Eva Marinai | L’affabulazione del giullare in Mistero buffo: Dario Fo e il riuso politico del materiale popolare. Presentazione

Dario Fo, Mistero Buffo (1969) monologo – “giullarata popolare” di e con Dario Fo in collaborazione con Collettivo Teatrale Nu...




Dario Fo, Mistero Buffo (1969)
monologo – “giullarata popolare”
di e con Dario Fo
in collaborazione con Collettivo Teatrale Nuova Scena
prima rappresentazione: Sestri Levante (Genova), 1 ottobre 1969


Dopo una prova generale aperta all’Università degli Studi di Milano durante un sit-in studentesco, lo spettacolo più noto di Dario Fo debutta a Sestri Levante (Genova) il 1° ottobre 1969, come «giullarata popolare». Prevede una raccolta di monologhi che descrivono episodi di argomento biblico, inspirati a brani dei vangeli apocrifi e a racconti popolari sulla vita di Gesù e sui suoi miracoli. La forma compiuta e definitiva cede il passo ad una mobilità testuale tipica del teatro di Dario Fo e Franca Rame: l’opera muterà nel corso degli anni, in conseguenza dei numerosissimi allestimenti in Italia e all’estero.

La drammaturgia, infatti, è realmente un «testo mobile» e uno «spettacolo in potenza»: testo dinamico che introietta nella modalità stilistica la dimensione pluri-vocale, mimica e gestuale dell’interprete, che ne è anche l’autore. Il titolo – su cui probabilmente ha pesato la suggestione del Mistero buffo di Majakovskij messo in scena nel 1918 per la regia di Mejerchol’d – rivendica il legame con i misteri, gli spettacoli medioevali a carattere sacro-devozionale, di cui però l’autore propone il versante popolare, “buffo” appunto, carico di una vena irriverente e satirico-grottesca, volta a denunciare e smascherare il potere. Così Fo, moderno giullare, ricorre ad un insieme di dialetti padano-veneti e al linguaggio reinventato,fortemente onomatopeico, del grammelot, per raccontare, con grande vis comica, la tacita, millenaria storia delle classisubalterne in una satira politica che mantiene intatta nel tempo la forza dissacrante. Basti pensare alla Resurrezione di Lazzaro, alla Fame dello Zanni o a Bonifacio VIII, celebri anche fra il grande pubblico grazie alle versioni televisive trasmesse dalla RAI a partire dal 1977, per avere un’idea delle incredibili doti artistiche e performative dell’”attore-autore” 1 e della carica corrosiva dell’opera, che ne fanno uno dei più importanti lasciti novecenteschi alla storia del teatro occidentale.

Le versioni a stampa dell’opera sono molteplici e, nel corso degli anni, constano di differenti integrazioni al testo. Dalla prima edizione di Nuova Scena, Mistero buffo. Giullarata popolare in lingua padana del 400 (Cremona 1969) all’ultima di Einaudi, Mistero buffo. Giullarata popolare di Dario Fo, a cura di Franca Rame (Torino 2003), la struttura cambia moltissimo. Nella prima edizione compaiono già Il matto e la morte, La Resurrezione di Lazzaro, La moralità del cieco e dello storpio, Le nozze di Cana (con il titolo L’ubriaco), ma non si dà conto di Bonifacio VIII e La nascita del villano, comprese nella rappresentazione del 1969 alla Casa del Popolo di Cusano Milanino. Questi episodi appaiono invece pubblicati come “Aggiunte” in Mistero buffo. Giullarata popolare in lingua padana del 400 nell’edizione del Teatro politico di Dario Fo. Compagni senza censura, vol. I (Milano, Mazzotta, 1970); mentre nella successiva edizione di “La Comune”, Mistero buffo. Giullarata popolare (Verona, Bertani, 1973), si aggiungono Rosa fresca aulentissima e La nascita del giullare, già sperimentati ad ogni modo in scena. Nel 1977 Einaudi presenta Mistero buffo nel quinto volume delle Commedie insieme a Ci ragiono e canto, mentre il solo testo di Mistero buffo sarà riproposto vent’anni dopo in una nuova edizione della collana “I Millenni” (1997) che prevede un cofanetto con libro e DVD dello spettacolo.

Nell’edizione “definitiva” del 2003 il testo si suddivide in due parti: I Misteri (Presentazione, Rosa fresca aulentissima, Il rito dei mammuthones e dei capri, La strage degli innocenti, Moralità del cieco e dello storpio, Il miracolo delle nozze di Cana, La nascita del giullare, La nascita del villano, La resurrezione di Lazzaro, La Madonna incontra le Marie, Maria alla croce, Il Matto e la Morte, I crozadòr [inchiovatori], Bonifacio VIII, Storia di San Benedetto da Norcia, Il primo miracolo di Gesù Bambino) e I grammelot (“La fame dello Zanni”, Grammelot di Scapino, Grammelot dell’avvocato inglese,Grammelot napoletano di Razzullo, Caduta di potere). Un’Appendice contiene, inoltre, alcuni prologhi con commenti satirici sugli avvenimenti che si sono avvicendati nel nostro paese dal 1969 a oggi (La Guerra del Golfo, Il miracolo delle nozze di Cana, La resurrezione di Lazzaro, Maria alla Croce,Bonifacio VIII, Il primo miracolo di Gesù bambino).

La forma spettacolare che Dario Fo adotta è dunque quella del monologo e dell’affabulazione narrativa, d’impronta didattica-brechtiana, ma sul versante comico-grottesco. Egli si presenta solo in scena e in abito quotidiano, che – per l’uniformità del nero – ricorda il costume da mimo alla Jacques Lecoq, da cui Fo ha studiato coreografia negli anni Cinquanta, all’epoca della collaborazione per Il dito nell’occhio (con Parenti e Durano), ovvero quando l’artista francese lavora al Piccolo Teatro di Milano e si interessa alle maschere della Commedia dell’arte. Forse con l’aiuto di Lecoq e a seguito degli esercizi fisici preverbali, Fo brevetta, a partire dalla rivista I sani da legare (1954), il grammelot, «questa “balla” fonico-gestuale multilingue, che reiventa non solo l’arcaico padano-veneto delle sue autoimmagini giullaresche […] ma allude anche allelingue straniere […], eludendole» (Barsotti, 2015). Proprio attraverso la lingua comica, attraverso il grammelot, si attua unatrasgressione delle regole socio-linguistiche.

Plausibile che egli abbia riproposto, variandola, una parola francese appartenente al gergo degli attori e dei mimi. Infatti grammelot, che l’attore di San Giano afferma essere «un termine di origine francese coniato dai comici dell’arte e maccheronizzato dai veneti che dicevano ‘gramlotto’» (Fo, Manuale minimo dell’attore, 2001), sarebbe una reinvenzione del francese grommelots (Taviani, 1988), introdotto dagli attori di Copeau, i copiaus, per indicare certi esercizi fisici preverbali composti da borbottii: dal verbo grommeler, “borbottare”, che traducevano il «suono emotivo di un’azione»2.

L’elemento di trait d’union tra Copeau e Fo potrebbe essere proprio Lecoq, che dopo la guerra diviene coreografo e attore nella compagnia di Jean Dasté, genero di Jacques Copeau. È Dasté che introduce Lecoq all’uso del corpo in teatro ed è verosimile che alcuni esercizi utilizzati dalla compagnia del regista francese siano stati impiegati anche da Dasté e di conseguenza da Lecoq in Italia 3 Per la prima edizione dello spettacolo, risalente al 1969, Fo usa un miscuglio di dialetti padano-veneti – come si è accennato – che diventa materiale fonico-linguistico per la scena, e assume poi dignità di lingua scritta, con traduzione a fronte, a partire dall’edizione del 1973. Già dal 1974, però, dopo la tournée in Francia, nel corpus del testo spettacolare comparirà il grammelot, che finirà per rappresentare la cifra stilistica connotativa dell’intera opera: «il gramlot dà alle parole il valore di didascalie e ai gesti il valore di parole» (Meldolesi, 1978). Una nuova versione sarà presentata alla Palazzina Liberty il 7 aprile dello stesso anno (1974), alla presenza di quindicimila spettatori; e, nel 1976, a Roma, Fo porta in scena anche i brani in grammelot.

Alla materia fonica si accompagna, come si è accennato, una partitura mimico-gestuale particolarmente intensa ed efficace: per esempio, l’effetto di «“primo piano” si realizza in modo da porre in rilievo la curvatura della bocca, con gli angoli all’ingiù per il tragico o il patetico parodizzato, e all’insù per l’effetto comico d’una risata contagiosa. Da quella curva vengono fuori i denti da cavallo (ma anche un po’ mordaci), sovrastati perpendicolarmente da un’altra curvatura importante, quella del naso, mentre gli occhi si strizzano in due brevi fessure oppure, tondi e spalancati, quasi strabuzzanti, sprizzano scintille dal fondo di un’espressione infantile. Non si tratta d’una vera e propria deformazione, né d’una disarticolazione burattinesca […], ma d’una accentuazione di difetti fisiomimici valorizzata dalla fissità imprevista, sorprendente, e dall’inclinazione della faccia» (Barsotti, 2007).

Nell’attore-autore convivono, quindi, una lingua corporale e una gestualità vocale quali strumenti indispensabili alla traduzione del messaggio4, che di fatto è un messaggio politico.

L’impegno artistico di Fo, peraltro, è quello di cercare di restituire dignità alla cultura popolare, rendendo operativo e non ideologico tale concetto5. Egli intende indagare le radici della tradizione, vivificando quel processo di presa di coscienza delle proprie origini e di appartenenza al proprio territorio, capace di alimentare il sentimento d’unità , di coesione e di riscatto degli umili. In Mistero buffo, infatti, «la dimensione politica non si esprime nella retorica anticapitalista» (Soriani, 2007), ma nella «creazione di storie “universali” e “atemporali”, incentrate sulla tensione tra la libertà e l’oppressione» (Jenkins, 1986). Il recupero ed il riuso dei materiali della tradizione popolare antica, reinventati dall’attore-autore a fini drammaturgici e performativi (e non è affatto questione rilevante l’indagine filologica sulle fonti da egli utilizzate), riflette dunque sulla fondamentale dialettica tra “cultura alta” e “cultura bassa”; e costituisce uno dei più riusciti tentativi di riproposta di un patrimonio culturale «misconosciuto e tradito», rappresentando, a fini didattici, «la sua contrapposizione con la cultura egemone»6.

Quando i compagni del collettivo teatrale rivolgevano a Fo la critica su che cosa mai importasse, agli operai, del Medioevo e di queste storie, egli rispondeva parafrasando Gramsci: «se non sai da dove vieni difficilmente capisci dove vuoi arrivare. Il discorso del rapporto magico con la natura, con il mito, con la religiosità, fa parte della storia culturale del proletariato. Non potete tirarci una riga sopra. Nostro compito è studiarla, questa origine, e riproporla leggibile e attualizzata nei suoi valori più importanti» (Dario Fo, con Luigi Allegri, 1997). © 2015 Nuovo Teatro Made In Italy 


Note

1.- Barsotti A., Eduardo, Fo e l’attore-autore del Novecento, Roma, Bulzoni, 2007
2.- Barsotti A., Eduardo, Fo e l’attore-autore del Novecento, Roma, Bulzoni, 2007
3.- Marinai E., Gobbi, Dritti e la satira molesta. Copioni di voci, immagini di scena (1951-1967), Pisa, ETS
4.- Ibidem.
5.- Puppa P., Ruzante e le piste nere, «Biblioteca teatrale», n. 17, 1972, pp. 134-157. P. Puppa, Il teatro di Dario Fo. Dalla scena alla piazza, Venezia, Marsilio, 1978
6.- Susa C., «Mistero buffo» (1979). Dario Fo giullare di frodo tra cultura popolare e teatro politico, in A.M. Cascetta, L. Peja (a cura di), La prova del Nove. Scrittura per la scena e temi epocali nel secondo Novecento, Milano, Vita e Pensiero, 2005, pp. 175-215

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