Luca Bani | La retorica del dissenso in Federico De Roberto*
Abstract La delusione per l’esito del processo risorgimentale è un tema ricorrente nella letteratura italiana del secondo Ottoc...
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Abstract
La delusione per l’esito del processo risorgimentale è un tema ricorrente nella letteratura italiana del secondo Ottocento e del Novecento e risulta particolarmente evidente in alcuni dei maggiori autori di origine siciliana come Verga, Pirandello e Tomasi di Lampedusa. Tra questi, Federico De Roberto in modo particolare ha dedicato ai problemi della « Nuova Italia » molta parte delle sue opere, elaborando per esse una particolare tipologia retorica che, attraverso la formale acquisizione dei criteri veristici dell’oggettività e della distanza autoriale, consentisse l’esercizio di un’appassionata ironia e di una sferzante parodia nei confronti di una realtà politica e sociale da stigmatizzare. La lettura e l’analisi dei discorsi politici di Consalvo Uzeda di Francalanza, uno dei protagonisti assoluti de I Viceré e de L’imperio, consente di riconoscere e isolare i molteplici aspetti dell’ironia derobertiana e di ricondurla nell’alveo di quella civile “retorica del dissenso” di cui De Roberto rimane un maestro insuperato.
Termini di indicizzazione
Mots-clés :anti-risorgimento, De Roberto (Federico), désaccord, I Viceré (titre d’œuvre), ironie, L’Imperio (titre d’œuvre), rhétorique
[…] l’avversione della realtà
che è ragione di ogni satira.1
L’inquadramento più efficace della figura di Federico De Roberto nel clima culturale a lui coevo ci viene da un saggio di Antonio Di Grado, nel quale poche e sicure pennellate sono sufficienti a rievocare le animate discussioni che contraddistinsero gli anni di passaggio tra Otto e Novecento e il ruolo di protagonista in esse ricoperto dall’autore de I Viceré:
Esperienza traumatica della modernità, disincanto, perdita dell’aura, primato della ragione analitica sui sistemi onnicomprensivi e sulle utopie di largo consumo : i punti di riferimento ideali donde desumere tali tematiche non mancavano a un autodidatta geniale (e a un brillante columnist culturale, fra i primi nella storia del nostro giornalismo moderno) quale fu De Roberto, sia che li attingesse ai dibattiti coevi che agitavano la cultura che a prezzo di una forzata generalizzazione chiamiamo positivistica, sia che si rivolgesse ai grandi del passato come appunto Leopardi o Baudelaire.2
All’« esperienza traumatica della modernità » cui fa riferimento Di Grado si può certamente ascrivere anche il travagliato rapporto di De Roberto con la storia dell’Italia post-risorgimentale, che tanta eco trova nelle pagine delle sue opere narrative e di cui egli diventò una delle voci critiche più lucide. Dell’esercizio di questa funzione censoria De Roberto lasciò testimonianza principalmente ne I Viceré3 e ne L’imperio4, che insieme a L’illusione5 costituiscono il cosiddetto ciclo degli Uzeda di Francalanza, dal nome della famiglia aristocratica catanese di origini spagnole, i Viceré appunto, sulle cui vicende si fondano le trame dei tre romanzi.
Prima di affrontare l’analisi della retorica del dissenso derobertiana, è forse utile ricostruire la posizione politica dello scrittore richiamando brevemente alcuni episodi significativi della sua giovinezza. De Roberto fu un moderato, simpatizzante per quell’ “Associazione costituzionale” che a Catania rappresentava gli interessi dei ceti più conservatori e si contrapponeva alla speculare “Associazione progressista”, che invece promuoveva le istanze delle classi più innovatrici. Tale posizione moderata si palesò sin dagli anni Ottanta dell’Ottocento, quando un De Roberto appena ventenne partecipò alla polemica politico-letteraria tra Mario Rapisardi e Giosuè Carducci, nella quale, pur confermando le proprie posizioni carducciane e costituzionaliste, si poneva come mediatore tra i due contendenti, invocando nei confronti del concittadino Rapisardi una critica seria e depurata dalle insolenze che sino ad allora l’avevano contraddistinta6. Nel 1881 De Roberto volle persino far stampare un libello in cui riproponeva tutti i testi da cui era stata fomentata la controversia, preceduti da un suo appello alla riconciliazione7. Va notato, per inciso, che la prefazione non piacque per nulla a Carducci, e infatti nelle edizioni successive venne espunta. Un secondo aneddoto che può aiutare a connotare politicamente lo scrittore riguarda gli articoli che egli pubblicò sia sul « Don Chisciotte », rivista da lui fondata nel 1881, sia sul « Fanfulla », periodico con cui iniziò a collaborare dal 1882, per commentare le poco edificanti vicende politico-amministrative del marchese Antonino Paternò Castello di San Giuliano, giovanissimo sindaco progressista di Catania, futuro ambasciatore e ministro degli esteri, modello tra l’altro di uno dei personaggi più importanti dei romanzi derobertiani : Consalvo Uzeda di Francalanza.
De Roberto fu dunque un borghese moderato e partecipò attivamente al dibattito politico, anche se col passare degli anni si sentì sempre più estraneo alla vita pubblica italiana, non riconoscendosi in essa a causa del palese contrasto tra la tensione morale degli ideali risorgimentali e la realtà politica del nuovo Stato. Gli episodi a cui si è appena accennato servono per meglio inquadrare quei giudizi critici specificatamente dedicati all’aspetto ideologico dell’opera derobertiana che, dopo la censura crociana pronunciata nel 19398 e successivamente confermata da Gaetano Mariani e da Luigi Russo9, riportarono l’attenzione sul messaggio politico dell’opera di De Roberto. Suo merito principale, per citare le parole di Gaetano Trombatore, è l’amara denuncia dello « scempio beffardo che la classe dirigente faceva degli ideali del Risorgimento »10. Una tesi ribadita e precisata da Mario Pomilio quando valuta I Viceré una delle stigmatizzazioni più coraggiose e vibranti del trasformismo opportunistico del mondo politico meridionale11. Carlo Madrignani, nel suo pluriennale lavoro esegetico dell’opera derobertiana, aggiunge un ulteriore tassello a questo indirizzo critico, inquadrando il pessimismo politico-sociale di De Roberto e la sua palese sfiducia in una generica idea di progresso – l’illusione, appunto – in una caratteriale propensione al nichilismo:
L’inattualità del narratore sta nel suo porsi in una opposizione senza sbocchi, che non ha gli strumenti per un rifiuto, più o meno argomentato, del patrimonio risorgimentale. Il nichilismo individuale e collettivo dell’ultimo capitolo [de L’imperio, n.d.r.] riprende, al di là del motivo della sconfitta storica, quello della malattia. Si tratta del male inerente all’atto stesso del vivere, un male ontologico che caratterizza negativamente tutta l’umanità e la vota al sacrificio, al naturale olocausto. De Roberto, sotto l’influsso della filosofia del suicidio alla Hartmann, porta alle ultime conseguenze, con l’estremismo tipicamente suo, la sua filosofia della storia e la generalizza ed assolutizza, proponendo così una sua interpretazione della crisi di fine secolo. C’è qui certamente un travaso di autobiografismo non controllato. Il vissuto privato dello scrittore tagliato fuori da ogni consenso, ed emarginato dall’insorgere di nuovi gusti e nuove filosofie, si trasferisce in un rifiuto assoluto, tanto più drastico quanto più le motivazioni sono individuali e collettive insieme, in un torbido mescolarsi di « malattia della ragione » e di lucidità storica. Dal distacco relativistico, fatto di intelligenza antistoricistica, si passa alla negazione della storia, al rifiuto di ogni possibile illusione progressista. Sono ormai maturi i tempi dell’apocalisse, della fine del mondo sancita dalla violenza liberatrice degli uomini stessi. Il male di vivere ha finalmente il sopravvento sopra ogni illusoria ragione di vita. Con tale nichilismo, terrorismo e liberazione sanciscono un loro disumano patto di alleanza contro le leggi di oppressione volute dai potenti. La violenza collettiva risponde a questa ragione nascosta di autoliberazione attraverso la distruzione totale. Ecco secondo quali prospettive De Roberto reinterpreta il pensiero anarchico : gli anarchici «biofobi» e «geoclasti», assolvono il compito terribile di esecutori del sacrificio universale, sono i distruttori che «liberano», col loro atto decisivo, gli uomini dal male della vita.12
Dal canto suo Natale Tedesco sostiene con convincenti argomentazioni che i romanzi politici di De Roberto documentano in maniera vigorosa, quasi empatica per l’appassionata partecipazione dell’autore alla materia narrata, la crisi della borghesia postrisorgimentale13 ; e Vittorio Spinazzola assegna allo scrittore una sorta di primogenitura nel canone della narrativa italiana che fa della riflessione sugli esiti del Risorgimento il centro delle sue speculazioni14. Il pessimismo storico e la spiccata verve critico-polemica che formano tanta parte del messaggio derobertiano, afferma Spinazzola, sono il preannuncio di un identico modello di approccio alla realtà risorgimentale e postunitaria da parte di tanti autori siciliani o comunque meridionali : Pirandello, Jovine, Brancati, Tomasi di Lampedusa. E per De Roberto questo approccio alla realtà deriva dalla desolante constatazione ben compendiata da Luigi Baldacci : « L’idea che la vecchia classe borbonica non fosse stata affatto eliminata dalla scena politica, ma si fosse bensì inserita brillantemente nel nuovo assetto nazionale attraverso un abile trasformismo »15.
Nella scelta degli stilemi narrativi l’autore de I Viceré condivide con Verga16, almeno formalmente, sia la tecnica dell’impersonalità sia l’idea di una lingua letteraria basata su quella corrente, innestata però di ricami dialettali e di locuzioni, proverbi ed espressioni idiomatiche tradizionali. Al di là delle dichiarazioni di principio, nelle sue opere maggiori De Roberto impiega raramente il dialetto17, e soprattutto carica il linguaggio di una tale valenza ironica, la fictional irony di cui parla Madrignani18, da renderlo un’arma efficacissima e uno strumento insuperabile di polemica etica ed ideologica. L’ostentazione d’una tutela rigorosa dell’oggettività fattuale, canone imprescindibile della poetica verista, viene piegata in De Roberto dal bisogno irrinunciabile di esprimere il proprio amaro disincanto sulla materia narrata, nella fattispecie sulla realtà italiana postunitaria e sugli individui che in essa spadroneggiavano, distorcendo a loro esclusivo favore le regole ancora incerte della nascente democrazia italiana. L’impersonalità della narrazione diventa perciò lo strumento tecnico privilegiato che permette allo scrittore di arrivare alla massima personalizzazione e unilateralità nel discorso narrativo, consentendogli di esternare la propria frustrazione nei confronti della storia e dell’uomo:
La narrazione procede con la sua larga, possente scansione, ineluttabile, di episodio in episodio, sempre sotto il controllo di quel deus absconditus che è l’autore-regista, che manovra i fili senza tradirsi, rinunciando ad ogni effetto di voce fuori campo. Questo distacco, ottenuto con tanta scaltrezza di mezzi tecnici, comporta il controllo perfetto da parte di un narratore che ha assimilato con piena originalità l’imperativo dell’impersonalità. Come voleva il Verga teorico, la grandezza dell’artista moderno sta nel suo eclissarsi, nel suo confondersi e sparire nell’opera senza lasciare traccia. È un controllo a distanza, fatto di distacco passionale e di mediazioni raffinatamente occultate ; un’opera insomma, di altissima e latente vigilanza. « Quando l’artista appare più indifferente, allora è più vigile » scriverà, incidentalmente, nel suo volume L’Arte, l’autore, condensando in un inciso il canone segreto del suo naturalismo. Già in questa definizione appaiono i termini decisivi per intendere le componenti di quel metodo : non solo l’indifferenza è corretta dalla vigilanza, ma quasi negata da quell’«appare», che insinua molti dubbi circa la verità di quell’atteggiamento di ostentato distacco.19
Primo modello di questo usus scribendi sono I Viceré, romanzo ‘politico’ e di ‘costume’ che, nelle parole autorevoli ma dagli evidenti intenti riparatori di uno scrittore come Leonardo Sciascia, è giudicato dopo I Promessi sposi « il più grande romanzo che conti la letteratura italiana »20. De Roberto con I Viceré persegue un duplice obiettivo. Il primo è quello già ricordato nelle parole di Baldacci di descrivere l’irresistibile ascesa dell’aristocrazia borbonica, apparentemente condannata all’estinzione dai mutamenti epocali messi in atto dal Risorgimento, ma in realtà, grazie a un’impeccabile operazione di trasformismo, capace non solo di sopravvivere nella nuova realtà sociale e politica postunitaria, ma addirittura di diventarne l’incontestabile e dispotica padrona. Quella descritta da De Roberto è un’evoluzione darwiniana nel senso più completo del termine : i membri del ceto aristocratico troppo deboli o troppo ottusi per adattarsi al nuovo ambiente periscono o, comunque, vengono abbandonati al loro destino di miseria e solitudine ; chi invece riesce a compiere il salto evolutivo, non solo acquista diritto di cittadinanza nella nuova realtà, ma ne diventa arbitro indiscusso, battendo nella gara per la supremazia sociale sia la borghesia, ancora immatura, sia il popolo, ancora inesistente dal punto di vista della coscienza di classe. Il secondo obiettivo di De Roberto è quello di dipingere nel modo più fosco e oltraggioso possibile la stessa aristocrazia siciliana di cui descriveva l’ascesa. Provocatoriamente si potrebbe sostenere che gli Uzeda di Francalanza non sono una famiglia, bensì un repertorio universale, un’enciclopedia assoluta di abiezione morale, di opportunismo politico e sociale, di perfidia e di malvagità distruttiva applicate ad individui che sembrano intenti solo a combattersi tra di loro, ma che in realtà, facendo ciò, stanno semplicemente attuando quel meccanismo di selezione naturale che solo può permettergli di continuare a vivere e a prosperare. Entrambi gli obiettivi – la descrizione e la denigrazione del ceto nobiliare meridionale – traggono origine da motivazioni ideologiche e intellettuali ben precise. Il moderato De Roberto, esponente perfetto della classe borghese, prova una cocente delusione nei confronti di una nuova Italia, ben diversa da quella immaginata dall’idealismo risorgimentale e da quella descritta dalla retorica postrisorgimentale. Citando ancora Spinazzola possiamo affermare che «Il capolavoro della borghesia liberale è consistito nell’ammodernare l’assetto formale dei poteri pubblici, per lasciarsene espropriare nella sostanza e riconsegnarli ai dominatori di prima »21, e De Roberto sente fortissimo il peso di questa responsabilità. Il romanzo derobertiano è un documento di denuncia della progressiva intromissione nelle istituzioni democratiche da parte di coloro che, teoricamente, avrebbero dovuto esserne spodestati, e nel suo intento accusatorio De Roberto è veramente paragonabile, per lucidità e grandezza, al Manzoni che nei Promessi sposi evocava l’immagine di un’Italia seicentesca destituita di qualsivoglia credibilità intellettuale e spessore morale. Ma in De Roberto agisce anche una motivazione ontologica più profonda e tragica, quella che gli consente di riconoscere nell’individualismo dilagante nella società tardo ottocentesca il marchio di un istinto profondo e primordiale dell’essere umano, vale a dire quell’irrefrenabile desiderio di affermazione di sé che rischia di degenerare nel delirio di onnipotenza, che porta a non riconoscere nessuno come possibile amico e solidale, legato da vincoli di sangue o da affinità intellettuali e affettive, ma considera invece tutti come nemici da eliminare e distruggere, perché ostacoli all’espansione del proprio io. In questo quadro nessuno è in grado di incarnare un principio di superiorità etica, che lo identifichi quale portatore di un’idea di progresso morale, perché la sottomissione all’istinto di sopraffazione impedisce agli individui di essere morali o di esserlo in modo sincero, disinteressato. In De Roberto il riconoscimento del principio di individualità viene quindi a coincidere con un esasperato pessimismo etico. L’unione della delusione storica con il cupo panorama ontologico sopra delineato provoca nello scrittore uno stato di frustrazione tale da trasformarsi in una scrittura sferzante di ironia e traboccante di parodie impietose e travolgenti. La ridicolizzazione dei personaggi della narrativa derobertiana diventa l’unica difesa dell’autore contro la delusione assoluta provata nei confronti della realtà storica e della condizione umana : ironia, parodia e sarcasmo diventano i modi fondamentali della retorica derobertiana.
Esempi di questa tecnica retorica sono i discorsi politici di Consalvo Uzeda di Francalanza, ossia colui che Silvia Dai Prà definisce il personaggio ‘conoscitivo’ per eccellenza de IViceré e de L’imperio22. Per sottrarsi alle angherie del dispotico principe Giacomo, Consalvo nel primo dei due romanzi impara a dissimulare il proprio odio e le proprie ambizioni imponendosi un ferreo autocontrollo e decidendo di dedicarsi, militando tra le fila dei progressisti, alla politica, passione che in lui assume le valenze dell’illimitata volontà di potenza. Consalvo è l’incarnazione assoluta del carattere dei Viceré : un perfetto opportunista che usa strumentalmente l’ideologia e per il quale « monarchia o repubblica, religione o ateismo, tutto era […] quistione di tornaconto materiale o morale, immediato o avvenire »23. Il principino è una sorta di Giano bifronte, e in entrambi i romanzi ricopre sia un ruolo retorico sia uno antiretorico. Il primo si esplica attraverso la funzione dialettica tipica dell’uomo politico e serve al personaggio per mascherare i suoi reali obiettivi ; il secondo, invece, si rivela attraverso i flussi del pensiero, grazie ai quali si palesano al lettore le intenzioni più recondite e l’animo più vero del personaggio.
Vero capolavoro di questo intreccio ossimorico è la narrazione del comizio che Consalvo tiene nell’ultimo capitolo de I Viceré poco prima della elezioni che lo vedranno diventare deputato nazionale, portando così a compimento il percorso di ‘riciclaggio’ degli Uzeda nella vita politica italiana e incoraggiando il migliore della loro schiatta ad assumere finalmente il ruolo che gli spetta come capofamiglia. Il principe arriva all’appuntamento ben rammentando la necessità di « nascondere i propri sentimenti, di rappresentare la parte che s’era assunta »24, e il lungo discorso che pronuncia si rivela sin dall’inizio un interminabile repertorio di retoriche falsità propinate ad uso esclusivo di una folla che De Roberto descrive come un’entità volubile priva di una reale coscienza critica : inizialmente propensa a condannare l’oratore al primo errore che dovesse commettere ; disposta poi a farsi soggiogare da lui, a consegnarsi completamente nelle sue mani se solo saprà dominarla attraverso la potenza del suo esercizio affabulatorio, più che con la persuasività delle sue idee e del suo programma ; annoiata infine dalla lunghezza del discorso e pronta ad accettare come una liberazione qualsiasi accenno di conclusione. L’orazione politica di Consalvo rientra perfettamente nei canoni tipici del suo ‘genere’25, di cui adotta tutti gli artifici retorici : dall’iniziale captatio benevolentiae (« Concittadini !... Se la benevolenza dei miei amici vi ha indotto a credere che io possegga le doti dell’oratore, e vi ha qui adunati con la promessa che udrete un vero e proprio discorso, io sono dolente di dovervi disingannare… »26), sino alla preventiva quanto vaga identificazione del programma politico che sta per annunciare con le parole simbolo di qualsiasi dichiarazione pubblica (« Voi chiedete un programma a chi sollecita l’onore dei vostri suffragi ; il mio programma, in mancanza d’altri meriti, avrà quello della brevità : esso compendiasi in tre sole parole : Libertà, progresso, democrazia… »27). Una volta constatato il favore del pubblico e superato il primo timore della folla, Consalvo si lancia nel suo discorso, assolvendo innanzitutto al dovere di presentarsi agli astanti elargendo loro una sorta di pedigree ideologico che lo dimostri adatto al ruolo che si appresta a ricoprire : «La mia fede [nella libertà, nel progresso e nella democrazia] data dall’alba della mia vita, quando i pregiudizi di casta che io conobbi, ma che non mi duole di aver conosciuto, perché ora sono meglio in grado di combatterli […] mi vollero chiuso qui, tra questi muri»28. E continua : « Voi vedete che io non posso più rinunziare a questa fede ; essa mi è tanto più cara e preziosa quanto più mi costa… »29. A parte le falsità autobiografiche, il discorso di Consalvo si trasforma ben presto in un mirabile esempio di quella retorica politica che, senza prendere posizione su nulla, finge di accontentare tutti, oscillando tra l’assoluta generalità delle affermazioni e il tono perentorio con cui si cerca di mascherare lo sconfortante vuoto ideologico. Eccone un esempio:
Ma voi, concittadini […] giudicherete forse che se questa fede compendia tutto un programma, è mestieri che un legislatore si tracci una precisa linea di condotta in tutte le particolari quistioni riflettenti l’orientamento politico, l’ordinamento delle amministrazioni pubbliche, il regime economico e via dicendo. Permettetemi dunque di dirvi le mie idee in proposito. Disciolte le antiche parti parlamentari, non ancora si delineano le nuove. Io auguro pertanto la formazione, e seguirò le sorti di quel partito che ci darà la libertà con l’ordine all’interno e la pace col rispetto all’estero (Benissimo, applausi), di quel partito che realizzerà tutte le riforme legittime conservando tutte le tradizioni rispettabili (Bravo ! bene !) ; di quel partito che restringerà le spese folli e largheggerà nelle produttive (Vivissimi applausi), di quel partito che non presumerà colmare le casse dello Stato vuotando le tasche dei singoli cittadini (Ilarità generale, applausi), di quel partito che proteggerà la Chiesa in quanto potere spirituale, e la infrenerà in quanto elemento di civili discordie (Approvazioni), di quel partito, insomma, che assicurerà nel modo più equo, per la via più diretta, nel tempo più breve, la prosperità, la grandezza, la forza della gran patria comune (Applausi generali).30
In realtà, subito dopo Consalvo si addentra maggiormente nei dettagli di quello che dovrebbe essere il suo programma, ma ancora una volta non si giunge alla semplice e chiara esposizione di provvedimenti discendenti da una visione politica della realtà italiana, bensì alla stanca ripetizione di formule assimilate al solo scopo di ricoprire di fumo il vuoto di una posizione ideologica inconsistente. Il massimo dell’artificio viene raggiunto verso la fine del discorso, quando, dopo aver quasi profeticamente invocato la nascita degli stati uniti d’Europa Consalvo continua :
Un giorno non lontano, rivendicati i nostri naturali confini (Applausi vivissimi), riunita in un sol fascio la gente che parla la lingua di Dante (Scoppio di applausi), stabilite le nostre colonie in Africa e forse anche in Oceania (Benissimo!), noi ricostituiremo l’Impero romano! (Ovazione).31
Ogni commento sulla compatibilità tra un’Europa politicamente composta da pari e quella fondata su un impero è ovviamente superfluo. Si noterà inoltre come l’ironia derobertiana acquisti spessore anche dalla tecnica di intarsio con la quale l’autore alterna alle frasi dell’oratore i lapidari commenti stenografici, desunti dagli appunti dei giornalisti presenti al comizio e riportati in corsivo per dar loro un’evidenza grafica particolare che ne enfatizza la valenza documentaria. Il serissimo monologo politico consalviano prosegue implacabile, inoltrandosi in argomenti sempre nuovi e trasformandosi infine, grazie alla sapiente arte retorica derobertiana, in un affastellamento di frasi senza senso. È l’epifania dell’opera buffa, nella quale tutti gli attori sulla scena sembrano fare a gara per creare un andamento il più possibile confuso e concitato. Così la descrive De Roberto:
Ad ogni annunzio di nuovo argomento, piccoli gruppi di spettatori seccati se ne andavano : «Bellissimo discorso, ma dura troppo...». Gli uscenti costringevano la folla a tirarsi da canto, i fedeli ingiungevano : «Silenzio!» e Baldassarre non si dava pace, vedendo l’ineducazione del pubblico. «Amministrazione della giustizia... Giustizia nell’amministrazione. Discentrare accentrando, accentrare discentrando...». Quanto alla marina mercantile, il sistema dei premi non era scevro d’inconvenienti. Poi, «riforma postale e telegrafica, legislazione dei telefoni ; non bisogna neppure dimenticare l’idra della burocrazia...»32
Davanti a un uditorio oramai stordito dalla vuota erudizione della sua interminabile concione e sfinito dal sole e dalla fame prepotente, Consalvo, stanco e sudato, continua il discorso oramai per una pura questione di puntiglio, ovvero « perché si dicesse che egli aveva parlato due ore difilato »33, facendo così scadere il comizio, momento fondamentale della moderna democrazia parlamentare, in una personalissima maratona oratoria. Su tutto ciò interviene inesorabile il sarcasmo dell’autore, che così chiude l’episodio:
Consalvo non ne poteva più, sfiancato, rotto, esausto da una fatica da istrione : parlava da due ore, da due ore faceva ridere il pubblico come un brillante, lo commoveva come un attor tragico, si sgolava come un ciarlatano per vendere la sua pomata. E mentre la marcia reale, intonata per ordine di Baldassarre, spronava l’entusiasmo del pubblico, nel gruppo degli studenti canzonatori domandavano: «Adesso che ha parlato, mi sapete ripetere che ha detto?»34
È interessante notare come uno degli strumenti privilegiati della retorica derobertiana, qui come ad esempio nell’incipit de L’imperio, non di rado costruisca la propria persuasività nel teatralizzare l’oggetto della polemica, abbassandone il tono fino a desacralizzarlo e rendendolo conseguentemente ridicolo. Ma nell’accumulazione, già di per sé decontestualizzante, che ci descrive Consalvo come un istrione, un brillante, un attor tragico il climax viene raggiunto con la definizione di ‘ciarlatano’, tesa a negare al Principino persino la dignità dell’artista da teatro.
Eletto deputato, abbandonata l’ospitale Catania, dove la sua persona è tanto conosciuta quanto riverita, e finalmente trasferitosi a Roma, il destino dell’erede degli Uzeda, apparentemente luminoso, si rivelerà invece fragile e inconsistente, ed è questa la storia narrata da De Roberto ne L’imperio. Il primo problema che Consalvo deve affrontare nel romanzo è quello di riuscire ad emergere dalla ‘folla’ che popola il sottobosco politico capitolino, di sottrarsi all’anonimato a cui è condannata la maggior parte dei parlamentari nazionali e di riempire le vuote sillabe che compongono il suo nome, il suo patronimico e il suo titolo nobiliare di un senso che sia non solo a tutti familiare, ma se possibile anche universalmente onorato e temuto. Specchio di questa difficoltà è la descrizione del primo discorso parlamentare del neodeputato, duramente sbeffeggiato dai giornalisti presenti alla seduta i quali inizialmente non riescono a identificare il novellino che osa pronunciare la sua orazione d’esordio durante una discussione di fiducia, assumendo per giunta quel tono da primo della classe con cui il principe è abituato a trattare i suoi elettori catanesi e mantenendosi talmente sul vago da risultare ridicolo. La rivolta contro l’ardire dell’ancora sconosciuto onorevole è totale e devastante:
Gli Uh !... Uh !... l’accompagnavano, più forti, più lunghi, ad ognuna di quelle frasi ; il baccano cresceva di momento in momento, diveniva così violento che gli squilli del campanello presidenziale quasi non s’udivano più. « Ma chi è ?... Dove l’hanno pescato ?... Si può sapere chi diavolo è questa palandrana ?... Nessuno lo conosce ?... Colombo ?... Colombo ?... ». Colombo che scriveva ancora senza prender parte al chiasso dei colleghi, sorridendo appena alle loro più violente apostrofi, disse : « È un siciliano... un principe siciliano... ». Allora Dragutte si mise a cantare, forte : « Un prence egli è, e nulla più... » accompagnato dai vicini che facevano da contrabbassi ; ma il canto e l’accompagnamento si perdeva nel gran concerto dei cronisti esasperati che grugnivano, bubilavano, crocidavano, cantavano la ritirata : « Ritirati, cappellon !... Ritirati, cappellon ! » o gridavano dei « Bravo !... Bene !... Ma benissimo !... » ironici. Il Presidente, arrabbiatissimo, scoteva il campanello come se lo picchiasse sulle spalle di qualcuno, si rivolgeva all’oratore per incoraggiarlo, o forse per invitarlo ad essere succinto ; ma l’oratore, dopo brevi pause, ripigliava : « Il partito whig non è la nostra sinistra... il nostro moderato non è tory... » E i muggiti, i belati, i guaiti, gli squittii, gli urli animaleschi salivano al cielo.35
Lo stesso Presidente dell’assemblea, pur tutelando il diritto di Consalvo a intervenire nel dibattito, esorta ripetutamente e con impazienza l’oratore ad abbandonare l’inconcludenza delle frasi ad effetto per addentrarsi, se possibile, nello specifico del problema:
«Ma, onorevole di Francalanza,» gridò a un tratto il Presidente «venga alla quistione!» […] «Ma, onorevole di Francalanza, che c’entra questo?... onorevole di Francalanza, la Camera è impaziente!... Ma la prego, onorevole di Francalanza!...». Ogni due minuti il Presidente lo interrompeva.36
Nelle intenzioni di De Roberto la funzione di questo primo discorso non è però quella di mostrare l’inconsistenza della retorica consalviana e la sua fragilità ideologica, bensì quella già ricordata di sottolineare simbolicamente la solitudine dell’ ‘eroe’ nella spietata giungla romana, la sua difficoltà ad affrontare e dominare la nuova realtà nella quale si è calato. L’imperio è un romanzo parlamentare non considerato dalla critica tra le prove migliori di De Roberto, ma nel quale con maggiore evidenza si esprime la complessità del pensiero derobertiano, perché tematicamente incentrato non solo sul rimpianto per gli ideali risorgimentali e sulla condanna di chi li ha traditi, ma anche sul motivo ontologico della sconfitta dell’essere umano sia sul piano della storia sia su quello esistenziale. Rispetto a IViceré molto è cambiato, perché se è vero che nell’orizzonte de L’imperio ci sono ancora i predatori e le vittime, i violenti e i miti, i cinici e gli idealisti, è altrettanto vero che poi, nell’avvilente panorama dell’Italia postunitaria, tutte queste differenti tipologie umane vengono indistintamente ricondotte alla categoria dei ‘vinti’. In tutto ciò si può ritrovare una sorta di suprema giustizia – assente nel finale de IViceré – tanto livellatrice quanto desolante perché priva di qualsiasi speranza di riscatto. Non solo : a Consalvo, figura negativa, fa da contraltare il personaggio ‘autobiografico’37 Federico Ranaldi, giovane salernitano animato invece da sentimenti sinceramente patriottici e trasferitosi a Roma con l’intenzione di contribuire con il suo entusiastico impegno di giornalista all’edificazione della comune nazione italiana. Ma il ruolo di Consalvo non è solo quello negativo di cinico ed egoistico manipolatore della nuova realtà italiana, bensì anche quello di ‘maestro’ proprio di Ranaldi, il cui idealismo è rintuzzato dall’inaspettato mentore in un momento di rara ma potente lucidità:
«La Monarchia ha fatto l’Italia ». «Proprio lei, sola sola? E come l’ha fatta ? Sponte o spinte? Con le vittorie, o a furia di disfatte ? E che cosa è questa sua Italia ? Dov’è la gloria, il lauro e il ferro che il vostro Leopardi andava cercando sessant’anni addietro ? Ne avete notizia voi ? Siamo l’ultima delle grandi nazioni, una ranocchia gonfiata sul punto di crepare, come quella della favola».38
Ranaldi si accorgerà ben presto dell’inconfutabilità delle parole di Consalvo. In una sorta di percorso iniziatico al contrario, perché più che all’illuminazione porta all’annichilimento delle facoltà dell’iniziando, lo sprovveduto giornalista, perfetto rappresentante, come De Roberto, della classe borghese, passerà dall’ ‘illusione’ alla rabbia, e da questa allo scetticismo e all’inazione. Così lo descrive l’autore nelle ultime pagine del romanzo :
Frugando tra i vecchi libri e le vecchie carte, ritrovando i volumi e i quaderni sui quali aveva studiato la storia del suo paese, ripensando ai fremiti d’entusiasmo che gli erano passati per tutte le fibre all’idea della patria grande e gloriosa, il fiele dello scherno gli saliva alle labbra. Un’orda di barbari e un pugno di mulatti ne avevano avuto ragione! Ma il destino era meritato, interamente.39
Tra i ‘barbari’ in mano ai quali sono consegnate le sorti d’Italia un posto d’onore tocca ovviamente proprio a Consalvo. Ne L’imperio questo campione del filisteismo politico dimostra quanto poco conti per lui “l’idea” alla quale votarsi, purché essa conduca alla meta : il potere. E infatti, riflesso fedele del trasformismo che in quegli anni ammorbava la vita parlamentare del paese, De Roberto ci mostra un Consalvo che partito da Catania quasi socialista, nel procedere del suo percorso politico si converte opportunisticamente al conservatorismo estremo. L’apoteosi di tale mutamento radicale viene descritta nel comizio che Consalvo tiene in un teatro romano per conto del Circolo Nazionale e che occupa tutto il settimo capitolo del romanzo. Anche in questo caso, come nell’esempio già visto de I Viceré, De Roberto attribuisce all’evento oratorio una connotazione teatrale, adombrando in tal modo la scarsa serietà di una politica che da necessaria elaborazione del presente per la pianificazione del futuro si trasforma in spettacolo offerto per il divertimento di « signore eleganti venute col ventaglio e l’occhialetto come alla commedia. Non sarebbe stata veramente una commedia l’imminente concione, quella predica contro il socialismo tenuta ai suoi naturali avversarii ? »40. Consalvo, « principe siciliano, […] gran signore che invece di godersi allegramente i milioni, si era dato agli studii sociali »41, è oramai un conferenziere esperto e consumato nell’arte oratoria, abituato a dominare le platee, eppure il discorso che si appresta a fare lo inquieta stranamente, rendendolo nervoso e mettendolo a disagio. Con maggiore evidenza rispetto a I Viceré, la modalità narrativa derobertiana si estrinseca nella descrizione dell’evento presentato attraverso una duplice focalizzazione : da un lato c’è la ‘retorica’ del discorso consalviano contrappuntata da brevissime clausole di commento autoriale (« Un nuovo scroscio di risa echeggiò per la sala »42), a loro volta inframmezzate dalle già viste notazioni riprese dai resoconti stenografici della conferenza (« Ilarità generali »43, « Risa generali, applausi »44) ; dall’altro lato ci sono la retorica del dissenso e l’ironia derobertiane, espresse attraverso il duplice controcanto delle glosse polemiche di Ranaldi al discorso di Consalvo e della serietà silenziosa con la quale i pochi operai presenti alla conferenza – sorta di convitati di pietra tutti simbolicamente confinati nel loggione del teatro, il punto più lontano dall’oratore – tacitamente confutano le asserzioni dell’oratore. L’atmosfera di divertita accoglienza delle battute umoristiche con le quali Consalvo, allo scopo di ingraziarsi gli astanti, apre la sua relazione stride fortemente con l’impassibilità del pubblico operaio, ed è proprio tale presenza a infastidire fortemente l’oratore e a trasmettergli quell’inquietudine di cui si è detto : « Alzati gli occhi alla galleria e scoperti gli operai che la popolavano e che lo guardavano intenti, sentì crescere il suo turbamento »45. O, un poco più avanti:
E dovunque si applaudiva, in platea, in tutti gli ordini dei palchi, fuorché sul loggione. Gli operai riusciti a trovar lassù un posto disagiato, dal quale si udiva male, stavano sempre immobili, attentissimi, cercando di non perdere una sola parola, senza che né una voce né un gesto rivelasse il loro pensiero. E l’onorevole di Francalanza, tutte le volte che spingeva gli occhi in alto, durante le sapienti pause provocatrici di applausi, si sentiva disturbato da quegli sguardi fissi di spettatori silenziosi. L’impassibile loro atteggiamento gli incuteva una soggezione tanto grande, quanto forse non sarebbe stata la contrarietà se lo avessero interrotto e disapprovato. Che pensavano, come giudicavano ? Si ridevano dei suoi argomenti ? Ne riconoscevano il peso ? O non piuttosto covavano un sentimento d’odio implacabile contro chi combatteva la loro fede e la loro speranza ? Senza di loro, egli sarebbe stato più ardito, più intransigente; le attenuazioni, le concessioni erano fatte per quella parte del pubblico.46
Decisamente meno imperscrutabile l’indignazione che pervade Ranaldi alle parole di Consalvo. Soprattutto, ciò che stupisce il giornalista non sono i luoghi comuni propinati dall’onorevole al suo uditorio, ma la facilità con la quale quest’ultimo li accetta come se fossero inestimabili perle di saggezza, parole d’ordine profondamente meditate dalle quali partire per risolvere i problemi sociali ed economici che affliggono il paese :
Un’altra fragorosa risata echeggiò per la vasta sala, e Federico rise anch’egli ; ma il riso suo freddo e contenuto, non che dalle cose che l’oratore diceva, era anzi eccitato dal vedere e dal sentire come quelle cose puerili piacessero tanto all’uditorio. Forse non era da stupire che la moltitudine si mettesse di buon umore a quelle barzellette, che gongolasse credendo con quei burleschi argomenti disperso il pericolo del cataclisma sociale ; ma come mai l’oratore poteva insistere su quel tono, come mai credeva possibile combattere il formidabile avversario con armi di quella natura?47
E ancora: «Voci impetuose gridarono da più parti: Bene! Bravo! e Federico si guardò intorno. Chi erano quegli zelanti? Come potevano sinceramente approvare? Che cosa volevano dire quelle parole? Che significavano quei luoghi comuni?»48. Ma cosa dice di così scontato il principe Uzeda? Quali sono le banalità e le ipocrisie che formano la sostanza delle sue parole? Quello di Consalvo è in realtà un discorso incondizionatamente antisocialista, nel quale però la confutazione delle teorie di Marx ed Engels non è supportata da argomentazioni serie, bensì dal desiderio di conservare i privilegi delle classi sociali egemoni mascherato sotto i paludamenti pseudoscientifici di un facile darwinismo fatalista. Attraverso di esso si vuole giustificare l’ineguaglianza sociale e dar credito alla legge del più forte come naturale regolatrice di un destino umano sottoposto agli insindacabili capricci della fortuna e agli arbitri della prevaricazione che determinano la supremazia di alcuni individui maggiormente ‘dotati’ sul resto della loro specie. Così Consalvo arringa il suo uditorio:
L’ordine che regna attualmente nel mondo sarà disordinatissimo come sostengono i socialisti ; ma è il prodotto necessario e fatale delle forze che hanno agito ed agiscono nella natura e nella vita. […] Ed ai socialisti diciamo : riconoscete ciò che l’antica sapienza degli uomini ha sempre riconosciuto ; ammettete le necessità che hanno fondamento nella natura, negli istinti, nelle leggi della vita e del mondo, rinunziate all’impossibile, e otterrete, ed otterremo il possibile. Noi vi chiediamo d’esser con noi nella prudenza, nella ponderazione, nella misura ; perché noi siamo con voi nella fede che l’umano consorzio possa e debba trovare un assetto sempre migliore, e nella buona volontà di mettere in opera tutti i mezzi coi quali raggiungere uno stato sempre più alto, più concorde e più giusto.49
Il desiderio profondo di modificare l’organizzazione economica e sociale per renderla maggiormente consapevole delle esigenze di tutti gli uomini, e non solo di quelli appartenenti alle classi privilegiate, viene bollato da Consalvo come puro e semplice ‘idealismo’, per sua intrinseca natura irrealizzabile e contrapposto con grezza tautologia alla necessità di un atteggiamento improntato ai dettami della borghesissima ‘ragione’:
La forma della società resiste per la semplicissima ragione che la maggior parte degli uomini, se concepiscono l’ideale, obbediscono ai dettami della ragione. L’ideale si chiama così perché non attuato e non attuabile ; il giorno che fosse attuato, non sarebbe più l’ideale, ma il reale. Questa non è metafisica : è filosofia pratica, perché c’insegna a guardarci dai voli d’Icaro. Per volare al cielo, quell’infelice si ruppe l’osso del collo (Ilarità) ; noi che combattiamo il socialismo non vogliamo che, affidata ad ali di cera, sperando di raggiungere il paradiso superno, l’umanità si prepari una caduta tremenda. Diranno che non siamo ragionevoli, ma ciechi ; risponderemo che non siamo noi i ciechi, ma essi gli illusi.50
Nei toni pacati di questi ragionamenti si annida l’insidia di una sfrenata violenza di casta che sotto le vesti di un apparente sacrificio sull’altare di tutta l’umanità cela solo protervia e cupidigia miranti alla conservazione dell’esistente con tutto il suo cumulo di ingiustizie e di privilegi. Una pretesa da cui De Roberto, per bocca di Ranaldi, prende nettamente le distanze :
Il consorzio sociale ridotto a una bisca, l’attività umana abbandonata alla cieca fortuna, il benessere e la felicità dipendenti da una combinazione di carte e di numeri : tale era dunque, pensava Federico, l’ideale dell’oratore e di coloro che gli battevano le mani ? Tutti gli sforzi degli uomini, creature coscienti, non dovevano tendere invece a ridurre, a circoscrivere la parte del caso, a impedire le sue ingiustizie ? Non era preferibile e doveroso distruggere in tutti le supreme speranze delle fortune insolenti ed assicurare invece ad ognuno una parte, piccola, ma sicura ? Era più degno degli uomini cullarsi nell’aspettazione regolarmente delusa, di esser sollevati sopra una vetta sublime dalle bassure mefitiche, o non piuttosto procurare di attendarsi tutti sulle soleggiate pendici?51
Le gravi riflessioni di Ranaldi sembrano infine allontanare l’autore dal distacco ironico adottato sinora per abbandonarlo alla disperazione dell’ultimo capitolo, causata da quell’eccessiva identificazione autobiografica di cui si è detto. Lasciarsi andare a una condizione di nichilistica prostrazione impedisce a De Roberto di mantenere quella giusta distanza tra autore, personaggio e materia narrata che gli ha consentito, lungo tutto il corso de I Viceré e per buona parte de L’imperio, di svolgere la sua funzione critica attraverso l’esercizio di un’appassionata ironia. Quest’ultima, tuttavia, rimane il segno distintivo della retorica derobertiana, la modalità espressiva prevalente attraverso la quale l’adesione al criterio dell’oggettività viene trasformato in vibrante denuncia contro quella che Sciascia definisce « la mistificazione risorgimentale, il trasformismo e il conformismo, la demagogia, le false e alienanti mete patriottiche e coloniali, il mutar tutto affinché nulla muti, che il sistema democratico – nuova forma di antica egemonia – offre alla classe feudale »52. Così nei romanzi politici di De Roberto la retorica del dissenso viene assunta a fondamento di una nuova letterarietà, nella quale la vivida coerenza estetica coincide con la funzionalità rappresentativa, e quest’ultima si fa portavoce fedele di una posizione ideologica che verrà definitivamente soffocata coll’avvento del fascismo.
Université de Bergame
Note
* Italies, Revue d’Études Italiennes, Université de Provence, n° 15, L’envers du Risorgimento. Représentations de l’anti-Risorgimento de 1815 à nos jours, 2011
1 Luigi Pirandello, L’umorismo, introduzione di Salvatore Guglielmino, cronologia di Simona Costa, Milano, Mondadori, 1992, p. 147.
2 Antonio Di Grado, Federico De Roberto e la ‘scuola antropologica’. Positivismo, verismo, leopardismo, Bologna, Pàtron, 1982, p. 25.
3 Milano, Galli, 1894.
4 Postumo e incompiuto : Milano, Mondadori, 1929.
5 Milano, Galli, 1891.
6 Sui rapporti tra Verga e Rapisardi negli stessi anni in cui esplose la ‘polemica’, e sui risvolti che essi ebbero nella composizione del Marito di Elena cfr. Matilde Dillon Wanke, « Il marito di Elena », ovvero l’ambiguità, in « Sigma », X, 1-2, 1977, pp. 113-136.
7 Cfr. Federico De Roberto, Giosué Carducci e Mario Rapisardi. Polemica, Catania, Giannotta, 1881.
8 Questo il giudizio espresso da Croce in « La Critica », a. XXXVII, fasc. IV, 20 luglio 1939, pp. 277-278 (poi in La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, Bari, Laterza, 1914-1940, vol. VI, 1940, pp. 150-151) : « Assai maggiori pretese che non il buon Castelnuovo coltivava Federico De Roberto, il quale non risparmiò fatica per tenersi in un’elevata sfera artistica ed ebbe estimazione e fama superiore a quella dell’altro e la meritò anche per questa sua serietà di propositi. E nondimeno a me sembra che di affetto e fantasia ne possedesse assai meno e fosse ingegno prosaico, curioso di psicologia e di sociologia, ma incapace di poetici abbandoni. […] Compié uno sforzo veramente enorme e penoso nel grosso romanzo di ambiente : I Viceré, che narra la storia della nobile famiglia siciliana degli Uzeda, che il 1860 trovò borbonici, nel trapasso all’Italia una e nei primi decenni della vita pubblica di questa. E zolianamente vi apportò l’intenzione di dimostrare una tesi : cioè, che una gente, usa per secoli a dominare, non abbandona questa sua pratica per larghi e profondi che siano i rivolgimenti sociali e politici accaduti, attraverso i quali gl’individui di quella famiglia, armati della capacità ricevuta ereditariamente, riescono a sormontare e continuano, in modi nuovi, a dominare. […] Questa idea, che non è un principio di unificazione artistica, ossia un motivo poetico, e che, d’altra parte, toglie l’ingenuità di descrittore storico al romanziere dei Viceré, non aveva in ogni caso bisogno di così grosso libro per essere esemplificata, dato che ciò fosse necessario e dato che contenesse una verità dimostrabile, della qual cosa è da dubitare. Foltissimo di personaggi, di macchiette, di eventi, di costumanze, di descritte trasformazioni e trasfigurazioni sociali, il libro del De Roberto è prova di laboriosità, di cultura e anche di abilità nel maneggio della penna, ma è un’opera pesante, che non illumina l’intelletto come non fa mai battere il cuore ».
9 Per Gaetano Mariani cfr. Federico De Roberto narratore, Roma, Il Sagittario, 1950 ; per Luigi Russo, che molti lavori dedicò allo studio dell’opera derobertiana, cfr. ad esempio il saggio contenuto in Ritratti e disegni storici (Firenze, Sansoni, 1965, 4 vol. , vol. IV, pp. 321-332) nel quale si insiste ad imputare ai Viceré un « difetto di poesia » (p. 325) per poi concludere : « Il De Roberto è un vero e ricco artista, ma gli manca il phatos del poeta, come il phatos del grande storico » (p. 326).
10 Gaetano Trombatore, Riflessi letterari del Risorgimento in Sicilia e altri studi sul secondo Ottocento, Palermo, Manfredi, 1960, p. 43. Questa l’opinione espressa da Trombatore a p. 39 sull’esito dei moti risorgimentali in Sicilia : « Ironia della sorte ! – par che dica qui De Roberto – ecco i baroni più potenti di prima : questo fruttò in Sicilia il sangue dei Mille. E in verità l’accento dello scrittore non batte su quello che poteva anche essere il potere catartico della rivoluzione, e cioè sulla capacità sua di guadagnare alla buona causa anche gli avversari più retrivi adescandoli coi vantaggi utilitari. Nulla c’è in tutto il romanzo che possa assomigliare a una vichiana astuzia della provvidenza in senso positivo, e cioè progressivo. La cosa sta tutta alla rovescia. Il moto risorgimentale non è il soggetto ; ma è l’oggetto della situazione storica. La rivoluzione non addomestica nessuno. Si lascia addomesticare lei, invece ; e quelli che dovrebbero essere i suoi servitori, ecco che sono i padroni, e se la portano legata al guinzaglio ».
11 Cfr. Mario Pomilio, L’antirisorgimento di De Roberto, in « Le ragioni narrative », n. 6, novembre 1960.
12 Carlo A. Madrignani, Introduzione, in Federico De Roberto, Romanzi, novelle e saggi, a cura di Carlo A. Madrignani, Milano, Mondadori, 1984, pp. LI-LII. Dello stesso critico si vedano anche : « Illusione » e realtà nell’opera di F. De Roberto, Bari, De Donato, 1972 ; Pensiero politico e « vissuto » politico in F. De Roberto, in Letteratura e società. Scritti di italianistica e di critica letteraria per il XXV anniversario dell’insegnamento universitario di Giuseppe Petronio, Palermo, Palumbo, 1980, 2 voll., vol. I, pp. 407-417 ; F. De Roberto, l’inattuale, in « Belfagor », a. XXXVI, n. 3, 1981, pp. 334-342.
13 Cfr. Natale Tedesco, La norma del negativo. De Roberto e il realismo analitico, Palermo, Sellerio, 1981, p. 76 : « La crisi dei valori cui si rifà De Roberto non investe solo la realtà italiana, anche se nei Viceré egli rappresenta, con quello che egli ritiene il massimo scrupolo di veridicità storica, addirittura una fetta, quella siciliana, di questa realtà. E, certo, la crisi esistenziale si attiene nel romanzo ad una crisi storica, proprio nel senso che il pessimismo derobertiano assume quei toni e quei colori, quella profondità e quel rilievo, perché viene fuori non da una delle tante crisi politico-sociali, sibbene da quel che si preannunciava come la crisi storica generale, epocale, della società e della civiltà borghesi. De Roberto soffre la preparazione e gli esiti primi di tale crisi in profonda e complessa contraddizione ; la sua opera è l’immagine veritiera e l’espressione altissima della problematica della fine del secolo, perché vi convivono antiparlamentarismo e pure antiaristrocraticismo, anticlericalismo e pure evangelismo (più alla Renan che alla Tolstoj), antidemocratismo e pure aristocratismo e superuomismo (alla Nietzsche, ma anche alla Renan, come si vedrà più avanti), desiderio di sanità e scetticismo, fideismo scientista e pessimismo, volontà di realizzarsi e inettitudine ». Di Tedesco cfr. anche La concezione mondana de « I Viceré », Caltanissetta, Sciascia, 1963.
14 Cfr. Vittorio Spinazzola, Federico De Roberto e il verismo, Milano, Feltrinelli, 1961.
15 Luigi Baldacci, Il ‘mondo’ in Federico De Roberto, in « Il Veltro », n. 9/10, settembre-ottobre 1961, p. 6. Nella riproposizione dello stesso saggio, rivisto e aggiornato, come introduzione all’edizione einaudiana de I Viceré (1990) Baldacci aggiunge : « Nel giudizio totale che lo scrittore dà del ‘mondo’ è certamente implicita una partecipazione storica che assume tutti i caratteri di una vera e propria coscienza politica, ma per attestarsi alla fine su posizioni assolutamente negative, che non prevedono e non ammettono alcuna soluzione concreta sul piano dell’azione » (p. XVII).
16 Il legame, umano oltre che artistico, che univa De Roberto a Verga è sufficientemente testimoniato dalla raccolta di saggi pubblicati su diverse riviste dell’epoca (in volume solo postumi in Federico De Roberto, Casa Verga e altri saggi verghiani, a cura di Carmelo Musumarra, Firenze, Le Monnier, 1964) che il primo dedicò all’autore dei Malavoglia e che nelle intenzioni dovevano costituire l’ossatura di uno studio complessivo sulla vita e sulle opere di quest’ultimo. Per maggiori dettagli sul rapporto tra Verga e de Roberto si rimanda a Nino Cappellani, Vita di Giovanni Verga, Firenze, Le Monnier, 1940 e Nino Borsellino, Storia di Verga, Roma, Laterza, 1992.
17 Non così, ad esempio, nei racconti dedicati alla Prima guerra mondiale, nei quali sotto la spinta di un nuovo sperimentalismo De Roberto affianca all’italiano, prevalentemente usato dagli ufficiali, i dialetti regionali parlati dai soldati e un « pastiche mistilingue (da far pensare a Gadda o a Pasolini) » usato come sorta di lingua franca. Cfr. Natale Tedesco, Le « novelle della guerra » : De Roberto e la pluralità dei mondi reali, in « Galleria », a. XXXI, n. 1-4, gennaio-agosto 1981, p. 114.
18 Cfr. Carlo A. Madrignani, Introduzione, cit., p. XXXIV.
19 Ibidem, p. XXVIII.
20 Leonardo Sciascia, Perché Croce aveva torto, in «la Repubblica», 14/15 agosto 1977, p. 10.
21 Vincenzo Spinazzola, Il romanzo antistorico, Roma, Editori Riuniti, 1990, p. 53.
22 Cfr. Silvia Dai Prà, Federico De Roberto. Tra Naturalismo ed Espressionismo. Lo stile della provocazione, Palermo, Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici, 2003, pp. 82-89.
23 Federico De Roberto, I Viceré, in Id., Romanzi, novelle e saggi, cit., p. 953.
24 Ibidem, p. 1077.
25 Cfr. Carlo A. Madrignani, Retorica e rettorica dei discorsi politici di Consalvo, in « Galleria », a. XXXI, n. 14, gennaio-agosto 1981, fasc. dedicato a Federico De Roberto, a cura di Sarah Zappulla Muscarà, pp. 78-86, p. 79.
26 Federico De Roberto, I Viceré, cit., p. 1081.
27 Ibidem, p. 1082.
28 Ibidem.
29 Ibidem, p. 1084.
30 Ibidem, p. 1085.
31 Ibidem, pp. 1088-1089.
32 Ibidem, p. 1089.
33 Ibidem, p. 1090.
34 Ibidem, p. 1091.
35 Id., L’imperio, in Romanzi, novelle e saggi, cit., pp. 1129-1130.
36 Ibidem, pp. 1131-1132.
37 Cfr. Carlo A. Madrignani, Retorica e rettorica dei discorsi politici di Consalvo, cit., p. 84.
38 Federico De Roberto, L’imperio, cit., pp. 1264-1265.
39 Ibidem, p. 1344.
40 Ibidem, p. 1274.
41 Ibidem, p. 1275.
42 Ibidem, p. 1277.
43 Ibidem.
44 Ibidem.
45 Ibidem, p. 1276.
46 Ibidem, pp. 1292-1293.
47 Ibidem, pp. 1279-1280.
48 Ibidem, p. 1281.
49 Ibidem, pp. 1291 e 1297-1298.
50 Ibidem, pp. 1291-1292.
51 Ibidem, pp. 1290-1291.
52 Leonardo Sciascia, op. cit., p. 10.