Annamaria Sapienza | Tramonto e riabilitazione di un genere. Autobiografie di attori del varietà

Abstract Intorno agli anni Trenta del Novecento cominciano a moltiplicarsi gli scritti autobiografici da parte di attori che hanno vissuto l...




Abstract


Intorno agli anni Trenta del Novecento cominciano a moltiplicarsi gli scritti autobiografici da parte di attori che hanno vissuto la stagione del teatro di varietà. Queste memorie costituiscono preziosi documenti per la ricostruzione di un’importante percorso dello spettacolo in un’ottica esperienziale, empirica, dalla parte dell’attore, che riporta la visione personale di una pratica scenica per sua natura sfuggente e inafferrabile. Il saggio prende in esame le autobiografie di Raffaele Viviani, Ettore Petrolini, Nicola Maldacea e Leopoldo Fregoli, protagonisti degli anni più fulgidi del varietà orientatisi poi verso nuove espressioni, secondo l’evoluzione del gusto dettato dai tempi e dall’inclinazione individuale. Si tratta di racconti che affiancano le vicende private a significativi dati di natura storica riguardanti i repertori, gli interpreti, gli impresari e gli spazi di rappresentazione legati al varietà sul territorio nazionale. Ma più di ogni altra cosa l’esercizio della scrittura autobiografica di questi artisti trasmette, e quindi storicizza, uno spaccato teatrale la cui sorte sembra dirigersi verso l’oblio. In tal senso, il tentativo di legittimare uno spettacolo a torto definito “minore” procede parallelamente alla volontà di risarcire la prassi operativa da una abituale sudditanza alla forma letteraria.


Around 1930 we find autobiographic writings produced by actors who lived the season of the theatre of variety. Memories which are precious documents to rebuild an important kind of show in an empirical vision, from the actor side, bringing his personal vision of a stage work fleeing and elusive by its nature. The essay aims to analyze the autobiographies of Raffaele Viviani, Ettore Petrolini, Nicola Maldacea and Leopoldo Fregoli, protagonists of the most radiant years of the variety show directed then toward new expressions, according the evolution of the taste by the times and by individual inclination. It is about stories working alongside with private stories to reports concerning historical data, repertoires, actors, impresarios and the spaces of representation in the variety show in Italy. But more than anything else the autobiographies of these artists transmit, and therefore delivers to the history, a theatrical section whose destiny seems to go toward the forgetfulness. In such sense, the attempt to legitimate a show, wrongly defined “minor”, proceeds concurrently to the will to compensate the practice of the stage from an usual subordination to the literary form.


Parole chiave: Autobiografia, Attore, Varietà, Autobiography, Actor, Variety




Le conquiste formali raggiunte dal varietà, nonché dalle espressioni affini o da esso derivanti (music- hall, café-concert, avanspettacolo fino alla più articolata rivista), sono ravvisabili innanzitutto in termini di dissoluzione della supremazia testuale e compresenza di linguaggi espressivi. La struttura policentrica della messinscena che al testo unitario si sostituisce affida, infatti, la sua efficacia alla cura mimetica delle esibizioni, alla stesura di una eterogenea partitura di attrazioni. L’immediatezza, la praticità e la capacità di stabilire un contatto diretto con il pubblico definiscono, altresì, una tipologia rappresentativa che propone istanze innovative nell’articolazione di un sistema di “numeri” concepiti in una successione ritmica capace di formulare una nuova idea di rappresentazione che trova il suo epicentro nella creazione autonoma dell’attore. La mancanza di un copione tradizionale capace di veicolare parola e gestualità subordina il contenuto all’interprete in nome di un’invenzione reiterata, all’interno dello spettacolo, non solo delle modalità ma anche dei tempi della rappresentazione.

Fra tutti gli interpreti coinvolti nello spettacolo di varietà, una posizione particolare è assunta senza dubbio dal comico al quale è richiesta la non comune qualità di concentrare su di sé la forza di uno spettacolo frammentario, costituire il polo di attrazione magnetica per gli spettatori mediante la deformazione grottesca di tipi e situazioni. Gli elementi del comico sono tratti per lo più dall’attenzione verso il presente, ai suoi aspetti ambigui o licenziosi, restituiti sulla scena con una ironia senza artifici. Ma ciò che caratterizza il rapporto dell’attore comico di varietà con la materia presa in prestito dal reale è la capacità, nonché l’esigenza, di trovare volta per volta i modi e le forme per la sua esibizione, concentrando l’estro creativo in una durata effimera che esige un effetto immediato.
     
Quando il governo italiano invoca la sospensione degli intrattenimenti leggeri di tipo teatrale dopo la disfatta di Caporetto nel 1917, il varietà viene accusato di offrire uno spettacolo poco edificante ai reduci dal fronte, costruendo un pregiudizio molto duro da dissolvere negli anni a venire anche in riferimento ad altri contesti. Successivamente, il regime fascista emana provvedimenti che annunciano una serie di sgravi fiscali per le sale convertite alla più moderna realtà del cinematografo. Di conseguenza gli spazi che fino a poco prima hanno ospitato gli intrattenimenti leggeri si trovano di fronte ad un bivio: chiudere i battenti o trasformarsi in cinematografi, considerate anche le agevolazioni offerte dallo stato.
     
Tale situazione genera un’espressione artistica, figlia del varietà tradizionale, comunemente definita col termine di avanspettacolo. Le compagnie di varietà organizzano la propria sopravvivenza sintetizzando le esibizioni in una forma di spettacolo, generalmente comico, che possa intrattenere il pubblico in sala in attesa del film attraverso copioni improvvisati, costumi di bassa qualità, facili doppi sensi nelle battute. Parallelamente, in canali più ufficiali e con finalità più borghesi, si sviluppa il fenomeno della rivista, modello rappresentativo formalizzato nella combinazione di prosa, musica, danza e scenette umoristiche ispirate all’attualità ma più spesso ai tradizionali stereotipi sentimentali, talvolta esotici, unite da un filo conduttore o da una trama unitaria. In entrambi i casi, gli attori formatisi nel grande fenomeno del varietà deviano, con il loro bagaglio di esperienze sul campo, verso le nuove suggestioni spettacolari o, talvolta, verso il teatro di prosa.1 Si tratta di interpreti particolari, capaci di veicolare le conquiste desunte dalle pratiche sceniche maturate negli anni d’oro della stagione trascorsa in espressioni teatrali diversificate.
     
Intorno agli anni Trenta, forse con la crescente consapevolezza di una inevitabile mutazione del gusto, cominciano a moltiplicarsi gli scritti autobiografici da parte di attori reduci da un percorso di teatro di varietà. Nel corso del decennio, infatti, vengono pubblicate interessanti memorie che costituiscono preziosi documenti per una ricostruzione di questa importante parentesi dello spettacolo in un’ottica esperienziale, empirica, dalla parte dell’attore, che riporta la visione personale di una pratica scenica per sua natura sfuggente e inafferrabile. Si tratta di racconti che affiancano le vicende private a significativi dati di natura storica riguardanti i repertori, gli interpreti, gli impresari e gli spazi di rappresentazione legati al varietà sul territorio nazionale. L’indicazione delle tournée compiute in Italia e all’estero, presente in ognuna delle memorie, fornisce inoltre un elemento indispensabile per comprendere il destino professionale delle compagnie. Ma più di ogni altra cosa l’esercizio della scrittura autobiografica consente agli attori di questo periodo di trasmettere, e quindi storicizzare, una stagione teatrale la cui sorte sembra dirigersi verso l’oblio. In tal senso, il tentativo di legittimare uno spettacolo a torto definito “minore” procede parallelamente alla volontà di risarcire la prassi operativa da una abituale sudditanza alla forma letteraria. Per questa ragione il fulcro delle riflessioni degli artisti, nella diversità dei percorsi e degli stili personali, è costituito dal primato incontrastato dell’attore che con il suo talento è autore, interprete e comunicatore della scena.2
     
Le memorie più illustri alle quali si fa riferimento sono, in ordine cronologico di pubblicazione, essenzialmente quattro e appartengono a un nucleo strategico di attori-autori indispensabile per la comprensione di un genere poliedrico e del suo bisogno di tramandarne il ricordo: Dalla vita alle scene di Raffaele Viviani (1928), Modestia a parte di Ettore Petrolini (1932), Memorie di Maldacea di Nicola Maldacea (1933) e Fregoli raccontato da Fregoli (1936) di Leopoldo Fregoli. Pur nella diversità stilistica e strutturale che le caratterizza, ciascuna autobiografia tenta in via preliminare, sebbene con scarsi risultati, di fugare eventuali accuse di egocentrismo. Nei casi di Viviani e Maldacea, in particolare, la stesura si configura come risposta all’invito di sensibili giornalisti che avrebbero sollecitato gli attori a consegnare al pubblico presunti segreti, spiegazioni e dichiarazioni personali sulla propria arte. Se ciò è riscontrabile ad una prima lettura dei testi, non sfugge una certa soddisfazione nel descrivere con meticolosità il proprio percorso artistico accompagnato da una buona dose di solennità. Nondimeno, la scrittura autobiografica degli autori citati dimostra quanto l’esperienza del varietà abbia condizionato in termini di verifica dell’efficacia rappresentativa i successivi sviluppi della carriera dei singoli artisti, costituendo un’interessante prospettiva di analisi.

I quattro autori citati si formano e attraversano con successo gli anni più fulgidi del varietà, praticando inevitabilmente anche le forme del comico, contribuendo a segnarne alcuni parametri. Allo stesso modo, in seguito alle circostanze storiche, ognuno di essi si dirige poi verso nuove espressioni teatrali secondo l’evoluzione del gusto dettato dai tempi e dall’inclinazione individuale. Se, come accennato, la necessità di descrivere con attenzione le modalità rappresentative del periodo trascorso nel varietà appare un tentativo di riabilitazione del proprio apprendistato, è altrettanto evidente quanto l’allontanamento da esso sia posto come una scelta inevitabile dettata da sopraggiunte esigenze espressive e dall’evoluzione storico-culturale, non già da una abiura artistica. Ciò restituisce dignità e spessore al complesso magma spettacolare del teatro di varietà ricusato da una parte dell’intellettualità dopo la prima guerra mondiale, mediante una storicizzazione che avviene attraverso la registrazione della memoria.

Il primo documento, in ordine di pubblicazione, introduce una riflessione aggiuntiva se si considera l’età anagrafica del suo autore rispetto alla data di edizione. Raffaele Viviani, infatti, pubblica il racconto del suo percorso artistico a soli quarant’anni, in tempi piuttosto precoci (e sospetti) per fare un bilancio di carriera, ma senz’altro maturi per uno sguardo lucido verso una pratica teatrale vissuta in pieno e assorbita nella duplice attività di drammaturgo e attore.3 Del resto, nel 1928 Viviani è lontano da oltre un decennio dai palcoscenici del varietà e vanta una folta serie di successi, dagli atti unici alle commedie in tre atti, che sanciscono l’articolato profilo di artista di prosa (con la massiccia compromissione musicale che lo caratterizza) tramandato alla storia.

Tuttavia lo scritto redatto da Viviani non costituisce uno strumento attendibile di ricostruzione storico- artistica dal momento che, come spesso accade in documenti di tale specie, è possibile riscontrare incongruenze cronologiche nella successione degli avvenimenti citati. Imprecisioni, di certo, prive di alcuna premeditazione dovute semmai alla parziale affidabilità del ricordo personale e alla natura frammentaria dei documenti raccolti fino al 1927 (materiali di scena, ritagli di giornale, reperti fotografici).4 Come spiega Antonia Lezza a proposito dell’autobiografia di Viviani:

Scritta nel 1928, risente di quel clima di enfasi e di esaltazione della figura dell’attore autodidatta che racconta di sé tutto ciò che può contribuire a tale esaltazione, omettendo una serie di notizie e particolari che invece ci potrebbero illuminare sulla personalità dell’autore, sulla sua ideologia e formazione ma soprattutto sul rapporto con il teatro coevo. Per questo motivo l’autobiografia di Viviani, come altre autobiografie di attori è un’occasione mancata.5

Dalla vita alle scene rappresenta, tra le quattro, la testimonianza in apparenza più generosa. In realtà mentre presenta molteplici riflessioni personali sull’esperienza teatrale condotta fino a quel momento, non offre particolari notizie sui rapporti con gli autori, gli intellettuali e gli artisti a lui contemporanei, ai quali Viviani guarda comunque con ammirazione.6
     
Come accennato, nell’introduzione Viviani spiega con precisione la genesi e il destino editoriale del testo, giustificando la sua testimonianza come l’adesione ad un invito giunto proprio nel momento in cui affiorava l’esigenza personale di fare chiarezza in via definitiva sulla propria storia artistica, enfatizzando il merito di essere arrivato al successo solo grazie a sé stesso. Ed è così che in un incontro a Firenze nel febbraio del 1928 il giornalista Gigi Michelotti, condirettore de «La Stampa» di Torino, gli propone la stesura di memorie artistiche da pubblicare a puntate sulle pagine del giornale. L’autobiografia appare, nella sua prima versione, in cinque articoli sul quotidiano torinese e solo in seconda battuta viene pubblicata in un volume unico su invito dell’editore bolognese Licinio Cappelli.
     
Nella prima parte del volume Viviani ripercorre le tappe principali della formazione avvenuta nell’ambiente teatrale napoletano, dagli esordi infantili fino alla complessa esperienza nella temperie del varietà. Nella parte restante della biografia l’autore racconta del processo di maturazione come drammaturgo, delle tournée, dei luoghi e, soprattutto, della modalità con la quale costruisce i personaggi delle commedie. I tratti più intensi dello scritto sono senz’altro quelli dedicati a lunghe dissertazioni sull’arte del varietà e sui meccanismi della comunicazione teatrale con il pubblico, definito senza indugi «la belva»:

L’arte del varietà è un’arte specialissima. Chi ve la insegna? L’ambiente stesso, il pubblico, ed il pubblico è il più gran maestro. Si impara da sé, per propria esperienza. Pensate all’intelligenza condensata di un artista di varietà che ha pochi minuti per poter svolgere il suo “numero” e in quei pochi minuti deve convincere. Quando un comico del varietà, dal solo modo di annunziare la prima “cosa” che fa, non riesce a suscitare una risata o a incantare la generale attenzione, va incontro a qualsiasi insuccesso. […] L’arte del varietà perciò è immediatezza e sintetismo; è il pugno nell’occhio ben assestato prima di dare al pubblico il tempo di riflettere. […] La mia arte è germogliata là; là si è plasmata, là ho imparato le infinite magagne del palcoscenico e a conoscere il pubblico, a capire, leggendo nell’aria, fiutando nell’atmosfera, se il pubblico era preso oppure no.

Il varietà si impone come creazione vera, dunque, proprio perché concentrata sull’autenticità dell’arte teatrale insita non già nella materia, ma nella esecuzione di essa in una essenzialità di comunicazione tra spettatore e interprete. L’invenzione che si irradia dal corpo dell’attore è l’unica artefice di quest’arte irripetibile, ancor più, secondo la testimonianza di Viviani, poiché è immersa in una pluralità di contesti spaziali non sempre deputati alla messa in scena:

Il pubblico in genere va prevenuto a teatro, ma al varietà va sfiduciato, specie in materia di uomini […]. Ma il comico giovane fa da costante domatore per domare la belva – il pubblico e fui anch’io un comico giovane, ed ebbi anch’io le mie terribili lotte.7 L’arte del varietà è maggiormente significativa, perché si esplica in un ambiente poco adatto ad ospitarla; ma quando il pubblico del varietà, che va per distrarsi, è invece preso da qualche cosa che l’avvince e lo esalta e lo trascina all’applauso, chi ha ottenuto ciò con la forza viva delle sue qualità artistiche, è veramente un artista.8

La scrittura drammatica di Viviani, che muove dall’assorbimento del materiale sperimentato nella fase giovanile, non obbedisce ad una suggestione letteraria esprimendo invece il bisogno di un interprete, cresciuto nel «popolo degli attori», di creare un originale e personale spazio rappresentativo.9 Nelle pagine dedicate alla descrizione del suo teatro, infatti, ritorna con sistematica precisione l’eredità dei palcoscenici frequentati nel varietà, nella frammentarietà degli elementi, nella immediatezza e materialità delle espressioni.

Non sarà un caso, forse, che il suo più grande amico attore (a suo dire) sia Ettore Petrolini, personalità artistica altrettanto multiforme, tanto diversa nell’arte quanto vicina nell’attenzione a non rinnegare il proprio apprendistato.10 Quando nel 1932 pubblica la sua storia artistica dall’ironico titolo Modestia a parte, Ettore Petrolini ha quarantotto anni. Anche in questo caso sembrerebbe un po’ prematuro tirare le somme della propria carriera, se non fosse per due aspetti da considerare con attenzione: la comparsa di una angina pectoris che insidiosamente annuncia un futuro non longevo e l’urgenza di rispondere ai giudizi di una critica contraddittoria sfruttando il mezzo dell’autobiografia.11 Tra le testimonianze d’attore considerate, quella di Petrolini è senz’altro la più irriverente e diretta, tanto nel linguaggio quanto nei contenuti. Privo di qualsiasi tipo di premessa o di prefazione il testo ribadisce, in più punti nel corso del racconto, la distanza da ogni velleità letteraria e assume una forte valenza creativa nello stile, nella terminologia e nei toni, che conferiscono unicità al documento.
     
Nella prima parte il volume offre una cronaca dettagliata delle esperienze vissute in prima persona a cavallo tra i due secoli, ricca dei luoghi, dei personaggi e della quotidianità tipici della vita teatrale degli artisti del varietà. Petrolini descrive con cruda realtà le asperità che a quell’ambiente riconducono, le difficoltà sociali ed economiche incontrate negli anni difficili che precedono il successo. E forse proprio perché maturate all’interno di un complesso momento di transizione storico-culturale, le conquiste formali del teatro di varietà sono giudicate dall’artista romano più autentiche e radicate nella mappa genetica dei suoi protagonisti, tanto da non poter essere cancellate del tutto con un mutamento di scelta artistica da parte degli attori e di gusto da parte del pubblico.

«La critica autorevole per cinque anni mi ha vituperato e da un decennio mi esalta»: questa l’affermazione dalla quale parte Petrolini per dimostrare quanto enunciato. La “assoluzione” teatrale accordatagli dagli intellettuali in seguito al suo passaggio alla forma più “regolare” della rivista e della commedia, gli appare quasi un errore di valutazione e, soprattutto, poco lusinghiera. Innanzitutto, con sottile ma non trascurabile soddisfazione, l’artista romano ribadisce la sua incursione nella prosa come una ulteriore sperimentazione delle forme del comico. Egli ostenta, in questa che considera una ennesima trasgressione, la incessante volontà di mettere alla berlina ogni forma residua del fenomeno del grande attore, nonché un anacronistico ossequio verso l’opera d’arte scritta. Su questa linea Petrolini si preoccupa di sottolineare quanto l’interiorizzazione dell’esperienza del varietà emerga anche nella sua produzione “regolare”, cosicché la cecità dei recensori si limiterebbe a individuare una presunta e superficiale evoluzione solo nel genere, trascurando una persistente e imprescindibile assimilazione della tecnica.

L’opera d’arte va fecondata, giacché il fatto di essere conservata per iscritto è per essa una imbalsamazione, un artificio, un mezzo qualsiasi. Per renderla leggibile, occorre aggiungerle un carattere che non è il suo. L’opera d’arte scritta è soltanto lo scheletro della rappresentazione. L’attore che meriti questo nome […] deve avere una sensibilità dell’ambiente in cui lavora, un senso speciale che non è altro se non il talento dell’attore. […] Occorre avere un senso esatto di quello che domina il pubblico in quel momento e orientarlo, improvvisamente, a tradimento, verso qualche idea nuova che lo colpisca e lo domini. [...] Come accade per gli effetti di tutte le arti, non ve ne sono di vecchi o di nuovi a teatro; come nelle parole, o nei colori o nella musica, non esistono effetti sorpassati e inefficaci: sono tali soltanto quando sono usati a sproposito e fuori tempo. Diventano convenzionali se sono adoperati a colmare una insufficienza del creatore, poeta o attore che sia.12

Una particolare eredità è ravvisata da Petrolini nei meccanismi di improvvisazione, affinati nel corso del tempo, ma che all’arte del varietà appartengono. Dall’abilità consolidata di gestire al meglio la relazione a sorpresa con il pubblico all’interno dell’alogica successione dei “numeri” deriverebbe la capacità di entrare e uscire dal personaggio nell’opera teatrale unitaria, irrompendo a tratti nella dimensione reale per poi immergersi nuovamente nella finzione: una sorta di incursione strategica nella sala, rivolgendosi fuori ruolo ad uno spettatore, ad un attore, ad un tecnico, spettacolarizzando con tale “straniamento” ogni imprevisto.13

Il pericolo maggiore è che il pubblico preveda tutto mentre si svolge la commedia e che non si aspetti nulla di imprevisto. […] Un caso particolarissimo e spesso interessante di quelle improvvisazioni con cui si riempie lo spazio vuoto è quello che io chiamo “slittamento” (uscire dalla dimensione della finzione scenica passando per un momento in quelle della realtà). Per esempio parlare con il suggeritore, ammonire un ritardatario…14

In queste affermazioni si riconosce una certa modernità nella considerazione del teatro e dei suoi statuti tradizionali. La ricerca costante del non-sense, della sublime idiozia come «unica fuga possibile»,15 rappresenta per Petrolini l’unità di interpretazione dell’arte, per sua natura, irrazionale, incoercibile e impossibile da afferrare con gli strumenti della logica. Quelli che Petrolini individua come necessari sono, in ogni caso, strumenti acquisiti nel magma vigoroso di quel varietà salutato dai futuristi come la forza nuova capace di trasgredire alle regole dell’opera d’arte ottocentesca, di quella forma teatrale tanto pura da fare a meno del grande testo e del coinvolgimento emotivo, di quel teatro che fa del rischio il suo motto ed è tale per mezzo dell’attore.16
     
Particolarmente significativa è l’affermazione di Petrolini secondo la quale, in nome dell’autonomia espressiva dell’interprete e della distanza da ogni condizionamento teatrale tipici del varietà, si assisterebbe sulla scena ad una proiezione autobiografica da parte dell’attore. Il passo sembrerebbe individuare un corto circuito tra materia ed interpretazione tale che, in virtù di una autenticità scenica non mediata dal testo e dallo stile, la rappresentazione si porrebbe come la confessione diretta dell’universo creativo dell’attore attraverso le forme stesse del teatro. Sebbene egli non approfondisca tale assunto, risulta suggestiva l’ipotesi di un rapporto metalinguistico di Petrolini con il suo teatro e le sue memorie, laddove il mezzo scelto per tramandare la sua esperienza di artista della scena annuncerebbe una valenza autobiografica dell’arte rappresentativa nell’atto stesso della sua realizzazione:

L’attore in questi momenti, non fa più che dell’autobiografia. Io do all’autobiografia in teatro un’importanza pari a quella che essa ha nelle arti. Intendo un’autobiografia superiore, un modo di insinuare nell’opera i propri sentimenti e punti di vista, la propria ironia o il proprio patetico, come espressioni caratteristiche di uno stato d’animo individuale in cui tutti si riconoscono.17

Una storia completamente diversa è legata alle Memorie di Maldacea, pubblicate da Nicola Maldacea nel 1933 all’età di sessantatré anni, in un momento nel quale è da tempo lontano dalle scene.18 Il testo non aderisce, come gli altri, alla volontà del suo autore di imprimere nel tempo il racconto della propria esperienza teatrale, ma è il risultato di un’efficace (e salvifica per Maldacea) operazione editoriale.

Inventore indiscusso della “macchietta”, per ragioni anagrafiche Maldacea lega la sua popolarità agli anni specifici del café-chantant, ma non riesce a sopravvivere alle mutate condizioni sociali e artistiche dopo la prima guerra mondiale. Il suo successo è strettamente connesso a figure di un mondo ormai superato all’indomani del conflitto bellico, un universo che non riesce a transitare nelle forme di intrattenimento derivate dal varietà. Mentre i più giovani Viviani e Petrolini applicano una personale invenzione al repertorio del primo Novecento (compreso quello lasciato in eredità dallo stesso Maldacea) reagendo con prodotti originali, il macchiettista napoletano, a partire dalla metà degli anni Venti, si esibisce con fatica nelle piccole piazze delle province dell’Italia meridionale con una modesta compagnia di rivista. Inoltre, nonostante le ingenti somme di denaro incassate negli anni d’oro della carriera, Maldacea affronta la sua maturità in gravi difficoltà economiche causate da un inveterato (ed ereditario) vizio del gioco, nel quale dilapida tutto il suo patrimonio.

Durante una tournée il 27 dicembre del 1930 viene ricoverato all’ospedale di Catania a causa di una grave malattia. L’11 gennaio del 1931 si diffonde la falsa notizia della sua morte nella città siciliana, ma l’equivoco è da lui stesso smentito. La vicenda ridesta l’attenzione del pubblico che lo aveva quasi dimenticato e l’affetto dei vecchi compagni i quali, compresa la situazione, gli inviano cospicue somme di denaro che gli consentono di risollevarsi e fondare, insieme al figlio Eugenio e ai nipoti Franz e Nicolino, una propria compagnia chiamata «La città canora». Sull’eco di tale clamore il quotidiano «Roma» coglie l’occasione per accendere un faro sul passato artistico-teatrale più recente. La redazione decide così di pubblicare a puntate le memorie dettate in passato da Maldacea al giornalista Federigo Verdinois (morto nel 1927) polarizzando l’attenzione sulla macchietta. Nel maggio 1931 Federico Petriccione, scrittore e amico di Maldacea, organizza una mattinata d’onore al teatro Mercadante di Napoli, alla quale accorre tutto il mondo teatrale napoletano, per festeggiare il «redivivo» artista partenopeo.19

Su sollecitazione dello stesso Petriccione, l’editore Ferdinando Bideri (stampatore napoletano celebre soprattutto per le edizioni musicali), forse sull’onda del fascino esercitato dalle autorevoli autobiografie già pubblicate alle quali ci siamo riferiti, propone all’attore partenopeo di riscrivere e pubblicare in un volume unico i frammentari ricordi editi sulle pagine del quotidiano, aggiungendo in appendice un repertorio scelto di macchiette e monologhi. Maldacea non può che accettare e godere, a buon diritto, del suo ultimo momento di gloria.20

Il testo è una sequenza molto precisa delle fasi della carriera di Maldacea, preziosa per la ricchezza dei nomi degli autori e degli interpreti, italiani e stranieri, che interagiscono nei café-chantants partenopei tra Ottocento e Novecento. Le descrizioni restituiscono da un lato un ritratto dettagliato della borghesia locale e dall’altro una dimensione europea della città di Napoli. Il taglio cronachistico utilizzato dall’artista conferisce allo scritto l’aspetto di un diario quasi aneddotico e con poche riflessioni teoriche sulla sua arte. La spiegazione è da ricercarsi nell’assenza di premeditazione dell’autobiografia, composta in tempi non vicini alla sua stampa e senza intenzioni encomiastiche. Non stupisce, quindi, che non siano presenti nelle Memorie di Maldacea opinioni, note polemiche, considerazioni individuali sul teatro, così come incontrati nelle autobiografie fin qui analizzate. Tuttavia il testo aggiunge un interessante tassello al mosaico della storia del varietà, attraverso una narrazione obiettiva, descrittiva e cronologica, condotta dall’interno da uno dei più prestigiosi protagonisti che ci tramanda un mondo teatrale e reale, senza magnificare il proprio ruolo all’interno di esso. Di particolare interesse sono le pagine riservate a Leopoldo Fregoli nelle quali Maldacea sottolinea la straordinaria peculiarità artistica e l’eccezionale unicità del fantasista romano rispetto alla moltitudine degli artisti del tempo. Il macchiettista napoletano insiste sulla specificità della tecnica del trasformismo come pratica segreta, quasi misteriosa, che arricchisce il profilo di espressioni troppo spesso reputate “minori”.

La scrittura autobiografica di Fregoli, che dimostra quanto annunciato da Maldacea, appare diversa da quelle finora trattate. Si tratta probabilmente del documento più regolare e completo, pubblicato all’età di sessantanove anni quale coerente testamento di fine carriera. Il testo, corredato da centotredici immagini esplicative, rappresenta inoltre una testimonianza particolare all’interno dell’autobiografia artistica, mentre ribadisce con toni pacati il valore del teatro di varietà, attribuisce una collocazione più adeguata al fenomeno del trasformismo.

Fregoli raccontato da Fregoli. Le memorie del mago del trasformismo è una meticolosa descrizione delle fasi della sua crescita artistica, condotta con generosa dovizia di particolari sugli ambienti e le tecniche attraversate, che celebra il suo epilogo in un capitolo finale di addio alle scene.21 L’intento di eliminare tutti i luoghi comuni sorti nel tempo intorno all’arte del trasformismo concentra l’attenzione del lettore sulle fasi artigianali della preparazione, sul lavoro che accompagna il talento, sulla cura dei particolari minimi, sull’importanza della costruzione globale del personaggio incarnato, al di là di riduttivi apprezzamenti sulla velocità del travestimento:

La fretta e l’agilità sono sempre state, se non proprio estranee alla meccanica delle mie trasformazioni, certamente secondarie. […] Niente gare di corsa […] niente prodigi e nemmeno abiti congegnati in modo misterioso da permettere travestimenti fulminei: ma soltanto una meticolosa precisione in tutto e in tutti coloro che coadiuvano. Nell’arte c’è sempre un po’ di matematica, e i grandi effetti nove volte su dieci sono ottenuti con mezzi semplici e ben combinati.22

Fra tutte le attrazioni, quella del trasformismo si caratterizza per l’aiuto di una équipe dietro le quinte, ben selezionata e addestrata al silenzio, all’ottimizzazione dei movimenti e dei tempi nella delicata funzione di coordinamento della creazione dell’artista. Per chiarire il “prodigio”, Fregoli consegna al pubblico la prova preziosissima dei suoi trucchi attraverso una serie di brevi filmati proiettati durante o la fine dei suoi spettacoli mediante un apparecchio di proiezione donatogli nel 1897 dai fratelli Lumière, battezzato da lui stesso Fregoligraph.23 Le pellicole mettono a nudo la sequenza preparatoria e la precisione cronometrica delle fasi di trasformazione.24
     
Fregoli esprime sentita gratitudine ai suoi pochi e fidati collaboratori, ma precisa che tale esercizio fisico, pur nell’infallibile lavoro di squadra, non sarebbe stato sufficiente da solo a classificare il travestimento come arte. Infatti, il procedimento così concepito sul piano tecnico si accompagnerebbe ad una organizzazione mentale del lavoro da lui compiuto: il cervello dominerebbe tutte le altre parti del corpo in modo da applicare un riposo parziale e settoriale delle fasce muscolari onde evitare la dispersione dell’energia corporea e garantire il funzionamento della macchina scenica condensata nel corpo dell’attore:

Il problema delle mie metamorfosi sceniche era innanzitutto d’ordine fisiologico. In possesso di una particolarissima forza di penetrazione e di attenzione […] il mio cervello era in grado di lavorare così rapidamente da trovarsi nella condizione di impartire con la massima prontezza qualsiasi ordine ai muscoli, i quali a loro volta producevano, con un minimo di sforzo e in un minimo di tempo, le più svariate trasformazioni nei miei movimenti, nel mio volto, soprattutto nella mia voce. […] Imponevo ai miei muscoli e ai miei nervi di entrare fulmineamente in stato di riposo, così come imponevo loro fulmineamente di entrare in attività.25

In questi termini Fregoli rivendica un ruolo di eccezione all’interno dell’universo poliespressivo del varietà, occupando una posizione privilegiata che assume tratti di raffinata bravura nell’evoluzione binaria di talento e tecnica, nell’applicazione razionale del metodo alla materia incoerente dell’arte.
     
Tra le manifestazioni tipiche degli spettacoli di intrattenimento tra Ottocento e Novecento, il trasformismo è forse quella meno associata ad una vicinanza emotiva con il personaggio abbinato, semmai, ad una incarnazione rapida, fisica ma sbrigativa, di tipi che nulla concedono ad approfondimenti interiori. Ma Fregoli si impegna a confutare anche questo aspetto, riportando i giudizi di una parte della critica particolarmente attenta alla sua arte che gli attribuisce una capacità camaleontica non superficiale:

A me - dicevano i critici – madre natura aveva dato […] il bernoccolo di entrare, di uscire e di rientrare, senza fratture quasi di continuità nei personaggi più disparati, che non erano mai dei fantocci, ma creature vere e vive, ciascheduna con caratteri essenziali ben distinti e con una differenziazione di voce inconfondibile. Mentre l’attore – si aggiunge - non sa mettere in atto […] che quel tanto di penetrazione e di attenzione necessarie per dar vita, in una sera, ad un dato personaggio […] io, invece, dovevo seralmente esplicare una somma di penetrazione e di attenzione per quanti erano i personaggi che sfilavano turbinosamente nelle intricate azioni delle mie bizzarre commedie moltiplicata per la rapidità necessaria ad unificarli e individuarli. Cioè la mia attenzione doveva moltiplicarsi per il tempo necessario all’“uno” per divenire il “molteplice”; all’«identità» per manifestarsi in «diversità», secondo lo svolgimento dell’azione scenica.26

Sebbene ciò non corrisponda ad un processo di immedesimazione, il talento riconosciuto all’arte di Fregoli allontana qualsiasi accusa di meccanico e freddo travestimento, tributando riconoscimenti e onori già negli anni del successo di pubblico. Per questa ragione non appaiono nel testo spunti polemici, livori o velate accuse, ma resta forte l’intenzione di aggiungere un valore particolare al “mestiere”, conferendo al termine eccezionale significato.

Il consenso internazionale di Fregoli è superiore a quello degli autori finora trattati e sancisce una posizione diversa dell’artista rispetto alla scelta artistica di partenza. Mentre nobilita il varietà attraverso i risultati e i consensi unanimi guadagnati grazie alla sua straordinaria abilità, supera di gran lunga il genere stesso inaugurando una espressione nuova che si impone da subito come eccezionale. Ma Fregoli, nonostante la singolarità dell’arte sua, non opera nel puntiglioso memoriale artistico un processo di affrancamento dal varietà che, anzi, è individuato come fucina di tutte le sue esplorazioni espressive e di tutti gli azzardi compiuti nella costruzione di una professionalità quanto mai artigianale.

Le quattro testimonianze analizzate, sebbene con sfalsamenti temporali da considerare caso per caso, chiudono la stagione del varietà, sorgendo in un periodo immediatamente a ridosso del declino del fenomeno. Al di là delle singole differenze, forte e indistinta emerge la volontà di concentrare la riflessione sulla superficialità dei giudizi, quando non direttamente le discriminazioni, di un’intellettualità rea di aver spesso liquidato espressioni vitali del teatro in folkloristiche definizioni, forse all’ombra di forme consolidate dall’ufficialità. Come afferma Franca Angelini: «Gli attori di varietà scrivono spesso anche le loro memorie, per riscattare una carriera che sembra votata all’effimero e consegnare la propria immagine e la propria storia a un immaginario archivio del teatro».27

La pubblicazione delle autobiografie, a distanza di un numero di anni non sufficiente per analizzare il fenomeno in una corretta prospettiva storica da parte degli autori, traduce l’urgenza di rivestire del giusto valore, alla luce di una credibilità ormai conquistata, le proprie radici che affondano nell’ambito di una spettacolarità tanto discussa. Ma ancor più veemente si impone la necessità di riabilitare non tanto un genere teatrale, quanto una pratica attorica, ravvisabile nei suoi passaggi come terreno di coltura capace di concedere, negli anni della formazione, libertà creativa e interpretativa. Uno spazio “sperimentale”, dunque, nello snodo epocale tra Ottocento e Novecento che spinge una fetta di artisti lontano dal testo scritto e dal “grande attore”, in nome di un rischio pattuito con il proprio talento alla ricerca di nuove modalità espressive, immediate e antiaccademiche, che attingono e attraversano linguaggi plurimi. In definitiva la luce puntata sul teatro di varietà attraverso la trasmissione autografa del mestiere tenta di eliminare in prima istanza inesattezze e pregiudizi, ma più di ogni altra cosa rivendica un’autorialità da parte dell’attore sulla materia rappresentata, una paternità interpretativa che si identifica con il prodotto esibito. Una stagione teatrale nella quale, come non mai, l’attore è solo con la sua invenzione, mezzo e fine del teatro.


Università degli Studi di Napoli



1.- In ambito napoletano, oltre ai dilaganti fenomeni dell’avanspettacolo e della rivista, il genere della sceneggiata (la cui nascita è databile tra il 1916 e il 1919) rappresenta un ulteriore bacino di raccolta per gli attori del varietà. Cfr. P. SCIALÒ, La sceneggiata, Guida, Napoli 2003; P. RICCI, La sceneggiata in Aspetti e problemi del Sud, a cura di U. Piscopo e G. D’Elia, Ferraro, Napoli 1977, pp. 122-130; G. FOFI, La sceneggiata uccisa dalla storia e dai neofiti, e M. BELLO e S. DE MATTEIS, La sceneggiata, entrambi in «Scena», II, 1, febbraio 1977.

2.- Cfr. L. RAMO, Da Viviani a Petrolini a Spadaro, in Storia del varietà Garzanti, Milano 1956; S. DE MATTEIS,

M. LOMBARDI, M. SOMARÈ (a cura di), Follie del varietà, Feltrinelli, Milano 1980.

3.- I contributi più numerosi e approfonditi su Raffaele Viviani si devono ad Antonia Lezza: R, VIVIANI, Teatro, a cura di G. Davico Bonino, A. Lezza, P. Scialò, Guida, Napoli 1988, VI voll.; A. LEZZA, P. SCIALÒ, Raffaele Viviani. I capolavori, Guida, Napoli 1988; ID., Raffaele Viviani, l’autore, l’interprete, il cantastorie urbano, Colonnese, Napoli 2000; Viviani, un genio difficile, in Un secolo di teatro napoletano, in «Nord-Sud», XLVII, 5, sett.-ott. 2001; Viviani: per una storia del testo, in Viviani, a cura di M. Andria, Pironti, Napoli 2001; ID., Il punto su Viviani, in Raffaele Viviani, teatro, poesia, musica, a cura di A. Lezza, Pironti, Napoli 2003. Tra gli scritti di altri studiosi su Viviani si segnalano P. SOMMAIOLO, Raffaele Viviani: gli anni del varietà. Strategie d’attore e prospettive sceniche, in «Annali dell’Università degli studi di Napoli “L’Orientale”», XLV, 2, 2003; V. VENTURINI, Viviani, in «Primafila», 65, 2000; ID., Raffaele Viviani. La Compagnia, Napoli e l’Europa, Bulzoni, Roma 2008.

4.- Cfr. SOMMAIOLO, Raffaele Viviani: gli anni del varietà, cit., p. 363.

5.- LEZZA, SCIALÒ, Raffaele Viviani, l’autore, l’interprete, il cantastorie urbano, cit., p. 30.

6.- VIVIANI, Dalla vita alle scene, Cappelli, Bologna 1928. Il testo ha avuto nel tempo altre due edizioni nel 1977 e nel 1988 a cura dell’editore napoletano Guida. L’edizione del 1977, dalla quale sono tratte le citazioni presenti, ha aggiunto i numeri di varietà alla ristampa del 1928.

7.- VIVIANI, Dalla vita alle scene, Guida, Napoli 1977, pp. 57-58.

8.- Ivi, p. 60

9.- Cfr. F. TAVIANI, Uomini di scena uomini di libro, Il Mulino, Bologna 1995.

10.- VIVIANI, Ettore Petrolini. Il mio più caro amico, in «L’Unità», 6 maggio 1950.

11.- E. PETROLINI, Modestia a parte, Cappelli, Bologna 1932. Petrolini è autore di altri scritti autobiografici (Un po’ per celia e un po’ per non morir, Signorelli, Roma 1936; Al mio pubblico, Ceschina, Milano 1937, scritto postumo), ma tali testimonianze non aggiungono aspetti sostanziali in quanto si riferiscono per lo più agli anni della maturità artistica.

12.- Ivi, pp. 131-135.

13.- Cfr. S. SORIANI, Petrolini drammaturgo. Logica antilogica e relativismo del varietà, in «Forum Italicum», 22 settembre 2010; F. ANGELINI, Petrolini e le peripezie della macchietta, Bulzoni, Roma 2006.

14.- PETROLINI, Modestia a parte, cit., pp. 135-136.

15.- Ivi, p. 139.

16.- Cfr. G. LISTA, Petrolini e i futuristi, Taide, Salerno 1981; A. CALÒ, Ettore Petrolini, La Nuova Italia, Scandicci 1989.

17.- Ivi, p. 140.

18.- N. MALDACEA, Memorie di Maldacea. Morte e resurrezione di un lazzaro napoletano, Bideri, Napoli 1931; S. MANCA, Nicola Maldacea: appunti biografici, S. Biondo, Palermo s.d.

19.- Maldacea esorcizza la bizzarra circostanza eseguendo il monologo dal titolo 48, il morto che parla scritto per l’occasione da Edoardo Cinquegrana. Cfr. MALDACEA, Memorie di Maldacea, cit., p. 430.

20.- Nelle prime pagine Maldacea spiega il sottotitolo dato alle sue memorie, Morte e resurrezione di un lazzaro napoletano, indicando come luogo della rinascita proprio l’ospedale di Catania dal quale è partita, in maniera del tutto casuale, la sua resurrezione artistica. Ivi, p. 66.

21.- L. FREGOLI, Fregoli raccontato da Fregoli. Le memorie del mago del trasformismo, prefazione di Mario Corsi, Rizzoli e C. Editori, Milano 1936.

22.- Ivi, p. 263.

23.-  I filmati, realizzati tra il 1898 e il 1903, sono proiettati alla fine dei suoi spettacoli. Molti sono gli esperimenti che Fregoli, in pieno clima futurista, si diverte a compiere proiettando, ad esempio, un filmato al contrario con grande velocità, suscitando un forte effetto nel pubblico. Ivi, p. 217. C.A. SUROWIEC, The Lumière project. The European Film Archives at the Crossroads, Artes Gràfica, Lisbona 1996, p. 197.

24.- L. COLAGRECO, Il cinema negli spettacoli di Leopoldo Fregoli, in «Bianco e Nero», ¾, 2002, pp. 40-67,

25.- Ivi, pp. 265, 268.

26.- Ivi, p. 268.

27.- ANGELINI, Teatro e spettacolo nel primo Novecento, Laterza, Bari 1988, p. 94.



Da: Sinestesie n. 26 - a. VIII - Maggio 2019, pp. 35-43


ANNAMARIA SAPIENZA. Laureata in Lettere Moderne All'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale" con tesi di laurea in Storia del Teatro e dello Spettacolo, ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Storia del Teatro Moderno e Contemporaneo (VII ciclo); successivamente ha vinto una borsa post-dottorato di due anni presso la medesima Università napoletana dove ha poi tenuto l'insegnamento a contratto di Storia del Teatro Italiano. Nel 2001 ha vinto il concorso come ricercatore nel settore disciplinare L-ART/05 presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università Degli Studi di Salerno dove ha insegnato dal 2001 al 2012 Storia del Teatro e dello Spettacolo e Teatro di Animazione. Ha collaborato come esperto esterno a progetti di costruzione dello spettacolo teatrale con L'Accademia di Belle Arti, l'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale" e il Conservatorio S. Pietro a Majella di Napoli. Dal 2002 al 2012 è membro del collegio dei docenti del Dottorato in "Italianistica: La letteratura fra ambiti geografici e interferenze disciplinari". Dal 2007 è membro della Commissione per le Attività Formative e di Ricerca del teatro d'Ateneo dell'Università di Salerno. È stata componente dell'unità locale del Progetto di Rilevante Interesse Nazionale (PRIN) ammesso a Cofinanziamento (2008) dal titolo "Archivio Multimediale degli Attori Italiani (AMAtI)" , coordinato dal prof. S. Ferrone dell'Università degli Studi di Firenze. A partire dal novembre 2011 è stata membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione "Eduardo De Filippo" ed oggi è componente del Comitato Scientifico della medesima. Nel 2013 entra a far parte del Collegio dei Docenti del Dottorato di Ricerca in "Studi letterari, linguisti e storici" dell'Università di Salerno. Dal 2012 è afferente al Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale dove attualmente insegna Discipline dello Spettacolo presso la LM SPE (Scienze dello Spettacolo e della Produzione Multimediale). Nel gennaio 2014 ha conseguito l'Abilitazione Scientifica Nazionale come docente di seconda fascia nel SSD 10/C1 (Teatro, Muisca, Cinema e Televisione) e il 1 ottobre 2018 ha preso servizio come Professore Associato in Discipline dello Spettacolo (L-ART/05). Dal 2015 è docente di Storia del Teatro presso la scuola di recitazione del Teatro Stabile Nazionale di Napoli. Nel 2018 è entrata a far parte del Coordinamento Nazionale di Teatro nelle Carceri.

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