Paolo Sommaiolo | Antonin Artaud: Il teatro come mezzo per rifare la vita

Abstracts Una delle prime voci del XX secolo che ha invocato come essenza del teatro l’uomo in azione, nella sua interezza di corpo-mente, è...




Abstracts


Una delle prime voci del XX secolo che ha invocato come essenza del teatro l’uomo in azione, nella sua interezza di corpo-mente, è quella di Antonin Artaud. I suoi scritti riflettono la sua tormentata parabola esistenziale e intellettuale alla ricerca di una verità di pensiero, di parola, del corpo vivo dell’attore. Una ricerca che Artaud conduce con implacabile rigore. In questo breve saggio si metteranno a fuoco gli sviluppi del suo pensiero dal Teatro della crudeltà al teatro per rifare la vita, come esperienza alternativa della vita stessa, perché imprescindibile da ciò che anche nella condizione dell’essere è inalienabile, ovvero il corpo. I rapporti e gli scambi epistolari con Jean Paulhan, direttore della «Nouvelle Revue Française», con il poeta e saggista André Rolland de Renéville, con lo scrittore e filosofo André Daumal, con il pittore e disegnatore Alexandre de Salzmann, avranno un ruolo chiave in questo percorso. Saranno il tramite per accostarsi alle filosofie e alle religioni orientali, per scoprire alcune tecniche della ginnastica euritmica di Émile Jacques-Dalcroze, per conoscere i principi fondamentali dell’insegnamento di Georges Ivanovic Gurdjieff. Stimolato dai loro percorsi di ricerca, nell’ultimo tratto del suo itinerario, Artaud si allontanerà sempre più dall’idea di un teatro da rifare. La sua attenzione si sposterà oltre i confini della sudditanza alla rappresentazione, per convogliare teatro e vita nell’ultima indifferibile impresa: il corpo da rifare.

One of the first voices of the twentieth century that invoked the essence of the theater as the man in action, in his entirety as body-mind, is that of Antonin Artaud. His writings reflect his tormented existential and intellectual parable in search of a truth of thought, of words, of the living body of the actor. A research that Artaud conducts with implacable rigor. In this short essay the developments of his thought will be brought into focus from the Theater of Cruelty to the theater to recreate life, as an alternative experience of life itself, because it is essential to what is inalienable even in the condition of being, or the body. Relations and correspondence with Jean Paulhan, director of the «Nouvelle Revue Française», with the poet and essayist André Rolland de Renéville, with the writer and philosopher André Daumal, with the painter and designer Alexandre de Salzmann, will play a key role in this development They will provide the means to approach Eastern philosophies and religions, to discover some of the techniques of Eurythemic gymnastics by Émile Jacques-Dalcroze, to learn the basic principles of the teaching of Georges Ivanovic Gurdjieff. Inspired by their work and research, in the last stretch of his itinerary, Artaud will move further away from the idea of a theater that needs to be redone. His attention will move beyond the boundaries of the slavery imposed by the representation, to merge theater and life in the most audacious of the enterprises: to reinvent the Body.

Parole chiave: Artaud, teatro, attore, azione, crudeltà, vita, corpo, theatre, actor, action, cruelty, life, body




Quando vivo non mi sento vivere. Ma quando recito allora mi sento esistere.1


Una delle prime voci del XX secolo che ha invocato come essenza del teatro l’uomo in azione, nella sua interezza di corpo-mente, è quella di Antonin Artaud. I suoi scritti riflettono la sua tormentata parabola esistenziale e intellettuale alla ricerca di una verità di pensiero, di parola, del corpo vivo dell’attore. Una ricerca, tesa a sondare le ragioni profonde dell’essere, che Artaud conduce con implacabile rigore. La stessa intensità e lo stesso rigore con cui ha attraversato il teatro della prima metà del Novecento, affermando la necessità di un atto scenico che, purificato dalle scorie di un ingannevole quanto effimero magnetismo visivo, potesse innescare, tra l’attore e lo spettatore, un vortice di esperienza intimamente condivisa. Artaud più di ogni altro ha saputo vedere nel teatro, come dice Mirella Schino, «un mezzo per costruire una esperienza che trascende la sfera estetica e approda a un’esperienza fondamentale, di vita, capace di cambiare in profondità chi la fa e chi la osserva».2

All’età di diciannove anni Artaud accusa i primi dolori di origine nervosa che lo costringeranno a ripetuti soggiorni in case di cura. Nel marzo del 1920, su consiglio dei medici, si trasferisce a Parigi, per dedicarsi al teatro. Poco dopo il suo arrivo nella capitale francese, Aurélien Lugné-Poe, capofila del teatro simbolista, lo ingaggia nel suo Théâtre de l’Oeuvre, dove Artaud partecipa ad alcuni allestimenti come comparsa. A settembre entra a far parte della compagnia di Charles Dullin, allievo di Jacques Copeau, che ha da poco aperto un teatro laboratorio, l’Atelier, dove Artaud recita per alcuni anni (dal 1921 al 1923).3 Nell’articolo, L’Atelier de Charles Dullin, apparso nel ’21 su un numero speciale della rivista «Action», Artaud elogia i metodi di lavoro impiegati da Dullin, e in particolare il ricorso all’improvvisazione «che costringe l’attore a pensare gli impulsi dell’anima invece di rappresentarli».4 

Artaud all’epoca già immaginava un teatro come «spettacolo dell’anima», senza mediazioni e senza condizionamenti da parte del corpo. Nell’articolo Le Théâtre de l’Atelier, apparso nell’ottobre del 1922 sulla rivista «La Criée» di Marsiglia scriveva:

Sentire, vivere, pensare realmente, questo dev’essere lo scopo del vero attore. I Russi praticano da gran tempo un certo metodo d’improvvisazione che spinge l’attore a lavorare con la propria sensibilità profonda […]. L’intonazione è trovata dall’interno, spinta all’esterno dall’impulso ardente del sentimento, e non ottenuta per imitazione.5

Nell’articolo L’évolution du décor, che esce sulla rivista «Comoedia» il 19 aprile 1924, Artaud formula una prima esposizione delle sue idee sulla messa in scena e la scenografia teatrale:

Bisogna ignorare la messa in scena, il teatro. Tutti i grandi drammaturghi, i drammaturghi tipo, hanno pensato al di fuori del teatro. […] Bisognerebbe […] che il lato strettamente spettacolare dello spettacolo fosse soppresso. Ci si recherebbe non tanto per vedere, ma per partecipare.6

Il teatro non deve ridursi alla fascinazione, effimera e ingannevole dell’occhio, ma deve ritrovare il senso delle origini. La «riteatralizzazione», auspicata da personalità teatrali del calibro di Adolphe Appia e Gordon Craig, nasconde l’insidia, a parere di Artaud, di ripristinare l’antica sudditanza ai vecchi codici della scena:

Quanti hanno sin qui preteso di riferirsi unicamente a dei testi sono pervenuti a sbarazzarsi, forse, dello stucchevole mimetismo di certe tradizioni, ma non hanno saputo astrarsi dal teatro e dalla loro personale comprensione. […] Ogni opera è da loro pensata in funzione del teatro. Riteatralizzare il teatro. È questo il nuovo grido mostruoso. Ma il teatro, occorre rituffarlo nella vita.7

Qui Artaud immagina la cerimonia teatrale come una «transustanziazione della vita». La scena deve tornare a essere «il sacro perimetro in cui la realtà profonda, con le sue potenze vivificatrici, viene innescata».8 All’inizio del 1924, l’idea di una via mistica si è radicalizzata e precisata in Artaud, rispetto alle prime posizioni teoriche del 1921.

Ma noi manchiamo di misticità. Che cos’è un regista che non è abituato a guardare prima di tutto in se stesso e che non saprebbe, se necessario, astrarsi e liberarsi da sé? Questo rigore è indispensabile. Non è che a forza di purificazione e di oblio che potremo ritrovare la purezza delle nostre reazioni iniziali e imparare a ridare a ogni gesto di teatro il suo indispensabile senso umano.9

Compito del regista dovrà essere quello di liberarsi dall’asservimento all’autore, dalla sottomissione al testo, per poi «attendere e fissare le immagini che nasceranno [in lui] nude, naturali, eccessive, e andare fino al fondo di queste immagini».10 Perché, osserva Artioli, «piegarsi alle leggi della scena è opporre un limite allo sguardo “vero” che non è l’ocularità soddisfatta di sé, lusingata dalle forme conchiuse, ma l’apertura dell’“occhio interiore” in cui ogni traccia dell’individualità si affievola sino a sparire».11 «Occhio interiore», sentimento, comunione mistica: sono questi i postulati della concezione scenica del primo Artaud. «Un teatro», come dice Ruffini, «non per accogliere lo spettacolo e nutrirsene ma un teatro per esorcizzare lo spettacolo».12 Già da un po’ di tempo aveva conosciuto André Breton, Louis Aragon, Robert Desnos, Roger Vitrac ed era entrato a far parte del movimento surrealista, collaborando ai primi numeri della rivista del gruppo, «La Révolution Surréaliste». Nel settembre del 1926 Artaud elabora, insieme a Roger Vitrac e Robert Aron, un nuovo progetto teatrale: il Théâtre Alfred Jarry. A novembre esce sulle pagine della «Nouvelle Revue Française»13 una sintesi per frammenti del manifesto Le Théâtre Alfred Jarry in cui Artaud riprende le sue idee già esposte nell’Evolution du décor.

Il teatro è la cosa più impossibile da salvare al mondo. Un’arte interamente fondata su un potere di illusione, che essa è incapace di suscitare, non ha ormai che da scomparire. […] L’importante è questo: la formazione di una realtà, l’irruzione inedita di un mondo. Il teatro deve darci questo mondo effimero, ma vero, questo mondo tangente al reale. Sarà questo stesso mondo o altrimenti faremo a meno del teatro.14

Artaud ha in mente un teatro per suscitare, attraverso il potere poetico della parola, l’irruzione in scena del nucleo segreto della vita. Bisogna sbarazzarsi di ogni illusionismo artificioso, retaggio di quella teatralità ottocentesca che ha inondato la scena di falsi simulacri della realtà. Per Artaud non si può ridurre il teatro a inutile e vuoto strumento d’intrattenimento, occorre ridargli linfa vitale e rendere ogni spettacolo un’esperienza intensamente vissuta, unica e irripetibile, come gli accadimenti della vita. Bisogna scuotere la coscienza dello spettatore da quel torpore che l’ha reso un passivo voyeur di falsi estetismi.

[Lo spettatore] sarà scosso e sconvolto dal dinamismo interno dello spettacolo, e questo dinamismo sarà in diretta relazione con le angosce e con le preoccupazioni di tutta la sua vita […]. Lo spettatore che viene da noi sa di venire a sottoporsi a una operazione vera, dove sono in gioco non solo il suo spirito ma i suoi sensi e la sua carne. Andrà a teatro come va dal chirurgo o dal dentista. Con lo stesso stato d’animo, pensando evidentemente di non morire per questo, ma che è una cosa grave e che non ne uscirà integro.15

Lo spettatore andrà a teatro con la stessa tensione che avverte quando deve sottoporsi a un intervento chirurgico, conscio di non affrontare tale esperienza indenne. Nelle otto pagine del programma Théâtre Alfred Jarry – Ie année – Saison 1926-1927, pubblicato subito dopo per presentare il loro nuovo progetto teatrale, Artaud e Vitrac denunciano:

Le convenzioni teatrali hanno fatto il loro tempo […]. Abbiamo bisogno che lo spettacolo a cui assistiamo sia unico e che ci dia l’impressione di essere imprevisto e irripetibile come qualsiasi atto della vita […]. Ecco l’angoscia umana in cui lo spettatore dovrà trovarsi uscendo dal nostro teatro.16

Il 23 novembre Artaud partecipa a una tempestosa riunione di surrealisti nella quale è messo sotto accusa e, di fatto, espulso dal gruppo, anche in ragione della dichiarata avversione di Breton verso la creazione teatrale. Tra la fine del 1926 e l’inizio del 1927, le iniziative programmate per la presentazione pubblica del Théâtre Alfred Jarry s’intrecciano con i postumi del distacco dai surrealisti. Nel frattempo Artaud scrive il Manifeste pour un théâtre avorté per rivendicare che a teatro «quanto c’è di oscuro nello spirito, di occultato, di irrivelato, si manifesti in una specie di proiezione materiale, reale».17 La scena ci deve investire con le sue visioni, attirandoci in una rete di sensazioni come quelle che si condensano nella fascinazione delle immagini oniriche.

Non un gesto di teatro che non porti dietro di sé tutta la fatalità della vita e le misteriose incidenze dei sogni. […] Tutto ciò che appartiene alla illeggibilità e alla fascinazione magnetica dei sogni […] lo vogliamo vedere irradiare e trionfare sulla scena, pronti a perdere noi stessi e a esporci al ridicolo di un colossale fallimento.18

In più di due anni – dalla fine del ’26 all’inizio del ’29 – il Théâtre Alfred Jarry produce quattro spettacoli, allestendo otto rappresentazioni. In una circolare del luglio 1929, Le Théâtre Alfred Jarry, Artaud si affretterà a puntualizzare:

Ciò che vogliamo è […] ridar vita a quella vecchia idea, in fondo mai attuata, dello spettacolo integrale. Senza, beninteso, confondere il teatro con la musica, la pantomima o la danza, né soprattutto con la letteratura. In un tempo in cui la sostituzione delle parole alle immagini, sotto forma di cinema parlante, allontana il pubblico scelto da un’arte divenuta ibrida è impossibile che questa forma di spettacolo totale non susciti un rinnovato interesse.19

Nel marzo del 1930, nell’opuscolo Le Théâtre Alfred Jarry et l’hostilité publique,20 Artaud rivendica ancora l’esigenza di uno spettacolo integrale e comincia a maturare la sua idea di un “Teatro della Crudeltà”.21 Nell’estate del 1931, all’Esposizione Coloniale di Parigi, assiste a una rappresentazione di Teatro Balinese, un evento che darà una svolta alla sua elaborazione teorica sul teatro.22 «Più che fonte di tecniche», nota Ruffini, l’Oriente diventa per Artaud «la patria d’origine del corpo vivo in azione».23 Si accentua la sua avversione nei confronti del teatro psicologico e si rafforza la sua convinzione che sia giunto il momento di contrapporre, alla priorità che l’Occidente attribuisce alla parola, la sapienza gestuale ancora viva e autentica nella tradizione orientale. Artaud, guardando lo spettacolo di teatro-danza balinese, resta impressionato dal ritmo del movimento d’insieme, creato dalle diverse parti del corpo dei danzatori ma coordinato in un’orchestra di gesti privi d’individualità. In quelle evoluzioni, che agli occhi di normali spettatori sono soltanto corpi esotici di danzatori in scena, Artaud intravede «la coscienza della immensa forza del potenziale di uno spettacolo come un corpo unico, un insieme di geroglifici viventi, che prescinde dai limiti dell’individuo umano».24

Artaud coglie la forza dell’azione diretta dei “segni” nella profusione di sensi che il teatro balinese è capace di sprigionare. Un linguaggio la cui efficacia si basa, come fa notare Monique Borie, «sulla possibilità di creare una rete di corrispondenze, come nella combinazione di un linguaggio ideografico».25 Rievocando l’esibizione dei danzatori balinesi Artaud ne parla in termini così entusiastici al punto che, nel suo scritto Sur le théâtre balinais, non esita a definirla «la più bella manifestazione di teatro puro che ci sia stato dato di assistere».26 E subito dopo, a sostegno di questa sua affermazione, aggiunge che l’aspetto più interessante e sconcertante [dello spettacolo] per noi europei è l’ammirevole intellettualità che si sente crepitare ovunque nella trama fitta e sottile dei gesti, nelle modulazioni infinitamente variate della voce, in quella pioggia sonora che pare stillare da un’immensa foresta, e nell’intreccio del pari sonoro dei movimenti. Non esiste transizione fra gesto, grido e suono: tutto si fonde quasi passasse attraverso bizzarri canali scavati all’interno dello spirito!27

Qualche tempo dopo, durante una visita al Louvre, Artaud resta particolarmente colpito da un dipinto di Luca di Leida, Le figlie di Lot (1509). La raffigurazione contenuta nel quadro gli suggerisce un’idea di teatro superiore, d’ispirazione esoterica. Il 10 dicembre 1931 Artaud è invitato alla Sorbonne a tenere la conferenza dal titolo La mise en scène et la métaphysique.28 Jean Paulhan, il direttore della «NRF», ne pubblica il testo nel numero di febbraio del 1932, come proclama del teatro nel quale la rivista si riconosceva. È la prima visione lucida e assoluta di un “teatro metafisico”, per esaltare la «poesia dello spazio», fatta di gesti, intonazioni, suoni, grida: cioè di tutti quegli elementi espressivi che concorrono alla messa in scena, svincolandosi dalla sudditanza alla parola.29

Sostengo che la scena è un luogo fisico e concreto che esige di essere riempito e di poter parlare il suo linguaggio concreto. Sostengo che questo linguaggio concreto, destinato ai sensi e indipendente dalla parola, deve anzitutto soddisfare i sensi, che esiste una poesia per i sensi come ne esiste una per il linguaggio, […]. Si può così sostituire alla poesia del linguaggio una poesia dello spazio, che si svilupperà appunto nel campo che non appartiene rigorosamente alle parole.30

A rinfocolare l’attenzione verso l’Oriente e l’interesse per la metafisica saranno anche gli scambi personali e alcune letture che Artaud coltiva in quel periodo. Figure come Jean Paulhan della «NRF», Alexandre de Salzmann, pittore, disegnatore e artista di luci teatrali, René Guénon, filosofo e cultore di dottrine esoteriche, il poeta e saggista André Rolland de Renéville, lo scrittore e filosofo André Daumal, avranno un peso non trascurabile sugli sviluppi del suo pensiero teatrale nel corso degli anni Trenta. Con Salzmann Artaud aveva stretto rapporti già dal 1925.31 Agli inizi degli anni Venti Salzmann si era trasferito a Parigi, dopo un periodo di formazione giovanile in ambito pittorico, presso l’Accademia delle Belle Arti di Monaco, e una feconda esperienza di collaborazione con Adolphe Appia ed Émile Jaques-Dalcroze per gli spettacoli delle Schulfeste, o Fetes Scolaires a Hellerau (nei dintorni di Dresda), nei quali aveva sperimentato un suo rivoluzionario sistema nel modo di progettare l’illuminazione a teatro.32 Famoso già in tutta Europa come «maître de l’art des lumières», nel dicembre del 1921 sarà il geniale artefice delle luci in una memorabile messa in scena di Pelléas et Mélisande di Maurice Maeterlinck, per la regia di Aurélien Lugné-Poe, al Théâtre des Champs-Élysées di Parigi, diretto all’epoca da Jacques Hébertot.33 Artaud, che aveva assistito alla rappresentazione e ne era rimasto particolarmente impressionato, una sera incontra Salzmann in un caffè e si congratula con lui per come avesse congegnato le luci dello spettacolo. I due s’incamminano insieme nella notte scambiandosi idee sul teatro. Diversi anni dopo, nel corso di una delle sue conferenze messicane, Le théâtre de l’après-guerre à Paris, Artaud rievoca l’incontro di quella «terribile notte di febbraio» con questo stravagante personaggio: «un uomo misterioso, che abitava camere prive di mobilio e che venne chiamato in seguito “il derviscio”, perché pretendeva di aver passato molti anni della sua vita tra i dervisci del Caucaso».34 Artaud ricorda di aver parlato a Salzmann di una lingua perduta che, a suo parere, poteva essere ritrovata grazie al teatro. Salzmann gli risponde che «la poesia, la poesia vera, e non la poesia dei poeti, serba il segreto di quella lingua, e che certe danze sacre si avvicinano al segreto di questa poesia più di qualunque altra lingua».35 Nonostante alcune imprecisioni riscontrabili nel racconto di Artaud, messe in evidenza da Ruffini,36 la relazione, quasi fraterna, che s’instaura tra i due, diventa l’occasione per entrare in contatto con René Daumal.37 Artaud e Daumal scoprono di avere in comune l’interesse per la metafisica orientale, alla quale entrambi si erano accostati attraverso le tesi e gli scritti di René Guénon che nel 1925 aveva tenuto, proprio su questo tema, una conferenza alla Sorbonne. Daumal gli aveva dedicato un encomio, Encore sur les livres de René Guénon, nel 1929, nel numero 2 del «Grand Jeu». Nella conferenza La messa in scena e la metafisica, tenuta nel dicembre del 1931, Artaud cita Guénon per confutare l’opinione diffusa, nel mondo occidentale, che la metafisica sia un’idea morta e inefficace:

Ciò deriva, come dice René Guénon, «dal nostro modo puramente Occidentale, dal nostro modo antipoetico e mutilo di considerare i principî (avulsi dal possente ed energico stato spirituale che ad essi corrisponde)». Nel teatro Orientale di tipo metafisico, diversamente che in quello Occidentale, di tipo psicologico, tutto l’insieme compatto di gesti, di segni, di atteggiamenti e di sonorità, che costituisce il linguaggio dello spettacolo e della scena […] porta necessariamente il pensiero ad assumere atteggiamenti profondi che potrebbero essere definiti metafisica in atto.38

L’idea di metafisica concepita da Artaud non è supinamente allineata alle posizioni teoriche di Guénon. L’ostinata polemica condotta da quest’ultimo contro ogni prospettiva vitalista o irrazionalista, e considerata antitetica alla “vera” conoscenza, rimane «del tutto estranea al pensiero di Artaud, per il quale l’inconscio, il sensibile, la “carne”, rappresentano strumenti fondamentali di rivelazione del divino».39 Guénon non attribuisce alcuna valenza all’intuizione bergsonaiana, considerandola, al contrario, la dissoluzione di ogni possibilità di conoscenza. Artaud invece intravede nel concetto di durata, di matrice bergsoniana, l’intuizione di un principio dinamico del pensiero.40 La durata implica spazio e movimento, due dimensioni che Artaud, nella conferenza tenuta alla Sorbonne, giudica essenziali nella funzione spettacolare della regia teatrale per esaltare il potere metafisico della rappresentazione:

Le possibilità di spettacolo del teatro appartengono esclusivamente alla regia considerata come linguaggio dello spazio e del movimento. Ora, trarre le estreme conseguenze poetiche dai mezzi di spettacolo, significa farne la metafisica […]. E fare la metafisica del linguaggio, dei gesti, degli atteggiamenti, della scenografia, della musica dal punto di vista teatrale, significa, mi sembra, considerarli in rapporto a tutti i modi in cui possono entrare in contatto col tempo e col movimento.41

Le impressioni che Artaud riceve assistendo allo spettacolo di danze balinesi e che trae alla vista del quadro di Luca di Leida avranno un peso rilevante nel successivo itinerario verso il Teatro della Crudeltà. Nel panorama degli studi artaudiani pubblicati in Italia, vale la pena di ricordare che nello “Speciale Artaud” di trentasette pagine, apparso sul mensile dello spettacolo «Il Dramma» del maggio 1979, alcuni interventi già mettevano in risalto questa relazione.42 Limitandosi a citarne qualcuno, Jacqueline Risset propone di ricercare i concetti-chiave del teatro della crudeltà (crudeltà, doppio, paura, identità tra concreto e astratto) nel testo su Bali:

Lo spettacolo dell’Esposizione coloniale, suggerendo nuove immagini e nuovi concetti, imprime una svolta decisiva al pensiero di Artaud sul teatro, svolta che si rifletterà in tutti gli scritti del periodo, attraverso espressioni quali «intellettualità nuova e profonda», «affioramento di un conflitto perpetuo», e attraverso nozioni quali «magia come attività» o di «forma» e «forza» in opposizione – tutte nozioni ed espressioni destinate a rivestire un ruolo di primo piano nella forma del teatro della crudeltà.43

Grazia Marchianò, studiosa di estetica e orientalista, dal canto suo mette l’accento sulle mutazioni e lo sconvolgimento del sistema di riferimenti che influenza il nostro plesso corpo-psiche, quando a seguito dell’impatto con una “cultura altra” si esce da un mondo fondato su una dimensione ordinaria dell’esperienza. Ed è quello che accadrà ad Artaud, quando si confronterà con il mondo orientale dei danzatori balinesi:

Già prima del 1931 aveva dentro di sé i germi di una esplosione, di una esplosione metafisica, senza aver peraltro trovato le forme nelle quali convogliare questa esperienza. Quando incontra il teatro balinese, che è un teatro metafisico in quanto è una presentazione visuale, acustica e coreutica di archetipi, ecco, la sua mente esplode. Egli […] comincia a lanciare dei manifesti di condanna della cultura occidentale, mentre cerca di fare sue le forme del teatro di Bali e di formulare una sua idea del teatro.44

E sempre in questa prospettiva di analisi possiamo citare anche Carlo Pasi quando afferma che «l’aspirazione artaudiana a una sintesi superiore del fisico e dello spirituale», stimolata dall’attrazione per le culture orientali, «incontrava la sua perfetta realizzazione nelle magiche orchestrazioni del teatro balinese».45

Ancor prima dell’incontro con le forme spettacolari balinesi e con la raffigurazione pittorica delle figlie di Lot, Artaud aveva scritto una lettera a Daumal, datata 14 luglio 1931, ma lasciata probabilmente in forma di bozza, che testimonia il rapporto di scambio intellettuale maturato tra i due in quel periodo.46 In apertura Artaud esorta il destinatario della missiva a redigere, di comune accordo, una specie di manifesto, per spiegare i presupposti e gli obiettivi del teatro che personalmente intende realizzare. Poi continua ad argomentare le sue riflessioni sulla concorrenza che il cinema è in grado di opporre, come nuova forma d’intrattenimento popolare, a un teatro sempre più assorbito dal testo e incapace di sprigionare la forza del suo linguaggio espressivo nella potenza dell’azione scenica. Accanto a questa visione critica e desolante, Artaud non nega l’esistenza di esperimenti che abbiano, nei primi decenni del XX secolo, introdotto segnali di rinnovamento nella pratica teatrale «per restituire all’arte della messa in scena e allo spettacolo il lustro che avevano perduto».47 Qui Artaud si riferisce in particolar modo all’«armonia visiva» e al «senso del colore» che i Balletti Russi hanno portato in scena, alle «necessità dinamiche e plastiche del movimento» degli spettacoli di Piscator, alla «concezione architettonica della scena» proposta da Mejerchol’d e Appia, per sfruttare il palcoscenico non solo in profondità ma anche in altezza, applicando un dispositivo prospettico «per masse e volumi e non più per superfici piane e in trompe-l’œil».48 In chiusura Artaud esprime a Daumal la sua avversione per «la vecchia concezione classica», così la definisce, del «teatro di costume» e del «teatro di carattere», di stampo psicologico, un teatro «morto in partenza, essenzialmente antieroico».49 Questa denuncia anticipa quella più energica offensiva contro il teatro «pervertito» d’Occidente che ricorrerà negli scritti successivi. L’idea di redigere insieme un manifesto teatrale non trova concreta attuazione, perché probabilmente la lettera a Daumal non sarà mai spedita.     

Nel mese di luglio del 1932 il progetto del “Teatro della Nouvelle Revue Française”, che Paulhan aveva fortemente incoraggiato, si può considerare ormai archiviato. Del resto Artaud non ne era stato mai troppo convinto e soprattutto non gli andava a genio che il marchio della rivista, ancorché di prestigio, potesse espropriargli la paternità di quella personale visione. Nel corso dello stesso mese Artaud inizia la redazione di un manifesto per presentare il suo nuovo progetto teatrale. Le théâtre de la cruauté (Premier manifeste) uscirà nell’ottobre del ’32, sul numero 229 della «NRF».50 Ma è nel fitto carteggio, che precede e segue la pubblicazione del manifesto, che Artaud si affanna a chiarire ai suoi interlocutori, Jean Paulhan e André Rolland de Renéville, il senso della parola “crudeltà”:

Questa crudeltà non è fatta né di sadismo, né di sangue, almeno non in modo esclusivo. […] La parola «crudeltà» deve essere intesa in senso lato e non nell’accezione fisica e rapace che abitualmente le si attribuisce. […] Dal punto di vista dello spirito, crudeltà significa rigore, applicazione e decisione implacabile, determinazione irreversibile, assoluta. […] È la coscienza a conferire all’esercizio di qualsiasi atto della vita un colore di sangue, una nota crudele.51

Mi sembra […] che la creazione e la stessa vita possano essere definite soltanto da una sorte di rigore, e quindi da una fondamentale crudeltà, che conduce a qualunque costo le cose alla loro ineluttabile conclusione.52

Il progetto sul Teatro della Crudeltà è strettamente connesso ai rapporti avuti da Artaud con André Rolland de Renéville e René Daumal. Daumal, folgorato dall’incontro con l’«ex-derviscio», Alexandre de Salzmann, si era accostato fin dal 1930 all’insegnamento di Georges Ivanovic Gurdjieff, che aveva creato nel 1922 a Fontainebleau, nelle vicinanze di Parigi, un «Istituto per lo sviluppo armonico dell’uomo». Salzmann ne faceva parte fin dall’anno di fondazione e nel dicembre del 1923, il 13 in anteprima e dal 16 per sette repliche, aveva curato la presentazione di una dimostrazione, in forma di spettacolo, di esercizi e «danze», con accompagnamento musicale, per rendere pubbliche le attività che si svolgevano presso l’«Istituto».53 Attraverso le pratiche e le idee propugnate da Gurdjieff, per il raggiungimento di una piena e autentica coscienza del proprio essere, Daumal era diventato un convinto sostenitore di quella che lui chiamava metafisica sperimentale. La conoscenza – affermava Daumal – per essere una forma di conoscenza totale, deve essere «attiva e concreta», quindi fondarsi sull’esperienza della materialità corporea. Corpo, concretezza, totalità, e «lunga e paziente fatica»: sono questi i segmenti dell’itinerario da percorrere per

accedere alla conoscenza nella vita e nell’arte54. Quando Daumal intraprende questo percorso, Artaud ha già maturato un’idea di teatro come atto che non si esaurisca nella dimensione estetica della resa spettacolare. «Nel teatro [Artaud] non cerca più un risultato estetico o comunicativo», osserva Ruffini, «cerca un cambiamento dell’essere, una conoscenza “attiva e concreta” incarnata nel corpo dell’attore».55 Novembre ’32 e marzo ’33 segnano l’inizio e la fine della stesura del Théâtre de la cruauté (Second manifeste).56 Una parte di questo testo coincide con il progetto drammatico La Conquête du Mexique, che Artaud contava di rappresentare per il Teatro della Crudeltà. In questa seconda versione l’intento di Artaud è scuotere, con la forza espressiva dei segni impiegati, l’intero spazio fisico dove si compie l’evento, abbattendo le vecchie convenzioni della canonica separazione tra scena e platea:

Lo spettacolo, grazie alla soppressione della scena, si estenderà alla sala intera del teatro e, partito dal suolo, si arrampicherà sui muri mediante leggere passerelle, avvolgerà fisicamente lo spettatore, lo terrà in un’atmosfera ininterrotta di luce, di immagini, di movimenti e di rumori. La scena sarà costituita dai personaggi stessi, cresciuti sino alle dimensioni di giganteschi fantocci, e da paesaggi di luci mobili, agenti su oggetti e maschere in continuo spostamento. […] In altre parole, fra vita e teatro verrà abolito ogni taglio netto ed ogni soluzione di continuità.57

Qui Artaud indica gli aspetti concretamente realizzabili del suo rinnovamento teatrale, senza dilatare oltre misura la parte teorica sulle aspirazioni ideali del suo progetto. Nel mese di maggio mette in cantiere Le Théâtre et la cruauté,58 forse concepito per essere un terzo manifesto, nel quale Artaud riafferma la necessità di uno spettacolo totale, luogo di confluenza e contaminazione di generi espressivi diversi, in grado di investire la globalità dello spettatore attraverso una deflagrante azione di stimoli sensoriali. Verso la fine dell’anno, in una serie di scambi epistolari, Daumal parla ad Artaud di Emile Jaques-Dalcroze e delle impressioni ricevute assistendo a una dimostrazione del suo metodo di lavoro che attraverso il movimento e la musica sviluppa nell’uomo «la padronanza dei nervi e dei muscoli, l’attenzione, la memoria, la percezione rapida e simultanea delle melodie, ritmi, accordi musicali, movimenti visivi o di altro tipo», rendendolo «un degno abitante del mondo, dotato di uno strumento fisico docile e meraviglioso».59 Daumal è convinto che attraverso l’euritmica di Dalcroze si possa raggiungere una padronanza fisica straordinaria, con effetti benefici per la vita stessa. Artaud sembra essere in linea con Dalcroze, soprattutto nell’intento di restituire al teatro il suo fine sacro, ma la conoscenza del metodo, dal suo punto di vista, può essere solo lo strumento pratico per raggiungerlo. In questo clima Artaud pensa all’attore della Crudeltà, l’«atleta del cuore», come ama definirlo in Un athlétisme affectif, testo apparso per la prima volta nel volume Le Théâtre et son Double.60

Bisogna ammettere nell’attore l’esistenza di una sorta di muscolatura affettiva corrispondente alla localizzazione fisica dei sentimenti. L’attore è simile a un vero e proprio atleta fisico, ma con questo sorprendente correttivo: all’organismo atletico corrisponde in lui un organismo affettivo, parallelo all’altro, quasi il suo doppio benché non operante sullo stesso piano. L’attore è un atleta del cuore.61

Sarà sempre il «regista» a governare l’azione messa in scena sul palcoscenico della crudeltà. Nella sua funzione di maestro di cerimonie sacre a lui è demandato il compito di orchestrare la forza delle potenze magiche che dovranno scatenarsi in scena. All’attore, detentore del soffio e manovratore della sfera affettiva, è affidato il compito di svelare il ritmo segreto delle passioni, trasmettendole per contagio all’assemblea degli spettatori.62 Per entrare in contatto con le proprie passioni l’attore deve saper applicare le tecniche della respirazione perché «la conoscenza della respirazione illumina il colore dell’anima».63 Ciò che affiora dalla sfera delle passioni si manifesta nelle reazioni muscolari del corpo, scandite dal ritmo della respirazione. Governare il respiro diventa un’azione fondamentale per esercitare un controllo diretto sull’«organismo affettivo». L’attore può agire, in questo modo, sullo spettatore come «un vero guaritore».64 Ritrovare la «scienza delle forze», questo è il compito che si deve dare l’attore, e il punto centrale delle idee contenute nel saggio Un athlétisme affectif, che chiude la raccolta di scritti Le Théâtre et son Double. In piena consonanza con Daumal, precisa Ruffini:

L’attore da cui parte la prospettiva di Artaud e quello a cui arriva la prospettiva di Daumal: sono entrambi l’uomo (totale) in azione, che crea la realtà. Il teatro da cui parte la prospettiva di Artaud e quello a cui arriva quella di Daumal: sono tutti e due la vita vera, che si esprime nel rapporto con la trascendenza.65

Dicevamo che attraverso gli scambi di lettere con Daumal, Artaud entra in contatto con i fondamenti del pensiero di Gurdjieff. La scuola per lo “Sviluppo armonico dell’uomo” proponeva, ai suoi allievi, un percorso d’insegnamenti teorici e di tecniche psico-fisiche volte alla conoscenza dei meccanismi della “macchina umana”. Svincolandosi dalla meccanicità in cui è imbrigliato il suo sistema psicomotorio, l’individuo si libera dalle costrizioni dell’io e può cogliere il nucleo profondo della sua essenza vitale.66 Per tentare una sperimentazione delle sue idee sul teatro Artaud compone I Cenci, tragedia in quattro atti e dieci quadri tratta da Shelley e Stendhal.67 Dopo una serie di traversie di ogni genere (raccolta di fondi, scelta del teatro, prove) lo spettacolo va in scena il 6 maggio 1935 al Théâtre des Folies Wagram. Artaud, oltre a curare la regia, interpretava il ruolo del protagonista (il conte Cenci). Diciassette repliche, stroncate da recensioni severe. Nonostante l’impegno profuso, la rappresentazione de I Cenci fu un fallimento. In una lettera a Paulhan del 15 maggio, Artaud ammetteva l’insuccesso, confessava di avere lui stesso recitato male, ma addebitava le cause alla cattiva riuscita dell’allestimento.68 Dal 4 al 7 giugno 1935 va in scena, al Théâtre de l’Atelier di Parigi, Autour d’une mère, pantomima di Jean-Louis Barrault, tratta dal romanzo As I Lay Dying (Tandis que j’agonise) di William Faulkner. Nella recensione che pubblica nel numero di luglio della «NRF», Artaud espone una riflessione ancora più incisiva sul teatro della Crudeltà. Anche Daumal scriverà una recensione su entrambi gli spettacoli, Les Cenci di Artaud e Autour d’une mère, di Barrault, individuando in essi «due gradi della realizzazione integrale del teatro».69 I due spettacoli diventano gli elementi di un trittico incompleto: l’elemento mancante è indicato da Daumal come la testa del teatro. Quando il teatro sarà in grado di colmare questa mancanza allora potrà dimostrare di essere un teatro dai piedi alla testa: ma la conquista della testa sarà anche una proiezione al di fuori del teatro stesso. Dice Daumal:

il teatro è azione prima di essere spettacolo; azione sacra, cioè di conoscenza reale, di presa di contatto con l’istante presente […]. Conoscenza e comunione, è questo che era all’inizio il teatro; e lo sarà ogni volta che l’attore agirà integralmente, senza alcuna limitazione mentale o nervosa o muscolare.70

Solo quando la coscienza, l’unica in grado di trasformare il movimento in azione, penetra nelle tre componenti fondamentali dell’essere umano che corrispondono, nella visione alchemica, al corpo e all’anima (le sedi dell’emozione e del sentimento) e allo spirito (la sede dell’intelletto e della mente), si raggiunge l’autenticità dell’essere. La rappresentazione de I Cenci, secondo Daumal, è un esempio di teatro che ha conquistato la sfera del sentimento; con Autour d’une mère il teatro ha dato voce alla sfera del corpo.

Mostrando la “testa” avrebbe raggiunto la pienezza della propria essenza. La testa del teatro è il compimento della coscienza per Daumal. Artaud guarda la faccenda dal lato dell’azione: la testa del teatro, per lui, è lo spazio ultimo in cui l’azione diventa «azione efficace», i gesti superano il livello in cui «sono talmente belli da assumere un significato simbolico»71 per trasformarsi direttamente in simboli. E a conclusione della nota critica sulla messa in scena di Autour d’une mère, Artaud non esita a riconoscere nella pantomima rappresentata da Barrault un’operazione che «è teatro», ma allo stesso tempo osserva:

Manca tuttavia, a questo spettacolo quello che del teatro è la testa, voglio dire il dramma profondo, il mistero più profondo delle anime, il lacerante conflitto delle anime in cui il gesto è semplicemente un percorso.72

Il dialogo tra Artaud e Daumal si interrompe all’indomani delle due rappresentazioni dei Cenci e di Autour d’une mère. Artaud intraprende agli inizi del 1936 un viaggio in Messico, alla ricerca di un’esperienza decisiva sulle tracce delle tribù indigene dedite all’uso e al culto religioso del peyotl; rimpatriato a novembre si applica allo studio di scienze esoteriche, occupandosi di astrologia e del linguaggio dei tarocchi. Convinto di possedere un bastone, appartenuto secondo lui a San Patrizio, dotato di un particolare potere magico-profetico, s’imbarca nell’estate del 1937 per l’Irlanda, dove soggiorna alcuni mesi. Le vicende di questo viaggio restano ancora in parte incerte. Tornato in Francia, già minato da squilibri di natura nervosa, affronta l’ultimo decennio della sua esistenza in preda all’aggravarsi dei suoi disturbi psicofisici che lo costringeranno a continui internamenti in manicomio, fino agli ultimi giorni della sua esistenza. Tutto il travaglio mentale degli anni Quaranta è segnato dall’alienante ossessione di essere vittima di uno spossessamento, inflitto dal “potere dell’Altro”. Anche gli scritti di questo periodo restituiscono il tormento di questa lacerante condizione. La disperata riconquista della corporeità negata avviene attraverso la violenza di un linguaggio sempre più dilaniato, contorto, delirante. Daumal muore di tubercolosi nel ’44, dopo anni di vagabondaggio e isolamento. Artaud abbandona la vita nel ’48. La loro inquieta ma rigorosa avventura di pensiero lascerà ai posteri una feconda eredità, per continuare a immaginare un “Teatro della Crudeltà” come mezzo per rifare la vita.

Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”
Dipartimento di Studi Letterari e Linguistici dell’Europa




da: Sinestesie, n. 28 - a. IX - Gennaio 2020. pp. 36-46 



1.- A. ARTAUD, Le Théâtre de Séraphin, in ID., Œuvres complètes, vol. IV, Gallimard, Paris 1978, p. 145 (d’ora in poi OC seguito dalla numerazione del volume, la data di pubblicazione, indicata solo alla prima citazione, e le pagine di riferimento). Tr. it. Il Teatro di Séraphin, in ARTAUD, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 1978, p. 261 (d’ora in poi TD e l’indicazione di pagina). Il IV volume delle opere complete di Artaud contiene le parti che compongono Le Théâtre et son double, apparso in una prima edizione per Gallimard, nella collezione «Métamorphose», nel febbraio del 1938. Le citazioni tratte dagli scritti di Artaud saranno riportate nel testo in traduzione italiana; in nota saranno indicati i riferimenti all’opera originale in francese. L’apparizione nel 2011 degli ultimi due tomi dei Cahiers d’Ivry, a cura di É. GROSSMAN, completa la serie dei 28 tomi delle Œuvres complètes di Artaud pubblicate da Gallimard in varie ristampe dal 1956 al 2011.

2.- M. SCHINO, Con gli occhi di Artaud, in ID., La nascita della regia teatrale, Editori Laterza, Roma-Bari 2003, p. 131. In proposito la Schino rinvia ai testi di F. RUFFINI, I teatri di Artaud. Crudeltà, corpo-mente, il Mulino, Bologna 1996 e di M. DE MARINIS, La danza alla rovescia di Artaud. Il secondo Teatro della Crudeltà (1945-1948), I quaderni del battello ebbro, Porretta Terme 1999 (poi Bulzoni, Roma 2006), perché le loro analisi mettono bene in luce come la conoscenza delle tecniche teatrali, nel pensiero di Artaud, sia una «via di esplorazione del corpo-mente» e uno strumento per il «lavoro su di sé», cfr. ivi, n. 43, p. 197.

3.- Cfr. G. NERI, Nota bio-bibliografica, in TD, pp. XXXIX-XL e AA.VV., Antonin Artaud, 5 Continents Editions, Milano 2005, pp. 142-143. Catalogo della mostra “Artaud - volti/labirinti”, Milano, Padiglione d’Arte Contemporanea, 6 dicembre 2005 – 12 febbraio 2006.

4.- ARTAUD, L’Atelier de Charles Dullin, in OC II, 1980, p. 134. Tr. it. L’Atelier di Charles Dullin, in TD, p. 105. 

5.- ARTAUD, Le Théâtre de l’Atelier, in OC II, p. 139. Tr. it. Il Teatro dell’Atelier, in TD, p. 108.

6.- ARTAUD, L’Evolution du décor, in OC II, pp. 9 e 12. Tr. it. in U. ARTIOLI, Teatro e corpo glorioso, Feltrinelli, Milano 1978, p. 70 (d’ora in poi TCG).

7.- Ivi, pp. 9-10. Tr. it. in TCG, pp. 71-72. 8 TCG, p. 72.

9.- ARTAUD, L’Evolution du décor, in OC II, p. 10. Tr. it. in TCG, p. 73. 

10.- Ivi, p. 11. Tr. it. in TCG, p. 73.

11.- TCG, p. 73.

12.- RUFFINI, I teatri di Artaud. Crudeltà, corpo-mente, cit., p. 7. 13 D’ora in poi «NRF».

14.- ARTAUD, Le Théâtre Alfred Jarry, in OC II, p. 16. Tr. it. Il Teatro Alfred Jarry, in TD, p. 6.

15.- Ivi, p. 17. Tr. it. in TD, p. 7.

16.- Programma Théâtre Alfred Jarry – Ie année – Saison 1926-1927, in OC II, p. 18. Tr. it. Teatro Alfred Jarry. Primo anno – Stagione 1926-27, in TD, p. 8.

17.- ARTAUD, Manifeste pour un théâtre avorté, in OC II, p. 23. Tr. it. Manifesto per un teatro abortito, in TD, p. 13.

18.- Ivi, pp. 23-24. Tr. it. in TD, p. 13.

19.- Le Théâtre Alfred Jarry. 1929, in OC II, p. 35. Tr. it. Il Teatro Alfred Jarry.1929, in TD, p. 21.

20.- A. ARTAUD, R. VITRAC, Le Théâtre Alfred Jarry et l’hostilité publique, in OC II, pp. 37-66. Tr. it. Il Teatro Alfred Jarry e l’ostilità pubblica, in TD, pp. 23-55.

21.- Per una cronistoria del Théâtre Alfred Jarry cfr. RUFFINI, I teatri di Artaud. Crudeltà, corpo-mente, cit., pp. 47-58.

22.- Vedi in proposito gli scritti di Artaud in OC IV, Sur le théâtre balinais (pp. 51-65) e Théâtre oriental et théâtre occidental (pp. 66-71). Tr. it. in TD, pp. 170-184 e pp. 185-190. Sur le théâtre balinais corrisponde, nella prima parte, all’articolo Le théâtre balinais à l’Exposition coloniale, apparso sul numero di ottobre della «NRF», mentre Théâtre oriental et théâtre occidental è stato scritto nel 1935 e poi inserito nella raccolta Le Théâtre et son double. Un’attenta ricostruzione dell’evento nell’ambito dell’Esposizione Coloniale è in N. SAVARESE, Paris-Artaud-Bali. Antonin Artaud vede il teatro balinese all’Esposizione Coloniale di Parigi del 1931, Textus, L’Aquila 1997.

23.- RUFFINI, I teatri di Artaud. Crudeltà, corpo-mente, cit., p. 89. 

24.- SCHINO, La nascita della regia teatrale, cit., p. 109.

25.- M. BORIE, Antonin Artaud. Il teatro e il ritorno alle origini, Nuova Alfa Editoriale, Bologna 1994, p.143. 26 ARTAUD, Sur le théâtre balinais, in OC IV, p. 55. Tr. it. Sul teatro balinese, in TD, p. 174.

27.- Ibidem.

28.- ARTAUD, La mise en scène et la métaphysique, in OC IV, 1978, pp. 32-45. Tr. it. La messa in scena e la metafisica, in TD, pp. 151-164.

29.- Cfr. RUFFINI, I teatri di Artaud. Crudeltà, corpo-mente, cit., pp. 94-97.

30.- ARTAUD, La mise en scène et la métaphysique, in OC IV, pp. 36-37. Tr. it. La messa in scena e la metafisica, in TD, pp. 155-156.

31.- Sull’influenza di Salzmann nel teatro del XX secolo vedi B. NICOLESCU (a cura di), René Daumal et l’enseignement de Gurdjieff, Le bois d’Orion, L’Isle sur la Sorgue 2015 e i due volumi di C. DI DONATO, L’invisibile reso visibile. Alexandre Salzmann (1874-1934). Vita, opera e ricerca tra teatro, luce e movimento, Aracne, Roma 2013 e Alexandre Salzmann e la scena del XX secolo, Carocci, Roma 2015.

32.- A Hellerau, A. de Salzmann si era fatto apprezzare per la geniale inventiva come creatore del dispositivo di illuminazione scenica per l’Orphée et Eurydice di Gluck, nel 1913, e per L’annonce faite à Marie di Claudel, nel 1914. Cfr. DI DONATO, Secondo dossier Salzamann. «Pelléas et Mélisande» al Théâtre des Champs-Élysées (1921), in «Teatro e Storia», a. XX, vol. 27, 2006, p. 200.

33.- Per un’accurata e documentata ricostruzione della messa in scena vedi DI DONATO, Secondo dossier Salzmann, cit.

34.- ARTAUD, Le théâtre de l’après-guerre à Paris, in Messages révolutionnaires, OC VIII, 1980, p.181. Tr. it. in RUFFINI, Il «Teatro di Séraphin» di Antonin Artaud. (La bella fatica del racconto), in «Teatro e Storia», a. XXV, vol. 32, 2011, p. 74. I testi messicani di Artaud si possono leggere nei volumi VIII e IX delle Oeuvres complètes, rispettivamente nelle sezioni Messages révolutionnaires e Les Tarahumara.

35.- OC VIII, p. 182. Tr. it. in RUFFINI, Il «Teatro di Séraphin» di Antonin Artaud. (La bella fatica del racconto), cit., p. 75.

36.- Cfr. Ivi, pp.75-76.

37.- Cfr. A. SANTACREU, Une rencontre fatidique pour le théâtre, «Cahiers Artaud», n. 3, Meurcourt, Édition Les Cahiers, octobre 2017. Poi in «Contrelittérature», 11 janvier 2018, sito web: http://www.contrelitterature.com/archive/2018/01/11/artaud-daumal-6016038.html (data u. c. 16/10/2019).

38.- ARTAUD, La mise en scène et la métaphysique, in OC IV, p. 43. Tr. it. La messa in scena e la metafisica, in TD, pp. 161-162.

39.- TCG, p. 101, n. 4.

40.- Ibidem.

41.- ARTAUD, La mise en scène et la métaphysique, in OC IV, p. 44. Tr. it. La messa in scena e la metafisica, in TD, pp. 162-163.

42.- “Speciale Artaud”, in «Il Dramma», LV, n. 5, maggio 1979, pp. 5-42. Le pagine finali del dossier contengono un’ampia e articolata rassegna bibliografica, a cura di Marina Galletti, che fornisce utili riferimenti sulle edizioni delle opere di Artaud, sui numeri speciali di riviste, sugli studi critici in volume o in periodici comparsi in Francia e in Italia tra gli anni Venti e la fine degli anni Settanta.

43.- J. RISSET, Pensiero nascente, ivi, pp. 13-14. Jacqueline Risset, poetessa e saggista, è stata docente di Letteratura francese all’Università di Roma.

44.- G. MARCHIANÒ, Artaud e l’iniziazione dell’oriente, ivi, p. 16.

45.- C. PASI, Verso un teatro “crudele”, ivi, p. 18. Pasi dedicherà diversi saggi critici al pensiero e alle opere di Artaud tra i quali si segnalano Artaud attore, Bollati Boringhieri, Torino 2000 e il più recente L’altra scena. Scritti su Antonin Artaud, Logisma, Firenze 2013.

46.- ARTAUD, Lettre à Daumal, 14 luglio 1931, in OC III, pp. 214-217. Il testo, con traduzione, è riportato nell’Appendice del volume di RUFFINI, I teatri di Artaud. Crudeltà, corpo-mente, cit., pp. 203-208.

47.- OC III, p. 216. Tr. it. in RUFFINI, I teatri di Artaud. Crudeltà, corpo-mente, cit., p. 205. 48 Ibidem.

49 Ibidem.

50.- Vedi ARTAUD, Le théâtre de la cruauté (Premier manifeste), in OC IV, pp. 86-96. Tr. it. Il teatro della crudeltà. Primo manifesto, in TD, pp. 204-215.

51.- Lettre à Jean Paulhan, 13 settembre 1932, in ARTAUD, Lettres sur la cruauté, in OC IV, pp. 97-98. Tr. it. Lettere sulla crudeltà, in TD, p. 216.

52.-ARTAUD, Lettre à A. Rolland de Renéville, 16 novembre 1932, in OC IV, p. 99. Tr. it. in TD, pp. 218.

53.- Cfr. RUFFINI, Il «Teatro di Séraphin» di Antonin Artaud. (La bella fatica del racconto), cit., p. 76, n. 46.

54.- «Un uomo non può conoscere il corpo umano se non provando il proprio potere sulla propria carne, con una lunga e paziente fatica», R. DAUMAL, Le non-dualisme de Spinoza. Ou la dynamite philosophique, in L’évidence absurde. Essai et notes (1926-1934), a cura di C. Rugafiori, Gallimard, Paris,1972, p. 89. Tr. it. I poteri della parola, Milano, Adelphi 1968, p. 28. La citazione è riportata in RUFFINI, I teatri di Artaud. Crudeltà, corpo-mente, cit., p. 105.

55.- RUFFINI, I teatri di Artaud. Crudeltà, corpo-mente, cit., pp. 105 e 116. Sulla metafisica sperimentale e i rapporti tra Renéville, Daumal e Artaud si rinvia all’articolata disamina contenuta nel volume alle pagine 97-117 e al saggio dello stesso autore Il «Teatro di Séraphin» di Antonin Artaud. (La bella fatica del racconto), cit.

56.- ARTAUD, Le théâtre de la cruauté (Second manifeste), in OC IV, pp. 118-124. Tr. it. Il teatro della crudeltà. Secondo manifesto, in TD, pp. 236-241.

57.- Ivi, in OC IV, pp. 121-122. Tr. it. in TD, p. 239.

58.- ARTAUD, Le Théâtre et la cruauté, in O.C. IV, pp. 82-85. Tr. it. Il teatro e la crudeltà, in TD, pp. 200-203.

59.- DAUMAL, Lettre de Paris, in L’évidence absurde, cit., p. 267. La citazione è riportata in RUFFINI, I teatri di Artaud. Crudeltà, corpo-mente, cit., p. 130.

60.- ARTAUD, Un athlétisme affectif, in OC IV, pp. 125-132 (con l’aggiunta di due note: Les Frères Marx, pp. 133-135 e Autour d’une mère, pp. 135-137). Tr. it. Un’atletica affettiva, TD, pp. 242-249.

61.- OC IV, p. 125. Tr. it. in TD, p. 242.

62.- Cfr. ARTIOLI, TCG, p. 157.

63.- OC IV, p. 128. Tr. it. in TD, p. 245.

64.- Cfr. RUFFINI, I teatri di Artaud. Crudeltà, corpo-mente, cit., p. 134. 65 Ivi, p. 135.

66.- Ivi, pp. 136-138.

67.- ARTAUD, Les Cenci, in OC IV, pp. 147-210. Tr. it. I cenci: tragedia in quattro atti e dieci quadri da Shelley a Stendhal, a cura di G. Marchi, Einaudi, Torino 1987.

68.- ARTAUD, Lettre à Pauhlan, 15 maggio 1935, in OC V, pp. 188-189, citata in RUFFINI, I teatri di Artaud. Crudeltà, corpo-mente, cit., p. 149.

69.- RUFFINI, I teatri di Artaud. Crudeltà, corpo-mente, cit., p. 152.

70.- La citazione della recensione di Daumal è in A. e O. VIRMAUX, Artaud vivant, Nouvelles Editions Oswald, Paris 1980, p. 198 e riportata in RUFFINI, I teatri di Artaud. Crudeltà, corpo-mente, cit., p. 153.

71.- ARTAUD, Autour d’une mère, in OC IV, p. 137. Tr. it. in TD, p. 254. 72 OC IV, p. 137. Tr. it. in TD, p. 254.


PAOLO SOMMAIOLO (1959) Laurea in Lingue e Letterature Straniere Moderne, Istituto Universitario Orientale di Napoli, 1990. Dottorato di Ricerca (1995) in Storia del teatro moderno e contemporaneo, Università degli Studi di Salerno, 1991-1994. Borsa post dottorato, Istituto Universitario Orientale di Napoli, 1996-1998. Ricercatore confermato (2003) in Discipline dello spettacolo presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” e docente di Storia del teatro moderno e contemporaneo. Principali mansioni e responsabilità Docenza; responsabile di ricerche scientifiche di Ateneo; componente del Progetto di Ricerca “Acting Archives. Archivio Internazionale dei trattati di recitazione”; coordinatore dell’Assegno di Ricerca “Un patrimonio culturale contemporaneo da salvaguardare: la produzione spettacolare dei Teatri Uniti di Napoli. Creazione di un archivio digitale”; membro del collegio docenti de dottorato in Storia del teatro moderno e contemporaneo; membro della commissione “Passaggi e trasferimenti da altri corsi di laurea del CdL in Lingue, Letterature e Culture dell’Europa e delle Americhe (2012-2014) e del CdL in Mediazione Linguistica e Culturale (2015-2016). Pubblicazioni: Teatro e performance art nell’esperienza artistica di Marina Abramović, in C. Maria Laudando (a cura di), Reti performative. Letteratura, arti, teatro, nuovi media, Trento, Tangram Edizioni Scientifiche, 2015; Arringa per Raffaele Viviani, in Roberto D’Avascio e Gianmarco Cesario a cura di, Teatro Match. Il teatro come non l’avete mai letto, Napoli, Iemme Edizioni, 2015.

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