti. Vieni.
Vuole perdonarti. Dell’imperfetto con cui lo hai fatto.
Vieni. Non avere paura di lui. Ti perdona. Sì ti perdona.
Da: Le giovani parole (2015)
Nella mia testa non c’è altro che mare
altro che mare incantatore – altro nient’altro
che mare e sole in un crescendo silente
e dormiente.
Parla un mistero. Tace un mistero
e solo il corpo entra nel fiore
nel fiore d’acqua.
*
Eccomi. Sole celebrante
sprigiona l’intero mattino.
Polveri d’amore eseguono orme
e una pista conduce fino sotto
il cuore. Parole.
Staremo nell’ascolto pellegrino
all’incrocio fra stelle e zolle
dove l’inafferrabile stormisce
e guizza altrove.
Saremo
completi di una salute potenziale
con un ridere
che partecipa tutta la stagione
in giusto canto. Venite.
Potenze
del mattino, riconosciute
per sottigliezza.
Ah! come mi abbandona ora
l’umana solfa e tutto viene
manifesto in splendore.
Questo stare appesi ad un respiro corale
dove anche il rospo concorre a questa luce.
Si frappone fra la mano e ciò
che la conduce un piano obliquo
di dolcezze. Un nascere delle cose
al giorno e tutte spogliate
le vecchie forme sono ricreate.
Buongiorno a voi che non vediamo.
Ciò che non vediamo
preme. Preme e viene
viene e sappiamo ciò che l’animale
conosce e non rivela.
Restiamo ancora un poco.
*
Ogni giorno partorivo la mamma
aggiustavo sul guanciale le forme
di quel suo stare rovinato.
Con parole rimpicciolite
modellavo il suo corpo disteso
agitavo lo stagno del suo sangue.
Dal suo pozzo sillabava lenta lenta
come fosse da molto lontano.
Partorivo la mamma, la tenevo
di qua. Lei che piano mollava
scivolando sul fondo fangoso.
Che fatica allora che lungo sgravare
che infinito lento precipitare
che terminata festa
e come la mia vita parcheggiava lo slancio
all’ombra di quel feto dipinto
d’un’infanzia sghemba e pesta.
Questa fanciulla mamma rovinata
ogni parola resta imprigionata
in un gorgoglío di vento e di tormento –
il suo nome, il mio nome, ogni nome
è fuoco spento.
*
Questo giorno io lo butto via
sparpaglio le sue ore ciondolando
guardo la pioggia fine solo stando
ferma, seduta qui al tavolino.
Lo butto come giorno che non conta
una cartaccia sporca, una buccia
niente di niente che si getta via.
Si chiama lunedì, si chiama aprile
numero ventinove, e piove piove
e sarei piena di cose da fare
per farne un giorno col suo risultato.
Ma l’ho detto. Sarà buttato, sperso
consegnato ad un ozio che non vale
se non come preghiera. Allora dire
ecco, io offro questo ciondolare
sull’altare del mondo affaccendato.
Faccio io il perno che non muove.
Il punto che sta fermo. Lo bado io
quell’immobile stato delle cose.
*
Pregava così: liberatemi
dalle faccende. Datemi
tempo vuoto. Datemi
le parole che volete. Un canto.
Salute. Un ospizio di parole.
Una grotta del tesoro di parole.
Aiuole di sillabe per me.
Grandi manovre scritte sul foglio.
Cresce un ardore. Lascia perdere
tutto. Andando scavando
una porpora mai vista
si accende. C’è tutto cielo
fino al pavimento. C’è un silenzio
come un comando.
Un esclamativo silenzio.
Un vestito di silenzio
addosso. Una corona d’oro
di silenzio.
Gocciolate! scendete!
affiorate! apparite! dite! dite!
*
Dentro la lingua
un fagotto di sillabe
si srotola in canto.
È tempo di cadere
dentro covoni di parole
e farne pane per tutti.
*
Un troppo grave disordine
riempie questa camera
dentro. E non so
come arginare i pezzi del mondo
le entrate indomabili
l’assillo di pagine e fogli
e pezzi di vecchio pane e
torsoli anneriti. Dove
il bandolo di tanto frastuono
buttare che cosam cosa impilare
riporre. Come fermare
l’emorragico mondo che preme
e dilaga e invade pervade
si impila si sgretola e viene
dentro la camera
e fa un peso un peso di secoli
con suono, con mille inutili invii e
richiami e messaggi.
*
Non sappiamo. Non so. Non è dato sapere
con parole. Solo il corpo sa.
Sapienza di respiro. Sapienza naturale
di particelle tenute insieme
dalla circolazione. Atomi piastrine
aminoacidi tessuti vitamine proteine
una distribuzione di funzioni
svolte perfettamente. Ogni parte
una precisa mansione. E tutte insieme
dalla vetta degli occhi
sotto l’immensa volta della notte
per meccanico alzarsi della faccia
tutte le particelle insieme sobbalzano
un istante – quasi rammentando una
sgomentante felicità.
MARIANGELA GUALTIERI, è nata a Cesena, in Romagna, nel 1951. Si è laureata in architettura all’IUAV di Venezia. Nel 1983 ha fondato, insieme al regista Cesare Ronconi, il Teatro Valdoca, di cui è drammaturga. Il teatro della Valdoca ha rappresentato poesie di Mario Luzi, Franco Loi, Franco Fortini, Maurizio Cucchi, Piero Bigongiari. Fin dall’inizio ha curato la consegna orale della poesia, dedicando piena attenzione all’apparato di amplificazione della voce e al sodalizio fra verso poetico e musica dal vivo. Ha pubblicato alcune raccolte di versi, fra le quali Antenata (1992); Fuoco centrale (1995); Sue dimore (1996); Nei leoni e nei lupi (1997); Parsifal (2000); Chioma (2000); Fuoco centrale e altre poesie per il teatro (2003); Senza polvere senza peso (2006); Sermone ai cuccioli della mia specie (2006); Paesaggio con fratello rotto - Trilogia (2007); Racconti delle grandezze (2008); Bestia di gioia (2010); Caino (2011); Sermone ai cuccioli della mia specie - nuova edizione libro + CD audio (2012); Le giovani parole (2015). Premi: Premio Drammaturgia in/finita a Mariangela Gualtieri per la trilogia Antenata (1994); Premio Nazionale di Poesia Tronto 13ª edizione a Mariangela Gualtieri per Parsifal (2000); Selezione Premio Camaiore 19ª edizione Mariangela Gualtieri per Senza polvere senza peso (2006); Selezione Premio Letterario G. Dessì 21ª edizione Mariangela Gualtieri (2006); Premio Rhegium Julii - Lorenzo Calogero a Mariangela Gualtieri per Senza polvere senza peso (2006); Premio Malatesta Novello 2ª edizione a Mariangela Gualtieri (2008); Premio Elisabetta Turroni 5ª edizione a Mariangela Gualtieri e Cesare Ronconi (2009); Premio Nazionale Letterario Pisa 54ª edizione, sezione Poesia, a Mariangela Gualtieri per Bestia di gioia (2010); Premio Selezione Ceppo 55ª edizione a Mariangela Gualtieri per Bestia di gioia (2011); Premio Letterario Metauro 18ª edizione a Mariangela Gualtieri per Bestia di gioia (2011); Premio Hystrio alla drammaturgia 13ª edizione a Mariangela Gualtieri (2011); Premio di Poesia Mauro Maconi 6ª edizione a Mariangela Gualtieri per "Le giovani parole" (2015).