Francesca Serragnoli | Poesie
da Il rubino del martedì (Raffaelli, 2010) Ci vorrebbe proprio tutto il tempo di cucire un bottone. Quel fermarsi in quel punto d...
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da Il rubino del martedì (Raffaelli, 2010)
Ci vorrebbe proprio tutto
il tempo di cucire un bottone.
Quel fermarsi
in quel punto della camicia
su e giù con l’ago
e il filo lungo che va in alto e scende.
Quel andare al di là e tornare, basterà?
Il viaggio di una madre
il puntino luminoso della sua mano
che dal cielo scende
e sale un filo che fra le dita
sembra attraversare niente.
Io ti avevo stretto la mano
nella panca della chiesa dei Servi
sentivo che piangevi
non sapevo come ricucire
il fiore sdraiato del tuo respiro
con tutte quelle radici al vento.
*
C’è chi
quando è contento
lava anche tutti i piatti
e ci sta tutta la sera
girato di schiena
sul lavello
perché un sorso di felicità
muove tutto il corpo
e ognuno balla come sa.
La gioia è un ospite
che accende il ridere
come si accende un cerino nella notte.
Anche gli astronauti si voltano.
*
è una bomba nello stomaco
l’ora in cui arrivi tu
cerco di districare i passi
come per ballare sbatto
le anche contro il frigo
tu sei la mia pazzia
il torero che mi fissa come un killer
vieni qui a darmi la spinta
ho disegnato per te un cielo
che trema come un uomo nudo
rompi l’equilibrio greco
la statua spavalda che ti guarda
con gli occhi mangiati dagli uccelli.
*
L’alba è una donna
Che s’infila le calze lentamente
Come sapesse di essere guardata
La luce corre
Batte sugli zoccoli degli uccelli
È un grido che non cade nel cielo
Come nel corridoio di una casa
Una madre chiamata
Arriva in camera e ti copre
Le gambe le spalle
Ti sveglia
Se ne va scotendo il muro
Come un vestito ballando
Biondissima alla Marilyn Monroe
Ti volti appena nato come se niente fosse accaduto
I tuoi occhi sono così blu da ingannare i pesci
Il loro salto scolpito nel sole
Mentre il giorno è un vecchio
Che si appoggia al bastone
E mi sorride.
*
Non mi lasciare nel traffico
nel buio sordo di un attimo
quando non ti volti più
e caschi fra i rami
come un tramonto colpito
nel petto da uno sparo
non lasciami andare sotto i portici
che non hanno braccia
non farmi credere che la piazza
sia più bella dei tuoi occhi
che i gradini siano le tue ginocchia.
*
Volevo che la tua notte
rimanesse con la mia
che tu sporgessi piano dal lenzuolo
come un’alba che rimane continuamente
il primo gesto
di luce nel mondo.
Avrei raccolto da terra
il sole che ti cade dal viso
da quel sorriso eroso dal vento
che scende a picco sul mare.
Nei tuoi occhi andavano e venivano
le rondini, per posarsi
come quando le palpebre fanno
quel rumore di ali che si aprono.
Volava via invece il tuo profumo
sepolto nei luoghi
che solo il cane
che abbaia al vento conosce.
Così ti penso
una serata blu
che stringe gli occhi fino a sparire
e subito bianca
una luna a cinque dita
che mi tiene il mento
e mi guarda.
*
E’ sempre poco il tempo
per guardare le stelle
di ora in ora le sento cedere come truppe
stanche intorno ai fuochi.
E’ il tempo del fucile spento
la canna fredda tocca il mento
tengo il brivido, le mani in alto
il viso è un bambino scalzo
gli occhi come fionde tirano un sasso
non si sente il tonfo di niente
non fucilare il mio guardare
dov’è l’identità infinita?
Il nome che spacca la vetrata della vita?
Il lago specchia me ondulata
imposte rotte sbattono parole vecchie.
Il cielo non è un bar per gente sola
ordino per te la pioggia
e Gesù fra i rami dell’acqua
come un puscher ci guarda
con la roba che spezza la morte.
Da Il fianco dove appoggiare un figlio (2003, Nuova Ed. Raffaelli Ed. 2012)
Ti vorrei a distanza
stellato per un attimo
capovolto
la luce accenderti il profilo
basterebbe un accendino.
Capirai che volo occorre
arrivare e finire
incoronata di briciole
e bave di colore.
Ricordo manici di zucchero filato
un giugno di seta
e settembre fiato finito.
Non accendo più la notte,
dormiamo
siamo la fiamma di due candele.
*
C’è un male che mangia la luce
la notte è un pane secco
io sono quel nulla che dice no
premo per nascere.
Voglio che agosto
diturpi con le chiavi
la vernice che ti copre
e il calore ti spogli
e il tuo nome rimanga
un buco sulla via di casa
uno sbalzo che spezza
le dita della sera.
*
Accorditi
sembra doloroso spingere
spargere lo spazio di gesti.
L’aria è fitta di colonne
non ti vedo
il passato è il pugno che apro
sbendo, ti avvicini
ogni firo è una paura che svesto
arriverà il taglio.
Sentirai pulsare dove ho punito
le nascite a colpi di braccia.
Cado e chiedo di girarti
sulle scale di cristallo
sono scivolata con la fede in braccio.
Non so più dove mi trovo
luce operatoria cielo doloroso…
questo è il luogo
dove lancio le mie paure come uccelli
o non avrò più un figlio.
*
La bellezza è una droga
ne nasci dipendente
il corpo è un bivio
dove speri d’incontrare
l’universo e metterci un dito dentro.
La stellata di una notte
vorresti fosse un disco
da ascoltare ogni volta
che il buio avvelena.
Quando suoni sembri il pennarello di un bambino
un azzurro a scatti
risali da ogni nota
come un dio mischiato al vino
al tavolo dove abbasso la testa e la fame
quell’azzurro è una bugia
o una chiave
che gira di colpo la testa
e la vita ha la foglia più curva
molto più trasparente della morte.
(ascoltando Miles Davis)
*
Lei non digiterá sui tasti
l’arte del mio nome
oro ricercato coi sandali
perla lasciata nelle stive
nelle hall degli hotel, espressione
di un volto impietrito
sconvolto dai giorni
dai getti bianchi delle nubi.
Lei non scivolerá
negli scantinati della rete
non fará più del caos
una incatenata collana di richiami
si addormenterà appesa
a giogie perpendicolari
ed io salirò dove lo sguardo
getta reti all’improvviso
stenderò le braccia a croce sul vento.
*
Cerco qualcuno
con la faccia tiepida
la cui miseria umana stia ferma
su questo tavolo di legno
come la mia.
Vorrei le mani di mia nonna
con un velo di pelle a novant’anni
tirava l’acqua
da un pozzo profondo
ricordo i suoi occhi giganti
sollevarsi dietro le lenti.
Quello era un davanzale
da cui ora mi sporgo
come un filo di bava nell’aria
che attende che una mano lo centri.
*
Svaligiami con cura
le cinghie aprono farfalle
scendi a rovistare
fra topi e perle vecchie
apri le noci
sono vino fermo e ascolto.
Occorre poco raggio
per fare taglio
entrarmi accanto
visitare.
Entra la sera
sale un bisturi lento
domani il vento
le siepi faranno calce, stordiranno i cani
cadranno attese da filari.
La terra sa
quel che accade
a un fiore.
*
Che farai, Dio, se muoio?
R. M. Rilke
Luccica come una gabbia il mio futuro
è ritornato mare calvo
l’orizzonte è un bisturi profondo
piega il ferro della schiena.
Sott’acqua la confusione diventa impazzimento
muovo il mio corpo
rompo il mio corpo
come un figlio
non so tenere la testa
occhi salati
fili scoperti in faccia.
Se non fosse che vivo ancora
ogni attimo aspettando
lascerei cadere il sangue torturato
nel mare bocca di lupo.
Le stelle sono i suoi occhi gialli
e non è nemmeno la feroce spina del suo pelo
anche l’alga leggera esce dalle profondità
ed è una sorgente tutta sparsa
dai pori entrano ed escono le vele dei peccati.
La mia vita è anche questo squarcio
ho un cuore spaventato
penso ai tuoi capelli bagnati
alla pioggia dei suoi occhi
che ti corre nella schiena.
*
Ci sono madri vecchie
che hanno urlato
posato piatti, steso panni.
Ora stanno accanto
nel seggiolino di fianco al figlio
al nipote scalmanato.
Parlano di come va il tempo
ridono appena.
Hanno solitamente gambe gonfie
e camicie colorate
nella borsa tengono
occhiali da vicino
caramelle da succhiare, un fazzoletto.
Loro sanno
che ogni sera
Dio le guarda
ma continuano
con la spugna in mano
a pulire perfettamente il tavolo.
fino a far ingelosire la luce.
*
Ancora mi vesto
lego i lacci al mattino
stringo.
Alzo la tapparella
la luce è un biscotto.
Esco ed ecco il mio giorno
cerchiato in un quaderno.
Preferisco camminare.
Capita che ritorno al buio
se il tuo naso punge nel letto
muovo le mani per cercarlo
e mi ferisco
come nelle pazzie enormi.
Batto la testa nel fuoco
guarda che viso
sono trent’anni quasi
gratuitamente ad agosto.
Sono un seme che rotola
cerco l’incarnamento, ridere
verso di me le mani di una madre
che mi solleva dalla culla.
Ma non si può essere
attraenti solo nel pianto.
Da Aprile di là (LietoColle 2016)
Arrivavi come un venticello
con valigie non per rimanere
ti stancavi affaticato
rimani ancora un poco
dicevo al sangue sulle braccia
posato come una Pietà.
Spegneva Dio con due dita
il lumicino brevissimo.
La morte diventava arietta,
cosa di fiato
alito di vento sul volto
immobile della statua
inclinata sul fondale
che sente le braccia sgretolarsi
il muschio in bocca
sul capo ammucchiarsi le foglie.
Ti rivedrò un giorno?
Ti poseranno vicino
ricorderai d’avermi conosciuto
sull’orlo dell’acqua
fiorisce un tremito
l’inizio di un ricamo infinito.
L’eterno dondolare delle madri
muove le onde.
*
Da una parte all’altra del vivere
giriamo come pazzi
condannati a sostenere il cielo
con tronchi di polvere.
La voliera fra nascita e morte
curva come un cerchio.
Nella grotta della mia natività
una luce imbianca paglia, scalda la roccia
lì vado spesso e piango
nulla è mai stato così vivo.
Guardo l’inizio spaccare
una faglia fra la madre e il buio
due torri storte lasciano
alla quasi notte
la precisione blu dello splendore.
*
Nei giorni c’erano cieli bellissimi
tutti con il piede appoggiato al muretto
varcavano confini, volavano schiaffi
uno sputo alla pioggia
l’esser soli di baci ne riceve tanti
ci vuole quella stranezza che girava
fra i tavoli di una discoteca
quel venire dentro le maniche
che solo il freddo conosce il brivido
ci vuole un cielo solo tuo
un cielo peso sulla spalla
con i suoi cementi, le pozze piccole
quel tramonto di gamba
grossa che gira con la palla intorno al sole
ci vuole quel briciolo di fuoco tuo
che chiede solo di cadere
come una cantilena nell’oscurità
e le calze il vento le lascia
per qualche minuto
dondolare vuote.
*
Vite curve sfogliano
i giorni uno per uno
cercano il ricordo custodito
dai pitoni del pianto
il diamante velenoso.
Vorrebbero, prima di morire,
pestare la testa degli addii
sentono ridere solo i pianeti.
Alcune digiunano
spaventano specchi di mare.
Il mondo non sa esattamente come salvarle.
Si gettano nel vuoto
quasi per non morire. Dopo laggiù
cavalcano disperate le loro vite
sui petti crepati delle madri
parole bianche coprono
corpi ancora caldi e volano
via là dietro le case
sbattendo la porta
con suoni di ghiaccio.
Solo l’aria è lì di spalle
inginocchiata.
*
Ci vorrebbe proprio tutto
il tempo di cucire un bottone.
Quel fermarsi
in quel punto della camicia
su e giù con l’ago
e il filo lungo che va in alto e scende.
Quel andare al di là e tornare, basterà?
Il viaggio di una madre
il puntino luminoso della sua mano
che dal cielo scende
e sale un filo che fra le dita
sembra attraversare niente.
Io ti avevo stretto la mano
nella panca della chiesa dei Servi
sentivo che piangevi
non sapevo come ricucire
il fiore sdraiato del tuo respiro
con tutte quelle radici al vento.
*
Tu li sbagli spesso i momenti della vita
le carezze troppo forti, i baci
che svegliano, le domande che irritano.
Ma io non li voglio cambiare
quei tratti di violetta nel muro slabbrato
quello sbagliarsi limpido del vento
che non distingue il cappello dalla polvere.
Non avere paura di me
tiro i sassi per vedere volare gli uccelli
e ricadere la rotta verso di me.
Dopo l’esplosione della mia voce
ascolto il cinguettio non più mio
oh mio sole tiepido d’ottobre
che ritorni sempre
come se fossi una vetrata trasparente.
*
Lei è sicuramente figlia di qualcuno
ne vedi la madre forse
scendere nel naso, dentro il bere
un sorso d’acqua, respirare subito
l’occhio nero delle notti africane
lì c’è tua madre le avrei detto
scuce e ricuce la tua partenza
come una ferita colorata
ha messo del latte
dentro un vecchio bicchiere
appoggiato alla finestra
la vedi agitare le mani
come facesse trecce alla pioggia.
FRANCESCA
SERRAGNOLI è nata a Bologna nel 1972, dove si è laureata in Lettere Moderne e in Scienze Religiose. Ha lavorato presso il Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna fino al 2007. Collabora con il Centro Studi Sara Valesio. È perfezionanda presso la Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna. Ha pubblicato le raccolte Aprile di là (LietoColle – collana Pordenonelegge, 2016); Il fianco dove appoggiare un figlio (Raffaelli Ed. 2012); Il rubino del martedì (Raffaelli Ed., 2010).