Eleonora Rimolo | Poesie Scelte

da: Temeraria Gioia (Giuliano Ladolfi Editore, 2017) Avvolta in fragranze di limoni vorrei, tu con il maglione a quadri, in cucina mi sorri...




da: Temeraria Gioia (Giuliano Ladolfi Editore, 2017)


Avvolta in fragranze di limoni vorrei,
tu con il maglione a quadri, in cucina
mi sorridi dall'altro capo del filo
in tasca hai tutte le piaghe del senno
piegate stanno in mezzo al fazzoletto
sopra il tavolo lucerna senza vento
aroma di caffè, disusate tenerezze
di vecchio, la luna sovrasta il tetto
non si vede che il velo dell'altro
suo volto, nei tuoi occhi,
come un vaso ornato privo di fiori:
tra i disegni e le chiacchiere
sono morti numerosi altri
idoli ma in te solo, nelle tue ossa,
io rivedo la tovaglia, le carte, le forbici
in fila indiana, la fruttiera,
in principio.
Lì dove nacqui erano già in cammino
i tuoi passi, ancora e ancora
stritolano speranze
e – solo ̶ il tuo amore fa ruggire
a me dentro tempesta.
Ci riabbracciamo qui sotto il letto,
aiuto, ho buttato via l'asso
di denari, sono stata davvero, ho fatto
proprio la mossa sbagliata: tu
batti le mani, vincitore, il vino
ti colora rughe nuove e le Erinni
finalmente
abbandonano l'estate.




Sono Io, mi riconosci,
ho un sopracciglio che supplica
il conto, alla fine di un misero
pasto: hanno appena
asfaltato, mi dici, ora
è quasi pronto, il cortile
che ci accoglie ha perso pure
l’ultimo coriandolo di verde,
un gorgoglio ci ricorda che
esistono ancora le fogne,
scrigni oscuri, custodi ultimi
delle lenzuola che solamente
sognammo di annusare.
 
 
 
Madre ancora
questo indefinito radicale
viene a chiederci uno sconto
di pena, e tutto si somma
dentro una sola grande onda:
̶ ed era vero quel che mi dicevi
mentre mi iniettavi la vita:
niente vale la pena se non il punto
esatto in cui tutto
ebbe inizio: perché bisogna
uscire in fretta dal mistero
senza guardarsi le spalle ̶
ma Orfeo chiama la morte,
in fondo, mentre chiedo
solo di rientrare col mio
morbo d’affetto
nella culla dell’acqua,
maschera impura e geniale.
 
 
 
a Milo De Angelis
 
Come colla la poesia
lega la carezza
a frazioni di una voce
che guida e brancola
nell’eterno movimento
spezzato:
sei il maestro
che anticipa le notti
e mi chiama dal fondo
di uno stringersi delle mani
asimmetriche dove
giungere è l’estremo
mio atto di carsica
somiglianza.
 
 
 
Chissà se per alcuni minuti
siamo rimasti stretti nella gioia:
attorno tutto indicava che il rito
stava per compiersi, che aspettava
solamente questa congiuntura supposta
bramata ed intanto
il dolore è sordo, altrove i gelsomini
coprono i semafori si arrampicano
sopra le vertebre dolenti. Attraversiamo
una intera dorsale di libri ed ore ed ore
anche se tutto sembra compresso
vissuto per quel solo momento
benedetto nel nome di tutte
le morti dell’indifferenza, quelle
creature soppresse da un’attesa
fracassata e marcia: ancora restiamo
nell’epoca, dopotutto, e di nuovo a ritroso
si percorrono i destini, ogni cosa
ricade nell’accadersi e si concentra
in un solo segreto sorriso.
 
 
 
se diventeremo ciechi
io e te
crederemo di non aver visto
abbastanza di non averci
visti a sufficienza come se
si potesse invecchiare oltre
la sufficienza, invecchiare ancora
dopo la morte, per coccolare
questa grazia infinita
del finire.
 
 
 
L’universo passa, intanto,
e da un foro
ci è concessa l’immagine
di questa lingua che vaga
pronunciando il suo infinito,
e il vero s’interra
lasciando una duna:
asciutto il tuo bacio
nella frazione del respiro.
 
 
 
Ai miei dèi chiedo solo che non sottraggano
la fonte alla sete, che allontanino la tristezza
del non essere più, del non volere più,
feconda, come chi calibra i propri innesti
con quelli della terra, perché non sembri
prosciugata la madre corrente, la suprema viandante:
se questa è la promessa io invoco, io convoco
il mio mito, il mio sacrificio.



da: La terra originale (LietoColle, 2018)




Ci hanno detto di uscire il meno possibile,
solamente se urgente: polveri sottili,
smog, troppe sirene moleste. Mi difendo
così dai batteri, dalle spore, dai sorrisi
che non avrei incontrato. Trascorro i giorni
della malattia respirando la stessa aria
di sempre, osservo la sua caparbietà
la comparo alla mia penso a chi andrà via
per prima. Intanto la plastica fonde
cerca asilo nei polmoni dei superstiti,
con la pioggia non si può deglutire, brucia
l’ipotesi della resistenza, acre carità.




A mani nude gli studiosi scavano le fondamenta
piegati sul fossato: dicono vi siano tracce
di una civiltà antichissima, credono a quanto c’è
dietro la superficie, pure se la pioggia impasta la pietra,
li sporca di melma, complica l’esercizio della ricostruzione.
È triste questo nostro bisogno di ordine,
lo strappare la radice e non trovare il seme:
è un franare senza poter bloccare la discesa,
precipitare a brandelli privi del termine di caduta.




Con i muscoli rotti dall’umido passo
trasciniamo le settimane, pronunciamo
distintamente tre parole sole. Essere
stanco significa soffocare dentro a un letto,
spendere meno sangue possibile per non
replicare il dolore: in questo modo
non ricrescono le voglie, si eradicano
tutti i contagi e in me non resta
che il deserto asettico dove ci siamo
contaminati, in cui siamo stati lasciati.





Sono cresciuti insieme a te i miei capelli,
io meno. Ancora sono tentata dallo svanire
se ogni giorno scavo un lembo di pensiero
e mi riduco a un liquido vischioso, irriflessivo,
che non lascio bere a nessuno. Potremmo
davvero esserci tutti senza nient’altro
– solo nutrirsi ogni tanto – umane necessità.
Cosa riempirebbe allora le coscienze,
quale commento, quante penose idee.




Come scende la vita queste scale
come si sottrae all’incontro, come
affonda dentro la ferita cava, pulsante
quando terminato il giorno guaisce
il cane disperato col seme in eccesso.
Vorrei che fossi tu, vorrei
che nulla restasse inviolato,
bere quanto trabocca ed infine
ubriachi, prossimi alla partenza
con le code che salutano e le lingue
asciutte, noi educati viaggiatori noi
bestie turbate, incontaminate.




Perché i giorni dobbiamo viverli tutti
anche quelli in cui ci si chiede
cosa ci faccio qui, adesso?
 
e poi una sera finalmente la senti
anche tu questa sete
che ha martoriato i campi:
ora puoi berne, puoi bere
stanotte ogni nostro
imperativo senza temere
l’aceto, davvero ogni cosa
secondo natura, tesa
alla vertigine carezzata
dalla benedetta salvezza.
 
 
 
 
 
 
Era reale sovrapporre l’andata al ritorno,
cambiare loro il nome, mutarne l’emozione
in cosa nuova, una barricata tenuta alta
dalle piccole povere mancanze
che non so evitare. Mi muovo assistendo
ad uno spettacolo che mi inquieta,
saturo tessuti troppo tesi per non lacerarsi:
lo faccio per capire se davvero
un momento è uguale ad un altro, se
si può uscire dal guscio molle dei mesi,
masticandolo fino a saziarsi. Intanto
ti guardo fare gesti banali, rincorrere
la gloria, carezzare la bellezza, inchinarti
al suo idolo sfuggente: non so decidere
un amore, un dolore a te destinato; io
cerco solo una recinzione, un pascolo
sterminato, un istante terminale in cui
capire tutto prima di sparire.
 
 
 
 
 
 
A mani nude gli studiosi scavano le fondamenta
piegati sul fossato: dicono vi siano tracce
di una civiltà antichissima, credono a quanto c’è
dietro la superficie, pure se la pioggia impasta la pietra,
lì sporca di melma, complica l’esercizio della ricostruzione.
È triste questo nostro bisogno d’ordine,
lo strappare la radice e non trovare il seme:
è un franare senza poter bloccare la discesa,
precipitare a brandelli privi del termine di caduta.
 
 
 
 
 
 
Quel poco che rimarrà saranno
le lanterne del centro storico
spente al mattino, circondate
dalla distanza. Scale, marciapiedi
in salita separano i pomeriggi assonnati
dalle fughe nervose del corso principale,
dalle risa nei caffè, dalle commesse
che attendono annoiate. Ognuna
di queste porte non ti vedrà entrare
e invece io busso, poi esco almeno
una volta al mese per rivederti
dentro gli archi umidi, nel rombo
continuo del sifone, dentro centinaia
di carte in accumulo, lasciate lì come me
nell’indifferenza, per aver desiderato
troppo, con troppa poca prudenza.
 
 
 
 
 
 
Ascolti disteso il respiro del vento
finché non ritorna l’insonnia
del giorno e l’indifferenza del gallo,
del cacciatore smarrito al tramonto.
Andremo via così senza cose,
non ci muoveremo di un passo:
ogni tua rosa sta già per marcire.
 
 
 
 
 
 
Quando avremo terminato di contare
le partenze saremo come formiche
in processione, così superbe piccole
da una tana all’altra continuamente in esilio:
da qui ti scriverò un milione di lettere,
chiederò cosa portarti per farti contento,
perché sul tuo grembo mi spoglio
sognando l’infanzia, riallaccio la vena
fermandone ai tralci il sostegno,
ne impedisco l’uscita dal suo stato di grazia.
 
 
 
 
 
 
Ormai non interessa più a nessuno
questa commedia, la ripetizione
dei singhiozzi, la filastrocca noiosa,
lo spreco di immagini, cibo, acqua:
non fa differenza mettere all’angolo
il nemico oppure salvarlo.
 
Ogni nostro gesto è messaggio
rigato sul vetro, corrotto.
 
 
 
 
 
 
Con i muscoli rotti dall’umido passo
trasciniamo le settimane, pronunciamo
distintamente tre parole sole. Essere
stanco significa soffocare dentro a un letto,
spendere meno sangue possibile per non
replicare il dolore: in questo modo
non ricrescono le voglie, si eradicano
tutti i contagi e in me non resta
che il deserto asettico dove ci siamo
contaminati, in cui siamo stati lasciati.
 
 
 
 
 
 
Possiamo ancora scegliere come invecchiare,
non c’è motivo di pensare ad altro: dove essere
quando il cielo si farà nero, con quale spugna
sfregarci le cosce, i reni, con quale punteruolo
profanare la ferita. Allora saprò dirti quanto
bene ho avuto per te, anima incedibile, per cui
ho lasciato sul tavolo le carte schiantando
la sedia, rinunciando all’inganno del gioco.
 
 
 
 
 
 
Perdonami, sai com’è vivere quando
ti lanciano addosso le cose, una sola
adiacenza pagata con abiti ancora
umidi, con questo spasmo sintetico
assorbito da carta che si scioglie,
che si mangia che si digerisce come
un frutto appena colto nella nebbia
di un giardino
 
tu quale scegli
 
io sono preda dell’interruzione, per me
impiccata al ramo orientale sorretta
la sola impronta indelebile
commestibile era la tua.
 



ELEONORA RIMOLO è nata a Salerno nel 1991 e vive a Nocera Inferiore. Laureata con lode in Lettere Classiche e in Filologia Moderna, è  Dottore di Ricerca in Studi Letterari presso l’Università di Salerno. Collabora con alcune riviste di Italianistica quali Sinestesie, Misure Critiche, Rassegna Italiana. Ha pubblicato un romanzo Amare le parole (Litedition 2013), e quattro raccolte di poesie: Dell’assenza e della presenza (Matisklo 2013), La resa dei giorni (AlterEgo 2015, Primo Premio “Poesia Giovani Europa in versi 2016”) Temeraria gioia (Giuliano Ladolfi Editore 2017, prefazione di Gabriella Sica, Primo Premio “Pascoli- L’ora di Barga”, Finalista “Premio Fogazzaro”, III° classificato “Premio Fiumicino”, II° classificato Premio “Aoros Valerio Castiello”) e  La terra originale (LietoColle, 2018). È vincitrice del Primo Premio “Ossi di Seppia” 2017 (Arma di Taggia) con alcuni testi inediti. È direttore editoriale della rivista letteraria «Atelier OnLine».

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