Nathalie Roelens | Calvino e le «città metafisiche» di Giorgio de Chirico*

La lettura pubblica con la quale Italo Calvino gratificò una retrospettiva di Giorgio de Chirico a Parigi nel 1983 e che apparve lo stes...




La lettura pubblica con la quale Italo Calvino gratificò una retrospettiva di Giorgio de Chirico a Parigi nel 1983 e che apparve lo stesso anno sulla rivista «FMR» (Franco Maria Ricci), risulta al contempo un esercizio di ekphrasis inedita e una riflessione meta-poetica cruciale.


Calvino e Diderot

Sappiamo che Diderot valutava le opere esposte al “Salon Carré” del Louvre secondo l’effetto prodotto, l’affetto che causavano, o meglio la loro ospitalità. Se la passeggiata dentro l’universo pittorico si rivelava piacevole, il valore estetico dell’opera venne stabilito. Nei Saloni di Diderot si verifica in effetti una coesistenza tra «attenzione estrema» e « infedeltà disinvolta » a dirla con Jean Starobinski : « La critique d’art naît en s’attribuant la faculté d’évincer l’art, de parler à sa place »1. Dell’esercizio retorico antico dell’ekphrasis Diderot mantiene la descrizione di opere d’arte in absentia ma non l’elogio, lasciando adito al biasimo, all’ironia, all’umorismo. Diderot trasforma l’oggettività doxastica dell’esercizio in passeggiata soggettiva, ispirata dal piacere e dal gusto, pure tralasciando le composizioni mediocri o sostituendole nel resoconto con quelle che lui avrebbe realizzate. Diderot dialoga con le opere, le apostrofa, considerandole non più “poesia muta” secondo il paradigma dell’ut pictura poesis. Alla Maddalena nel deserto di Carle Van Loo lancia : « Belle sainte : entrons dans cette grotte et là nous nous rappellerons peut-être quelques moments de votre première vie »2. Insomma vuole animare le cose morte tramite la scrittura poetica come se la poesia fosse l’attività creatrice che prolunga quella del pittore, fino ad affermare «Son pittor anch’io»3. Interroga in ogni caso le frontiere tra creazione artistica, descrizione e gesto poetico.

La stessa cosa vale per Louis Aragon confrontandosi con l’opera di Henri Matisse. Aragon utilizza la qualifica di “romanzo” per descrivere le opere di Matisse e non quella di “libro d’arte”, non solo perché l’arte « sfugge all’analisi testuale » ma anche perché egli ne fa «pretesto per parlarci di sé»:

Ceci est un roman, c’est-à-dire un langage imaginé pour expliquer, croirait-on, l’activité singulière à quoi s’adonne un peintre ou un sculpteur, s’il faut appeler de leur nom commun ces aventuriers de la pierre ou de la toile, dont l’art est précisément ce qui échappe aux explications de texte. À supposer que, livre d’art ou roman, le scribe n’ait pas pris ce biais, ce prétexte pour nous parler de lui-même, de ses genoux, de son crâne, également polis, de sa stèle antique et des difficultés multiples à tracer les hiéroglyphes pour lui pas moindres qu’à nous de les comprendre…4

Calvino adopera insieme la critica-passeggiata diderottiana e la riflessione su se stesso suggerita da Aragon. Il confronto con un altro modo espressivo permette a Calvino, giunto a una certa maturità, di fare la sintesi di tutti i dualismi occidentali che hanno permeato la sua arte, coppie concettuali sempre in tensione : la linea e il colore, il principio di realtà e il principio di piacere, la perfezione e l’imper-fezione del clinamen o del guizzo, ecc.

Calvino può tuttavia andare oltre alle licenze di Diderot poiché non gli spetta più rendere visibile tramite il linguaggio l’universo diegetico delle opere assenti. A Beaubourg il pubblico era fisica-mente presente davanti alle opere non solo appese alle pareti ma proiettate sotto forma di diapositive durante la lettura. Allo stesso modo noi lettori dell’articolo Accanto a una mostra, nella rivista di Franco Maria Ricci, vediamo le illustrazioni sfilare in basso al testo. Calvino dispone quindi di tutta la latitudine per divagare con il suo commento, per aggirare le opere, per parlare delle proprie preoccupazioni, senza offendere le tele che non vanno più presentate, anche perché lo stesso de Chirico le aveva già commentate nei suoi articoli – sulla rivista « Pittura metafisica »(1919) e tramite il suo lungo racconto Hebdomeros (1929)5 – o perché erano già state evocate da Jean Cocteau in Le mystère laïc (1928) o da André Breton con i suoi Cinq rêves dedicati a de Chirico (in Clair de terre, 1923).

Impostando la sua lettura come un “viaggio”, Calvino non prova riluttanza ad abolire le frontiere tra l’arte e quello che c’è fuori della cornice, le hors-champ a cui André Malraux, nel suo Musée imaginaire,attribuiva una funzione di parapetto, di «garde-fou»6 tra il reale e l’arte. Calvino, con la sua leggerezza da viandante delle città, apre le cornici senza scrupoli di ordine semiotico. La sua meditazione, benché sollecitata dall’immagine, assorbe tutto “l’immaginario” delle città deserte di de Chirico, nel senso bachelardiano di quello che non si lascia imprigionare in nessuna immagine: «[...] l’imaginaire [...] se présente toujours comme un au-delà des images, il est toujours un peu plus que ses images»7.

La svolta sensitiva del 1983

Nel 1983 Calvino era pervenuto alla fine della sua carriera ; lo stesso anno aveva compiuto Palomar (i cui capitoli rispettivi erano già apparsi sul « Corriere della Sera » dal 1975 in poi8), ultima ascesi verso la saggezza spoglia, verso lo sgombero mentale. D’altra parte, Calvino aveva già in cantiere (benché il progetto risalisse agli anni ’70) Sotto il sole giaguaro9di cui proprio nella primavera del 1983 spiegò l’urgenza all’Institute for the Humanities di New York : « [Sotto il sole giaguaro] parla dei cinque sensi, per dimostrare che l’uomo contemporaneo ne ha perso l’uso. Il mio problema scrivendo questo libro è che il mio olfatto non è molto sviluppato, manco d’attenzione auditiva, non sono un buongustaio, la mia sensibilità tattile è approssimativa, e sono miope »10. Orbene, ci pare che il viaggio nelle città di de Chirico abbia accelerato questo ritorno della sensorialità troppo rimossa, nonché la volontà di affinare i sensi sclerotizzati.

«Accanto a una mostra » palesa in ogni caso una cerniera nell’estetica calviniana tra, da una parte, la razionalità estrema del taciturno, assorto e riservato Palomar a cui manca l’esperienza davanti al seno nudo (tranne il trasalimento del guizzo11) o davanti al grasso d’oca : « Si guarda attorno aspettando di sentir vibrare un’orchestra di sapori : No, non vibra niente »12 e, d’altra parte, la sensibilità carnosa di Sotto il sole giaguaro. Ci voleva il pungolo dell’arte per arrivare a quest’emancipazione.

Accanto a una mostra

Di primo acchito, la solitudine delle opere metafisiche di de Chirico priva Calvino del contatto che riusciva ad istituire Diderot – ogni dialogo con una comparsa dipinta si rivela vano:

A chi potrei chiedere la strada ? A quei due passanti laggiù in fondo ? Mi sembrano lontani, troppo lontani [...] Chi è l’ospite ideale che la città attende ? Sento che questi portici vuoti, queste finestre chiuse, questi oggetti abbandonati mi respingono come se la mia presenza potesse turbarne la calma.13

La città metafisica si rivela una “città del pensiero”, solo accessibile ai filosofi, una “città ideale” o teorica, come quella rinascimentale di Luciano Laurana, città di Descartes o di Kant a cui il testo allude, e sarebbe proprio questo pensiero avvertito in Un chant d’amour dello stesso de Chirico14 ad aver suscitato in René Magritte la sua vocazione di pittore surrealista. Tutto vi è disposto « in modo da distogliere la mente da emozioni e passioni e condizionamenti esteriori »15. Rimane la malinconia, che non è una passione ma « ci sottrae [precisamente] le nostre angosce nasconden-dole in una collezione d’oggetti eterocliti e asimmetrici. Queste figure prendono su di sé le nostre inquietudini fino a renderle strane ed estranee ai nostri occhi »16. Calvino sembra usare i termini « strane » ed « estranee » come per ricordarci la coincidenza editoriale nel 1919 di tre testi maggiori a questo riguardo : Das Unheimliche di Freud17 il quale legava l’inquietante stranezza alle angosce dell’infanzia, Sull’arte metafisica di de Chirico stesso in cui sviluppa l’idea di straniamento e, infine, la stroncatura giornalistica di Roberto Longhi Al dio ortopedico. Potremmo aggiungerci l’idea proustiana secondo la quale l’arte ha lo scopo di liberarci dagli «effetti analgesici dell’abitudine»18.

Nel suo articolo Sull’arte metafisica de Chirico insiste su questo scarto minimo dal familiare, sulla leggera trasfigurazione del reale, su un altro modo di guardare le cose che genera l’insolito, l’inspiegabile:

Pigliamo un esempio : io entro in una stanza, vedo un uomo seduto sopra una seggiola, dal soffitto vedo pendere una gabbia con dentro un canarino, sul muro scorgo dei quadri, in una biblioteca dei libri ; tutto ciò non mi colpisce, non mi stupisce poiché la collana dei ricordi che si allacciano l’un l’altro mi spiega la logica di ciò che vedo ; ma ammettiamo che per un momento e per cause inspiegabili si spezzi il filo della collana, chissà come vedrei l’uomo seduto, la gabbia, i quadri, la biblioteca ; chissa allora quale stupore, quale terrore e forse anche quale dolcezza e quale consolazione proverei io mirando quella scena. La scena però non sarebbe cambiata, sono io che la vedrei sotto un altro angolo. Eccoci all’aspetto metafisico delle cose.19

È quest’atmosfera deliberatamente enigmatica espressa soprat-tutto dai manichini che Roberto Longhi ha stigmatizzata con l’espressione « homo ortopedicus », nel suo articolo intitolato Al dio ortopedico, scritto in occasione della mostra di de Chirico alla Galleria Bragaglia di Roma. L’ibridazione grottesca ed artificiosa di questi umanoidi nell’ambito di un « meccanomorfismo genera-lizzato » paiono in effetti del tutto incompatibili con il suo ideale classico al di fuori delle vicissitudini del tempo. Longhi prende particolarmente a bersaglio il tema del manichino d’accademia in cui vede una fascinazione per i feticci, per nuovi idoli, con dei «significati animisti e astrusi»:

Spinta dalla sua mano di macchinista crudele, l’umanità orrendamente mutila e inesorabilmente manichina, attrezzata alla meglio sé medesima come un melanconico cul-de-jatte, appare fra grandi stridori e cigolamenti sui vastipalcoscenici deserti, guardati a vista dai pesanti scatoloni dei casamenti pieni di caldo e di buio. Ivi l’homo orthopedicus sgrana con voce di carrucola una sua parte impossibile alle statue diseredate della Grecia antica. Sotto il torbido smeraldo del cielo, che la pretende a mediterraneo, i miti ellenici decapitati presentano credenziali alle statue di Cavour ; le civiltà si riecheggiano, le ciminiere delle officine si alleano ai masti medievali, mentre Pirelli e Borso d’Este s’intendono al primo sguardo del loro unico occhio artificiale.20

Anche se alcuni, come Joël Roucloux, colgono invece una dimensione affettiva nei manichini, in quanto Ettore e Andromaca, (disegno del 1917, pittura del 1922)potrebbe alludere alla partenza del fratello Alberto Savinio per il fronte in Macedonia o Il figliol prodigo (1922)alla scomparsa prematura del padre21, Calvino si sente fisicamente intralciato dalla saturazione dello spazio occupato da questa « stirpe d’abitanti », « esseri composti, mutanti in cui non sai mai ciò che è manichino, ciò che è statua, ciò che è essere vivente »22. Il passaggio da “città del pensiero” a “città del sogno” è ormai abbastanza ovvio. Non sorprende allora che l’agorafobia iniziale si muti in claustrofobia : « Insomma, non è d’agorafobia che io soffro, qui. Al contrario, sento che sono diventato claustrofobo ; mi sento chiuso in questo labirinto di vie e piazze [...] »23. L’era diderottiana della passeggiata campestre nei quadri ottocenteschi è definitivamente chiusa. Se delle vedute si aprono, esse sono:

già incorniciate, appoggiate a cavalletti in mezzo a strumenti di disegno. Se un albero fiorito finalmente s’illumina tra due oscuri muri di palazzi, si scoprirà che è solo un fondale di tela appeso. L’aria aperta qui è solo dipinta, un impiantito di palcoscenico è il terreno in cui si posano i nostri passi.24

Il paradigma estetico a cui appartiene de Chirico, prima di quello metafisico, venne già formulato da Maurice Denis, capogruppo dei Nabi25 : «Se rappeler qu’un tableau, avant d’être un cheval de bataille, une femme nue ou une quelconque anecdote, est essentiellement une surface plane recouverte de couleurs en un certain ordre assemblées »26. «Questo non è una pipa», ci dice de Chirico prima di Magritte che intitolò il suo quadro famoso La trahison des images (1928); l’immagine è simulacro, «l’image est un néant d’objet» (come diceva Sartre), arbitrario come il fumetto nell’Origine degli uccelli delle Cosmicomiche calviniane.

Ogni tanto qualche oggetto che incontro sulla mia strada mi risveglia il ricordo della natura provvida e generosa che un tempo mi nutriva : carciofi, caschi di banane, ananassi, e io m’aspetto che la marea di linfa e succhi vitali torni a sollevarmi nella sua onda calda e densa : quello che sento invece è un invito a deporre, con questi ultimi doni terrestri, ogni peso materiale che ancora mi trattiene.27

Il ritorno del rimosso

L’insistere sull’enigma come ostacolo ermeneutico da parte di Calvino va sicuramente collegato alla crisi conoscitiva che subisce all’inizio degli anni ’80. Che l’enigma appartenga a una civiltà semioticamente inquinata, contaminata, satura di segni28, perché richiede uno sforzo interpretativo, lo conferma Palomar quando, durante la sua visita alle rovine di Tula in Messico, afferma « ogni figura si presenta come un rebus da decifrare »29 mentre il maestro indio professa con saggezza ai suoi allievi « Non si sa cosa vogliono dire »30 e passa oltre, rinunciando ad interpretare, attenendosi a ciò che vede : « Le cose significano se stesse e nient’altro »31. Calvino si mette a riflettere sull’episteme che lo imprigionava, meglio, lo asfissiava finora (lo strutturalismo disincarnato, la letteratura potenziale). La fine della carriera sembra annaspare a qualcosa di più carnoso, di meno asettico.

Quanto dice alla fine della lettura su de Chirico sembra valido per la sua arte. Ha fatto troppi sacrifici «per raggiungere l’esattezza, l’impassibilità, la trasparenza»:

Non ricordo più quali passioni o turbamenti offuscavano il pensiero fuori di qui ; ho dimenticato la parte di me stesso che ho lasciato lungo il cammino; solo alle volte mi prende il sospetto che la mia iniziazione mi sia costata troppo cara, ma non so valutarne né i guadagni né le perdite.32

I cinque sensi ormai s’impongono per far riaffluire la vita troppo rimossa:

Certe mattine un nitrito prorompe altissimo, vibra nell’aria ; un altro nitrito gli risponde, e un altro, un altro, ora sembrano allontanarsi, ora farsi più vicini, insieme con un gran battito di zoccoli. Da tempo tutti i cavalli sono fuggiti dalla città e si aggirano sulle spiagge deserte. C’è chi li ha visti galoppare sulla riva del mare, con le criniere e le code fluenti che volano al vento, il pelo lucido sulle forti groppe. Non so perché questi nitriti mi turbano. Non so perché mi sento spinto dall’improvviso desiderio di raggiungerli e poi trattenuto come da paura. Par che i cavalli siano tornati selvaggi, dotati d’una forza folle che sbriciola le rovine dei templi. Nessuno più potrebbe sottometterli alle redini e alla sella. Quando s’imbizzarriscono il rimbombo del loro scalpitare risuona come un terremoto che fa tremare la città.33

I cavalli ridotti a superficie piana nell’arte moderna secondo Maurice Denis, a metonimia dal Blaue Reiter, i cavalli statue di de Chirico, a un certo punto richiamano tutti il loro antenato focoso, quello di Théodore Géricault (ispirato dalla corsa dei cavalli liberi al carnevale di Roma), che incarna il succo vitale rimosso, il segreto desiderio di passioni e di libertà di Calvino, la sensualità e la sensorialità troppo coatta da una scrittura formalmente limpida. Il passaggio da un de Chirico metafisico ad un de Chirico più sensuale, neo-classico, nella vena di un neoclassicismo mediterraneo vicino al barocco – sebbene schernito dai surrealisti che avevano sempre beatificato il de Chirico metafisico e gridavano al rinnegamento – ha suscitato questo affrancamento, questo risveglio dei sensi. L’ultima serie di diapositive convoca non solo il gusto (le banane), ma anche il tatto (l’abbraccio del figliol prodigo) e l’udito (il nitrito dei cavalli).

Una piccola digressione s’impone qui. Già in pieno periodo « lineare », per parafrasare Wölfflin, Calvino aveva incontrato l’arte pittorica corposa dell’artista Cobra Reinhoud. Animare l’arte con le parole non richiedeva nessuno sforzo : in un testo del 1961, Calvino scorta l’opera tellurica di Reinhoud, la lettura facendosi essa stessa cosmogonia, sposando l’emergere vitalista degli omuncoli dalla materia geologica in ebollizione:

Reinhoud […] réveille une foule infinie de créatures anthropomorphes, hordes d’homoncules qui sortent comme champignons incolores d’un océan d’argile pâle, et se secouent et se dégourdissent les bras et les jambes et le sexe, et ne se redressent pas plus qu’il est permis aux habitants de l’imperceptible frontière qui sépare le dedans et le dehors, et avancent lentement sur de grands pieds par lesquels ils gardent le contact vital avec la Terre maternelle, et ils ricanent ils crient ils se palpent ils s’accouplent, préfigurant dans un mime impitoyablement anticipateur ceux qui seront leurs lointains successeurs : les hommes.34

Questi esseri antidiluviani, magmatici, indolenti, sono forse gli ispiratori indiretti del Qfwfq delle Cosmicomiche (1965). La preoccupazione costante degli artisti plastici per la creazione, ossia l’espressione, non può non aver avuto delle incidenze sulla poïésis, sull’arte dello scrivere di Calvino.
Possiamo quindi considerare il viaggio nelle città di de Chirico come un’allegoria della crisi estetica, semiologica e forse esistenziale che trascorre Calvino. Il confronto con l’arte come mondo sovrano e autonomo in tutto il suo ermetismo è l’occasione per il nostro autore di riflettere sulla propria creazione, di risolvere delle impasse conoscitive precedenti.

Palomar, in quanto percorso iniziatico, era anch’esso sboccato su un’impasse: l’abolizione di tutti gli schermi, gabbie, vetrine, insomma dell’incorniciatura del mondo, aveva posto lo strano bonhomme – un misto tra Monsieur Teste e Monsieur Hulot – « faccia a faccia con la realtà mal padroneggiabile e non omogeneizzabile a formulare i suoi “sì”, i suoi “no”, i suoi “ma” »35 e, finalmente, faccia a faccia con se stesso, con « quello scomodo diaframma che è la (sua) persona »36, con « quella macchia d’inquietudine che è la nostra presenza »37. Afferrare l’io risulta in effetti l’ultimo ostacolo38 dopo essersi sgombrato la mente da tutti questi diagrammi, scacchiere, disegni, schemi, tassinomie, categorie, carte, modelli, mappe, montaggi, reti, canovacci, matrici, ispirati dallo strutturalismo ortodosso. Palomar è talmente liberato dalle contingenze terrestri che si dissolve nella morte, perché anche l’introspezione è fallita39.

La sfiducia nell’iconizzazione era stata espressa precedentemente in modo apocalittico nel Castello dei destini incrociati: «Sono stanco che il Sole resti in cielo, non vedo l’ora che si sfasci la sintassi del Mondo, che si mescolino le carte del gioco, i fogli dell’in-folio, i frantumi di specchio del disastro»40 come già gli uccelli strappavano a beccate il fumetto nell’Origine degli uccelli delle Cosmicomiche. Lo vediamo, Calvino associò sempre il disegno all’ordine, a qualcosa di geometrico, di tabulare, di reticolare, « con linee nettamente tracciate, rette e circoli ed ellissi […] diagrammi con ascisse e ordinate »41. L’invito a prescindere dall’inquadratura corrisponde perciò per Calvino stesso al disfarsi dei modelli conoscitivi e dell’ottimismo gnoseologico dello strutturalismo42, come avviene nel volantino distribuito ai turisti che descrive il recinto rettangolare del giardino Zen : « Possiamo vederlo come un quadro incorniciato dai muri del tempio, o dimenticarci della cornice e convincerci che il mare di sabbia s’espanda senza limiti e copra tutto il mondo »43. Palomar, impersonando il dilemma di Calvino, venne così ad oscillare tra una disponibilità fenomenologica davanti alla muta distesa delle cose aspettando (invano) l’epifania (« non è questione di scegliere il proprio formaggio ma di essere scelti »44) e una fiducia illimitata nelle classifiche e nomenclature in quanto « prima misura da prendere se vuole fermare un momento le cose che scorrono davanti ai suoi occhi »45. Eppure « questo non l’avvicinerebbe d’un passo alla vera conoscenza che sta nell’esperienza dei sapori »46. L’aporia era già figurata dall’illustrazione di copertina di Palomar : una griglia che incasella in tanti quadretti la ricchezza insondabile che il corpo della donna coricata implica. Il reticolato si rivela un adiuvante insufficiente per il “disegnatore” Dürer-Calvino figurato nella parte cruciale dell’incisione, valorizzata dalla prospettiva e dal punto di fuga.

In questo senso Accanto a una mostra va oltre il percorso iniziatico di Palomar. De Chirico gli mostra in qualche modo che il dominio sul reale era solo illusorio, che l’universo asettico del rigore strutturale non poteva nascondere il caos primitivo, il disordine, l’indocilità della natura umana, l’aleatorio.

Calvino vede oggettivate le sue angosce creative, conoscitive nell’opera di de Chirico : la smentita della perfezione geometrica, dello spazio confinato e della riduzione bidimensionale del reale. Se Palomar rimane un tentativo abortito, benché ironico, se le sue «disavventure intellettuali»47 segnano il limite per Calvino, Accanto a una mostra apre su un nuovo periodo più euforico.

L’espressività dell’io narrante aveva sempre segretamente voluto superare l’astrazione e ritrovare una ricchezza variegata, sensitiva, la prodigalità del mondo:

Ogni tanto mi prendevano delle fantasie, questo sì: per esempio di grattarmi sotto le ascelle, o d’accavallare le gambe, una volta anche di lasciarmi crescere i baffi a spazzolino. Uso queste parole qui con voi per spiegarmi ; allora tanti particolari non potevo prevederli.48

Pare quindi lecito considerare che ci voleva il pretesto dechirichiano per mettere in pratica quello che Calvino aveva già vagheggiato nel modo umoristico del racconto ma che gli era stato impedito dal peso della stilizzazione e della logica narrativa. Dopo l’eccessiva riservatezza di Palomar, Calvino può finalmente togliere i « reggipetti mentali »49 come il de Chirico neoclassico poteva togliere i « corsetti ortopedici » a dirla con Cocteau50, rimuovere i diaframmi, i modelli, per immergersi finalmente nel mondo, e riconciliarsi con la sfera dell’esperienza mondana e quotidiana.

Forse l’insegnamento estetico salutare di de Chirico permette a Calvino di esclamare senza reticenze con la signora Ph(i)Nko di Tutto in un punto: «Ragazzi, avessi un po’ più di spazio, come mi piacerebbe farvi le tagliatelle!» con tutto l’esplodere centrifugo, figurativo e immaginario che implica. Bisogna rendere omaggio a questo «slancio generoso», «slancio d’amore» di Calvino, sottil-mente edonista e soprattutto liberatore.


Université du Luxembourg

Notes

* Italies, Revue d’études italiennes, n° 16, La plume et le crayon. Calvino, l’écriture, le dessin, l’image, 2012, Aix Marseille Université, CAER EA 854, 13090, Aix-en-Provence, France.

1  Jean Starobinski, Diderot dans l’espace des peintres, Paris, Réunion des Musées nationaux, 1991, s.p.
2  Denis Diderot, «Salon de 1761», in Essais sur la peinture, Salons de 1759, 1761, 1763, Paris, Hermann, 2007, p. 116.
3  Ibidem, « Salon de 1763 », p. 225 (en italien dans le texte).
4  Louis Aragon, Henri Matisse, roman (1967-1968), Paris, Gallimard, 1998, « Prière d’insérer », pp. 31-32.
5  Giorgio de Chirico, Hebdomeros, Paris, Flammarion, 1964.
6  André Malraux, Musée imaginaire, Genève, Skira, 1947.
7  Gaston Bachelard, L’Air et les songes, Paris, Corti, 1943, pp. 7-8.
8  Nella rubrica L’osservatorio di Palomar tra il 1975 e il 1976, e il Taccuino del Signor Palomar dal 1975 al 1983.
9  Italo Calvino, Sotto il sole giaguaro, Milano, Garzanti, 1986.
10  Italo Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto, « Lettera internazio-nale », ripreso in Mondo scritto e mondo non scritto, Milano, Mondadori, 2002, p. 124.
11  «Si volta e ritorna sui suoi passi. Ora, nel far scorrere il suo sguardo sulla spiaggia con oggettività imparziale, fa in modo che, appena il petto della donna entra nel suo campo visivo, si noti una discontinuità, uno scarto, quasi un guizzo. Lo sguardo avanza fino a sfiorare la pelle tesa, si ritrae, come apprezzando con lieve trasalimento la diversa consistenza della visione e lo speciale valore che essa acquista, e per un momento si tiene a mezz’aria, descrivendo una curva che accompagna il rilievo del seno da una certa distanza, elusivamente ma anche protettivamente, per poi riprendere il suo corso come se niente fosse stato » – Italo Calvino, «Il seno nudo», Palomar, Torino, Einaudi, 1983, pp. 12-13.
12  «Un chilo e mezzo di grasso d’oca», ibidem, p. 71.
13  Calvino - de Chirico, Accanto a una mostra, in « FMR », mensile di Franco Maria Ricci, luglio/agosto 1983, n. 15, pp. 45-46.
14  Giorgio de Chirico, Un chant d’amour, 1914, olio su tela, 73 x 59,1 cm, New York, the Museum of Modern Art. Quest’opera fu d’altronde acquisita da Breton e non smise di ossessionarlo.
15  Calvino - de Chirico, Accanto a una mostra, cit., p. 47.
16  Ibidem, p. 48.
17  Leggendo Freud, ci crediamo proprio piombati nell’universo di de Chirico stesso : « Un jour où, par un brûlant après-midi d’été, je parcourais les rues vides et inconnues d’une petite ville italienne [...] je ressentis un sentiment que je ne puis que qualifier d’étrangement inquiétant. […] Cette sorte de l’effrayant qui se rapporte aux choses familières depuis longtemps connues et de tout temps familières […] le côté spectral de toute chose. » – Sigmund Freud, Das Unheimliche ; L’inquiétante étrangeté (1919), traduction de Marie Bonaparte, in Essais de psychanalyse appliquée, Paris, Gallimard, « Idées », 1971 [1933], pp. 163-210.
18  Proust oppone « les effets analgésiques de l’habitude » (Marcel Proust, À l’ombre des jeunes filles en fleurs, 1919, Paris, Gallimard « folio », p. 297) allo spaesamento, ad esempio quello del viaggio a Balbec, propizio ad un risveglio delle facoltà.
19  Giorgio de Chirico, Sull’arte metafisica, in « Valori plastici », n. 4-5, aprile-maggio 1919.
20  Roberto Longhi, Al dio ortopedico, « Il Tempo », 22 febbraio 1919, ripreso in Paolo Baldacci, Giorgio de Chirico 1888-1919. La metafisica, Milano, Leonardo Arte, 1997.
21  Cf. Joël Roucloux, Le mannequin chez de Chirico : une rassurante étrangeté ?, in Homo orthopedicus. Le corps et ses prothèses à l’époque (post)moderne (dir. Nathalie Roelens & Wanda Strauven),Paris, L’Harmattan, 2001,pp. 243-262.
22  Calvino - de Chirico, Accanto a una mostra, cit., p. 50.
23  Ibidem, p. 49.
24  Ibidem, p. 50.
25  I Nabi furono un gruppo di pittori post-impressionisti che privilegiavano i colori evocativi di un mondo mistico e la bidimensionalità.
26  Maurice Denis, Définition du néo-traditionnisme, in « Art et critique », 30 août 1890.
27  Calvino - de Chirico, Accanto a una mostra, cit., p. 50.
28  Sulla scia di Roland Barthes, Calvino incita a sospendere il linguaggio, il guscio di parole sotto il quale siamo vincolati, anela ad « una pratica votata a svuotare, a sconcertare, a prosciugare il chiacchiericcio irrefre-nabile dell’anima […] una sospensione panica di linguaggio, il bianco che cancella in noi il regno dei codici, la rottura di questa recita interiore che costituisce la nostra persona. » – Roland Barthes, L’Impero dei segni (L’empire des signes, 1970), Torino, Einaudi, 2002, p. 87.
29  Italo Calvino, Serpenti e teschi, in Palomar, cit.,p. 97.
30  Ibidem, p. 98.
31  Italo Calvino, Il mondo guarda il mondo, ibidem,p. 117.
32  Calvino - de Chirico, Accanto a una mostra, cit., p. 51.
33 Ibidem, p. 51.
34  Testo del 1961 (trad. fr. Jean Thibaudeau).
35  Italo Calvino, Il modello dei modelli, in Palomar,cit., p. 113.
36  Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Torino, Einaudi, 1979, p. 171.
37  Italo Calvino, Come imparare a essere morto, in Palomar,cit. p. 124.
38  In Ti con zero quest’ostacolo venne ancora schivato dalla stilizzazione estrema. L’io, liberato dallo spessore ingombrante della propria persona, si trasforma in cono di luce, desideroso di « comunicare l’indispensabile, di ridurre (se stesso) a comunicazione essenziale » – Italo Calvino, Il guidatore notturno, in Ti con zero, Torino, Einaudi, 1967, p. 145.
39  «Se le cose stanno così, il modello dei modelli vagheggiato da Palomar dovrà servire a ottenere dei modelli trasparenti, diafani, sottili come ragnatele : magari addirittura a dissolvere i modelli, anzi a dissolversi.» – Il modello dei modelli, in Palomar,cit., p. 113. Era già l’argomento del nostro libro L’odissea di uno scrittore virtuale. Strategie narrative in Palomar di Italo Calvino, Firenze, Cesati, 1989.
40  Italo Calvino, Il Castello dei destini incrociati, Torino, Einaudi, 1973, p. 120.
41  Italo Calvino, Il modello dei modelli, in Palomar,cit., p. 110.
42  «È fallacia ontologica saccheggiare il magazzino del diverso per scoprirvi sempre subito, e con certezza assoluta, l’identico» – Umberto Eco, La struttura assente. Introduzione alla ricerca semiologica, Milano, Bompiani, 1968, p. 380.
43  Italo Calvino, L’aiola di sabbia, in Palomar, cit., p. 94.
44  Italo Calvino, Il museo dei formaggi, in Palomar,cit., p. 74
45  Ibidem, p. 75.
46 Ibidem.
47  Italo Calvino, Palomar,cit., p. 115.
48  Italo Calvino, La spirale, in Le Cosmicomiche,Torino, Einaudi, 1965, p. 170.
49  « [...] istituisco una specie di reggipetto mentale sospeso tra i miei occhi e quel petto » – Italo Calvino, Il seno nudo, in Palomar, cit., p. 12.
50  « Giorgio de Chirico enlève le corset orthopédique et cesse de se cacher derrière le métier italien du trompe-l’œil » – Jean Cocteau, « Le mystère laïc », in Essai de critique indirecte, Paris, Grasset, 1932, p. 20.


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