Maria Antonietta Grignani* | «Lapilli» per Zanzotto critico

Gli scritti dei poeti sulla poesia mi interessano sempre; sono la prospettiva del loro lavoro, hanno molta importanza per l’interpretazione ...



Gli scritti dei poeti sulla poesia mi interessano sempre; sono la prospettiva del loro lavoro, hanno molta importanza per l’interpretazione […]. Mettono in luce aspetti, disposizioni, anche tic del poeta che scrive. 
Poeta che scrive sui poeti. È il discorso sulla poesia che alla fine si rivela. Ma si rivelano anche aspetti particolari nel gusto del poeta  che legge.
L. Anceschi, Diari, 10 settembre 1993


Sarebbe un evento davvero nuovo nella storia delle arti che un critico si trasformi in un poeta, sarebbe un capovolgimento delle leggi fisiche, una mostruosità; al contrario tutti i grandi poeti, naturalmente e inevitabilmente, divengono critici. […] Dunque il lettore non si stupirà se io considero il poeta come il migliore dei critici.
C. Baudelaire, Su Wagner1



1. Il cartiglio in cima a queste note per Zanzotto critico parla di «lapilli».  E saranno pietruzze, contributi minimi alla comprensione di un intellettuale e poeta complesso, di mosaico linguistico arduo, di cultura estesa e  di intuizioni profetiche. Ma ‘lapilli’, che significa anche pietre preziose o  frammenti di lava eruttati da un vulcano, valga almeno come omaggio alle  illuminazioni che certe formule sue ci regalano, imprimendosi nella memoria come equivalenti visivi di definizioni critiche. Con Anceschi diarista  direi che, a torto, non è ancora abbastanza riconosciuta la rilevanza di questa forma di giudizio a due facce, un foglio che sul recto spesso contiene  rivelazioni sull’oggetto diverse da quelle che lo strumentario consueto del critico di mestiere mette a giorno, ma sul verso rivela sempre parecchio del  lettore-poeta: «Un saggio critico di un poeta […] ci dice molto sul poeta  autore del saggio». 

Gli esercizi critici di Zanzotto sono difficili da inquadrare, come ha  scritto tempestivamente uno dei migliori conoscitori del poeta e prosatore,  Stefano Dal Bianco, recensendo Aure e disincanti del novecento letterario:  quella di Andrea è una mente inglobante, abitata dal sogno enciclopedico,  la sua postura critica risulta appropriante e affettiva, amica dell’espace du  dedans, senza mai l’impulso a inchiodare l’altro in definizioni da manuale:  «siamo in presenza dell’unico autentico letterato italiano a cui la patente di  letterato stia stretta»2.   

Verrebbe voglia di applicare a lui stesso quanto Zanzotto ha osservato,  in un’intervista del 1980, a proposito degli studi di Giorgio Orelli, un  poeta-critico in cui vige una sensibilità estrema per il ritmo e il timbro, una  «ozonicità» atmosferica, quasi da rarefazione alpina (AD, p. 214):

Trovo in Orelli usata molto spesso la parola «ozono» […]; l’ozono come  atmosfera attivata: bella metafora e immagine poetica che conta in un quadro  critico […] quando egli in critica usa la parola «ozono» in effetti ci riconduce al farsi della sua poesia.

Anche in Zanzotto il concetto critico e la metafora entrano sovente in corto-circuito, ma in una chiave diversa rispetto a Orelli, per il polso leggero sull’analisi testuale e il raccordo invece istituito tra autonomia del fatto  poetico e elementi psicologici o fisici, con suggestioni prelevate dal lessico speciale di molte scienze: tra psiche e soma, tra poesia e avanzamento dei  saperi, tra razionalità del soggetto esplicito e pulsioni subliminali. Un tale allargamento del ventaglio, a partire da un testo o da un insieme di testi fino alla generalità più inclusiva, non prelude infatti ad alcuna forma di definizione da sciamano o di arroganza metodologica, con esibizione di  prove; anzi, al contrario, dà spazio ai denominatori comuni tra testi talvolta lontani e al prevalere delle domande, valorizzate più delle risposte3. 

La ragione di tale mancanza di dimostrativismo viene dalla consapevolezza, più volte dichiarata dall’autore, che la critica dei poeti è sempre in  qualche modo autobiografia, mentre dal canto suo l’autobiografia in qualche misura è inevitabile distorsione. Il piacere di soffermarsi sui testi dei  «padri’ e dei ‘fratelli»− si legge in un’intervista del 1975 − «deriva dall’egocentrismo: anche con la critica si tende a rincorrere la propria ombra nei  mondi altrui»4. D’altra parte, aggiunge due anni dopo: «Parlare di se stessi  comporta sicuramente delle distorsioni, com’è ovvio; noi abbiamo di noi  stessi un’immagine che certamente corrisponde ben poco, quasi zero, alla  nostra realtà»5.

Altri poeti riusciranno a separare meglio il linguaggio critico da quello  creativo. Zanzotto sembra non tenere affatto al doppio regime separato,  mettendo tutto se stesso, inquietudini comprese, nelle ‘fantasie di avvicinamento’, nel moto pendolare tra ‘aure’ e ‘disincanti’ che ravvisa soprattutto  nella letteratura contemporanea e nella sua lotta contro l’entropia della  comunicazione linguistica e contro lo spauracchio dell’insignificanza:

Si è nel labirinto, si è «qui» per tentare di sapere da che parte si entra e si esce o si vola fuori. Per creare una prospettiva. Ciò avviene appunto nella tensione al linguaggio, nella poesia, nell’espressione (in senso etimologico e ultra). È il «sublime» e ridicolo destino (pendolarmente e reversibilmente) di Münchhausen che si toglie dalla palude tirandosi per i capelli. Noi siamoMünchhausen, lo è la realtà; lo siamo forse in quel processo che Freud ha  chiamato sublimazione […]6.

La figura proverbiale del ‘barone’ rinvia al proprio della poesia di Zanzotto e in particolare alla Beltà, dove l’attrazione del ‘sublime’ – secondo la sua etimologia: linea obliqua ascendente – è metaforizzata in «bolle blu-münchhausen | su verso il sublime» (Eva, forma futuri), con ritorno  dell’eroe eponimo nell’ultimo verso di Al mondo: «Su, bello, su. || Su, münchhausen».

Occorrerebbe un lavoro a tappeto per censire gli slittamenti da concetti  e figure del linguaggio poetico (retrostante o in cantiere) alle loro emergenze incardinate nel codice critico: la messe si indovina abbondante e remunerativa. Ma per intanto procediamo per schegge e assaggi, esemplificando qua e là questo tipo di analisi.


2. Nei saggi su Pasolini, quando scopriamo metafore corporee come  «lacerazione e combustione reciproca» tra privato e sociale, oppure «squartamento fisico in atto» o giri crudeli di frase tipo: «cauterizzazioni su carne viva e sempre ripetute, cicatrici su cicatrici, ma anche concrezione e creazione di impensabile, oltre che esplicitazione di ogni peristalsi e di ogni movimento vitale»; quando vediamo all’opera un apparato figurale così straziante, potremmo pensare che sia stato l’oggetto Pasolini − con le sue  contraddizioni, la disperata vitalità e il suo sacrificale offrirsi in olocausto − a produrre un tale linguaggio biologicamente crudo, somatico-patologico7. Invece immagini non dissimili tornano per altri artefici della parola dal  profilo biografico e psicologico meno esposto, che parrebbero richiamare  definizioni meno brucianti.

Per il Sereni di Strumenti umani la maschera dell’eros e di un sublime, entrambi tenuti a fatica sotto chiave, genera nel critico l’idea «dell’autocombustione e della rigenerazione»; più in là la gioia e l’euforia, valori che  davvero si raggrumano a tratti nei versi sereniani, liberano l’immagine di un «denso residuo radioattivo», che forse conferisce eccessiva efficacia alla  formazione ermetica e al mito giovanile di Vittorio, proiettandoli sul poeta  maturo8. Certo per la poesia irta e anomala di Amelia Rosselli è facile il consenso sulla definizione di «grumi materici in cui ceneri e incandescenza  convivevano», di un linguaggio che «si screpolava in distorsioni, lapsus,  “diverticoli” da gravitazione fonica […] con produzione di spigoli e rilievi  scattanti, artigliati mostriciattoli di luce, brividi a raffiche», una formula del tutto pertinente all’equilinguismo anglo-italiano dell’esule e della deracinée Amelia9. Si attagliano del pari alla ‘crudeltà’ anticanonica di Antonin  Artaud metafore di roghi, ustioni, «combustioni e residui». Se così va bene  per i poeti impervi e robusti, fuori squadra o rocciosi, non è ovvia la pertinenza di una metafora imparentata a quelle citate sopra, cioè «strati ben distinti e in cauterizzazione reciproca», per il ricalco delle rovine del ceto terziario-industriale del Male dei creditori di Giovanni Giudici10. E, almeno a mio parere, non lo è nemmeno del tutto il «bruciare la pagina con l’ustione traumatica o la saettante freschezza del vissuto» applicato a Ungaretti, per quanto il poeta venga polarizzato da Zanzotto con argomenti validi tra gli estremi di Mallarmé e di Artaud11. Neppure le espressioni «rasoiati programmi», «emersione-emergenza in cui fatto sismico e fatto  bradisismico, quasi in una mozza orogenesi, si alternano e si sommano», «via fistolare, che fora e minaccia la poesia», reperibili nelle pagine scritte per la raccolta Un’obbedienza di Fortini, sembrano del tutto necessitati  dall’oggetto e calettanti12.


3. Ha dunque ragione Mengaldo quando osserva che i saggi di Zanzotto procedono «ad accumulo, a sinusoide, a sbalzi-sussulti» da un metaforizzato astratto a un metaforizzante concreto, tra definizioni psicologiche e tuffi nel lessico speciale delle scienze applicate, spesso medico o geologico, come l’immagine perseverante della faglia o quella dell’ustione, evidenziate con altre parole scientifiche, cui offro un’aggiunta minima: abraso, abrasione, intoppi tumorali, morule, fratture, sclerosi, trismi ‘spasmi dei muscoli masticatori’, paesaggi defedati, stato crepuscolare (nel senso clinico); assonometrico, geometrie scalene; entropia; decantazione; orogenesi, sismogrammi, cristallizzazione, sagomazioni fossili13. 

L’oscillare tra due poli, individuato nella maggior parte dei colleghi, aggancia a uncino − senza mediare − due termini lontani o in ossimoro, generando parole doppie o coppie dicotomiche unite da trattino, come apocalissi-autorivelazione, materno-artificiale, distruzione-superamento, violenza-dolcezza, narciso-umanità, orrore-candore, corpo-storia o, ancora per Pasolini, gioco-ordalia, maestro-fanciullo14. In via complementare le parole in coppia zampillano l’una dall’altra per richiamo etimologico o paronomastico, quasi che le fonìe e il significante della lingua costituissero un corridoio ermeneutico e quindi un aiuto alla definizione progressiva. Il che, come si sa, è innanzi tutto un fondamento della poetica e della pratica  creativa di Zanzotto, fin dai titoli o dagli incipit: Adria-aids nella sezione Inediti di PPS ; «Bleui ébloui | je m’éveille et je ris» ‘Azzurrito (reso azzurro) attonito | io mi sveglio e rido’ (Bleu, ultimo testo di IX Ecloghe); Per lumina, per limina (Pasque), ecc. Si pensi a Oltranza oltraggio, primo testo de La Beltà (1968), cifra del rapporto drammatico di Zanzotto con la dicibilità e  il mezzo linguistico, tra il dire per escursioni di eloquenza e il far violenza e l’incepparsi.

Quanto una tale procedura si appiccichi alla memoria del lettore e possa diventare cifra critica e quasi aforisma o epigramma minimo, infinitamente ripetibile in bibliografia, lo dice la coniazione doppia escatologia-scatologia applicata alla situazione montaliana delle ultime raccolte, come  le coppie rigiri-raggiri, amori-umori, sostanza-sostrato per le tematiche e lo  stile sinuoso e perplesso di Sereni. Per il gruppo neoavanguardistico più  engagé bastano e avanzano i gemelli malevoli volontà-velleità.

Un esempio di polarità applicata all’oggetto, in questo caso una polarità tradizionale ma radicalizzata e protratta da Zanzotto, si rinviene in un’intervista radiofonica del 1974, che chiedeva ad alcuni intellettuali il senso del modello petrarchesco per i poeti di oggi15. Ebbene, naturalmente Zanzotto pone Petrarca a patrocinare uno degli estremi del moto pendolare, il «desiderio» di un potere «assolutamente alternativo, fuori campo, sghembo», per cui nel sistema chiuso del Canzoniere e nello scrittoio della ‘cameretta’ si coverebbero le difese contro la storia e il «palazzo» (definizione pasoliniana tempestivamente fatta propria!), con i suoi vettori di violenza, col suo bestialismo.

Dante è invece il prototipo di una poesia di più ricca tastiera lessicale  e sonora, visionaria proprio perché immersa vitalmente e agonisticamente nella storia, in una declinazione corposa del dramma cosmico di lotte che arriverà a Milton e, per Zanzotto, perfino a Bulgakov. Ma la zanzottiana «faglia» o luogo di rottura, che in Petrarca è coscienza della negazione ovvero «cabotaggio intorno a un vuoto, anche alla ricerca di universi formali», si è protratta nei secoli, avendo alla fine esaurito le sue risorse con Mallarmé e Ungaretti. Il divorzio tra poeta e sistema è ormai consumato nel pieno Novecento, quando il polo autoreferenziale petrarchesco, o, con la formula di Zanzotto, l’«elemento platonico, calcinato-cristallino» può vivere solo in un rapporto pericolante e ansiogeno con l’opposto polo vitalistico di poesia, quello di Rimbaud, «ebollizione di novità in divenire, ma minacciata dal non-senso per il suo divorarsi divorando (come la vita) le proprie eventuali motivazioni»; e questo viene verificato sulla poesia e sulle analisi di un altro poeta e critico, Sergio Solmi16.


4. L’oltranza o densità del linguaggio critico diventa etimologicamente voluto oltraggio se dai testi l’orizzonte buca verso i contesti; il che accade d’abitudine, perché Zanzotto tende a forare la pagina per guardare il vissuto, tende a identificarsi nell’ossimoro permanente dell’esperienza utopistica della parola e di quella emotiva e depressiva della sua impotenza. Si oscilla tra i resti del sacro e l’inarrestabile dissacrazione della società dei consumi di massa; tra la memoria selezionante dei poeti e delle tradizioni orali e l’attuale nostro rassegnarci «alla mineralizzazione della memoria nei banchi informatici, potenzialmente vasti come lo scibile che è in aumento  geometrico»; si va dal paesaggio − eloquente dal suo silenzio «che punge e trapunge» − al suo naufragio o annientamento sotto la speculazione edilizia e la colluvie di messaggi (tele)visivi17. Il lessico antinomico, o meglio davvero polarizzato, e la risoluzione raccorciata di un impendente balbettìo rendono effabile questa rissa (verrebbe voglia, alla medievale e con il Montale di Notizie dall’Amiata, di parlare di rixa). Il fatto che Zanzotto sottolinei rovesciamenti, fratture interne e deiezioni in tutti gli autori considerati maestri o fratelli, con immagini somatico-patologiche, significa in primo luogo l’inevitabile, ma in lui impulsiva (compulsiva?), vampirizzazione, cioè assimilazione alla sensibilità sua propria. Tuttavia, in termini più generali e antropologici, l’insistere, poniamo, sulle faglie è anche una via per argomentare implicitamente che la società postindustriale o neocapitalistica sottrae − ai ‘consumatori’ e a fortiori ai cultori della poesia − qualsiasi autonomia o aura e li costringe (consumatori e poeti) a un lavoro interstiziale se non al fallimentare disincanto. La «concretizzazione espressionistica del concetto critico», nella perfetta definizione di Mengaldo, è dunque la conseguenza di una tensione ‘pedagogica’ a dar conto al  pubblico per immagini, a tradurre in lampi e figure di forte rilievo sonoro e plastico il vicolo cieco di una contraddizione che sta prima dell’invenzione di una forma.

In un testo di eccezionale violenza verbale, come è Parole, comportamenti, gruppi (1971), le bordate zanzottiane contro la Neoavanguardia, un movimento a suo dire molto meno aggiornato di quanto credano gli adepti, colpiscono le «congiure di narcisismi» del gruppo, il suo «pimpante trionfalismo», gli «stendardi obsoleti», facendo risalire con severa onestà civile narcisismi, trionfalismi e stendardi a un certo − e sospetto − etimo storico. Le parole d’ordine di chi offre oggi (sia chiaro, siamo nel 1971!) «omelie sull’afasia per mezzo di altoparlanti», pur avendo «assorbito il pus con il latte materno-artificiale», denoterebbero il perdurare − in lunga deriva di pestilenza − di comportamenti addirittura dell’anteguerra, violenti generatori di violenza, di emarginazione per la poesia e perciò di forme  minime di resistenza, che per Zanzotto furono a quanto si capisce l’ermetismo e la «decenza quotidiana» di Montale: «tic lasciati in giro, miasmi, un cadavere lercio e non nascondibile […] Perdura qualche cosa di quel periodo»18.

Nei saggi su Pasolini, altro oppositore della Neoavanguardia che Zanzotto sente affine per vari motivi non analizzabili in questa sede, si parla con durezza di quel movimento, direi proprio con un’allusione perfida al Giuoco dell’Oca di Sanguineti. Ecco qua: «Con i teschi dei padri si giocherà  tranquilla mente a bocce, e con le figure del sempre più proliferante schizoidismo si giocherà all’oca». 

Senza mezzi termini è l’accenno al «cannibalismo tardocapitalistico» e all’«infernale prodigio dei media», contro cui vengono adibiti sostantivi antinomici della stessa area semantica notata sopra (come «sirena e pus»), o si stendono ai tempi narrativi le metafore scatologiche: «cresceva la putredine del presente, il verminaio del non-senso e della falsità più lorda che forse siano mai apparsi nella storia». I media, informatori dalla violenza ridondante, sono accusati di aver ucciso due volte il poeta a vocazione pedagogica Pier Paolo Pasolini, perché essi hanno una «megapedagogia terroristica», una «mostruosa bavosa torbidezza»19.


5. Invece Zanzotto si spende e abbonda in generosità di fronte a proverbiali rivalità di maestri e fratelli a lui ugualmente cari, sembra voler riconciliare e trovare in loro, spesso per implicito, ragioni condivise sotto le divergenze apparenti. Per implicito, dico, in quanto la sua discrezione di norma punta non su argomenti svolti, ma sulla citazione o poco più, sia essa allusiva o palese. Chi sa intendere intenderà. Limitiamoci a un paio  di esempi.

Il primo riguarda i due nemici-fratelli Fortini e Pasolini. Franco Fortini per Zanzotto è figura eminente di una contraddizione fatalmente introiettata: poeta vero e nativo, ma uomo ostinato a dar preminenza al ruolo e alla funzione dell’intellettuale. Nel saggio su Un’obbedienza del 1980 le  «fratture», le massacranti divaricazioni, la «via fistolare» con cui l’altro fora la poesia, il suo pontifi care − che per Zanzotto è etimologicamente un eroico creare ponti −; tutti questi atteggiamenti in conflitto sono paragonati a un artaudiano teatro della crudeltà, con allargamento della corporeità fisica di Artaud a quel vero corpo primo che è la società. E allora si capisce come mai, in questo senso, per Zanzotto Fortini «non risulta affatto distante da Pasolini quale viene qui sfregiato, e insieme innalzato ad assoluto exemplum»20.

Il secondo esempio, che mi viene alla mente perché uno dei protagonisti è lo stesso, riguarda la contrapposizione tra Montale e Pasolini. Com’è noto Montale attaccò aspramente Pier Paolo − che non aveva apprezzato Satura in un suo scritto stroncatorio − nella Lettera a Malvolio del Diario del ’71, in cui la focomelia concettuale del dopoguerra (laici e cattolici, sinistra e destra) è invocata a disdoro della bulimia contraddittoria di Pasolini e a riparo della propria, di lui Montale, «fuga» o presa di distanza dall’impegno diretto o esposizione in piazza. Ebbene Zanzotto, pur difendendo l’impulso pedagogico e comunicativo del poeta P.P.P. – morto assassinato allora da pochi anni − ne salva comunque la percezione lucida della oggettiva «irrilevanza, inesistenza, focomelia» della condizione della poesia, con ripresa del termine montaliano preciso e mirato, focomelia, a prova implicita o meglio lessicale di un intravisto terreno comune tra i due avversari21. La citazione della Lettera a Malvolio è poi dichiarata in una pagina su Teorema, dove l’agonismo pasoliniano, sorretto dal mito etico e estetico della parola, appare simboleggiato dall’Angelo che in quel film  tiene in mano le Illuminations di Rimbaud. Una forza da inalberare contro l’esistenza di oggi, governata da un edonismo programmatico, il quale, postilla Zanzotto, «vorrebbe imporci un tutto sempre più condito, salato, “trifolato” (diremo parafrasando Montale), e che invece finisce per renderlo vomitorio». Nell’invettiva antipasoliniana Montale così accusava (mio il corsivo, come i precedenti): «Con quale agilità rimescolavi | materialismo storico e pauperismo evangelico, | pornografia e riscatto, nausea per l’odore | di trifola, il denaro che ti giungeva». È chiaro, rinvii e citazioni di questo tipo, antifrastici o no rispetto al contesto del luogo di provenienza, sono operazione di pace, rinvenimento di una tenuta morale comune ai contendenti22.


6. Rapporto implicatisssimo quello con Montale, cui Zanzotto ha dedicato almeno quattro saggi importanti, a partire dal famoso L’inno nel fango del 1953, attraverso Sviluppo di una situazione montaliana (Escatologia-Scatologia) del 1966, Da Botta e risposta I a Satura del 1977, fino a La freccia dei Diari del 1983. L’uno e l’altro provenienti da una linea di poesia alta, entrambi alla fine in colluttazione con una realtà come deiezione o detrito, entrambi ossessionati da polarità esistenziali e antitesi concettuali sorde alla conciliazione dialettica, in un gioco di rincorsa e identificazione dell’ombra propria nell’altrui. Montale, quasi in gara con il metodo critico tutto aforismi e folgori dell’amico, cioè alla ricerca di un’immagine, «una sola, capace di definire fulmineamente la poesia di Zanzotto», per la lingua de La Beltà aveva scovato proprio una bella formula etimologica e scientifica, di quelle tanto care al collega più giovane: «il suo liquore (liquame) rifiuta ogni analisi chimica», trivellandone poi il vissuto o dissidio interno  in queste antinomie del tutto appropriate allo stile del recensito: «Zanzotto vive dolorosamente il suo niente-tutto, vita-morte, illusione-realtà, distruzione-resurrezione»23.

Da parte sua, in una poesia in dialetto per gli ottanta anni di Montale, Zanzotto chiude con una serie di antitesi che la dicono lunga sulla fisionomia del loro dialogo. Cito dalla traduzione d’autore:

[…]

col tuo buio col tuo luccicare
col tuo chiuderti a riccio e col tuo renderti manifesto: 
rami e radici della stessa selva
dove facile e difficile, tra loro aggrovigliati,
sono sempre se stessi e sempre il loro contrario24.

Zanzotto dissemina i suoi saggi montaliani di cenni al degrado del sacro, del tutto solidali con le proprie posizioni, pregresse e perfino future se si pensa che L’inno nel fango risale al 1953, quando il tema-ossessione della parola non riscattabile dal fango e quello del caos erano in mente dei  (IX Ecloghe e La Beltà nel ’53 sono di là da venire). Negli scritti su Montale si trovano passi come il seguente: «Ogni possibile logos in cui si celasse una sacralità negativa si è incenerito in chiacchiera» (Da Botta e risposta I a Satura). Come dire che Zanzotto consente all’elogio montaliano della balbuzie, di un «parlare all’orlo che se ne infischia del principio di non contraddizione» (In margine a Satura), sovrimprime il proprio lessico deiettivo a quello del tardo Montale.

Un’altra famosa invettiva di Satura, intitolata A un gesuita moderno, tirata contro il cattolicesimo scientista del paleontologo prete Teilhard de Chardin, torna nel 1973 nelle note di Zanzotto a margine del proprio poemetto, Gli Sguardi i Fatti e Senhal, sulla «crosta» di bla-bla della defecazione massmediologica, del pattume plasticale:

Altro che la noosfera di Teilhard de Chardin, il quale prevedeva una specie di sfera del pensiero che quasi conglobasse, circondandole, la sfera della vita e quella terrestre costituita di materia pura e semplice! È una sfera di escrementi di celluloide e di tapes vari, con visioni e bla-bla incorporati dentro25.

Il gioco delle date rivela uno slittamento, dall’adesso verso il dopo oppure anche dal poi al prima; che è dialogo e processo identifi cativo, ricezione e proiezione porosa rispetto alla poetica inconchigliata nella poesia. Una postura totalmente altra dallo spassionato o asettico esercizio della critica, come mostra l’esempio minimo che segue. Nel 1971, sotto la moglie Drusilla Tanzi detta dagli amici «Mosca», destinataria e interlocutrice ormai oltremondana delle 28 poesie di Xenia sezione d’apertura di Satura, una figurina di donna-insetto la Mosca, un piccolo essere miope ma dotato di forza e quasi di radar rabdomantico; sotto la traccia di questa silhouette Zanzotto disocculta una fata shakepeariana, una specie − scrive − di «regina Mab, insetto che, scoprendo l’infinita lontananza “morfica” di chi sta più vicino all’io scrivente [...] scopre anche, all’io, la lontananza morfica della sua realtà profonda dall’immagine che egli ne ha». Di ‘sovrimpressioni’ il nostro poeta si mostrerà espertissimo molti anni dopo, ma intanto qui si manifesta la sovrimpressione tra la donna-insetto di Montale e la luna-Artemide-poesia de Gli Sguardi i Fatti e Senhal, locutrice che si autodefinisce «Io Mab», ossia la regina delle fate del Sogno di una notte di mezza estate

È lei a stare contemporaneamente in una lontananza siderale e a specchio dell’io diffratto in 59 battute26. Nell’ultimo dei quattro studi importanti su Montale, La freccia dei Diari, i nonsensi, gli pseudo-sillogismi di Montale sono per Zanzotto una protesta quasi gnostica, che «si rivolge contro quelle Forze, quegli eoni, quei demiurghi che hanno fatto consistere “questo” mondo, come c’è o come non c’è», in una serie di prospezioni senza stop che ignorano il «passo e chiudo». Proprio su un rice-trasmittente «Passo e chiudo» finiva Gli Sguardi: l’autocitazione discretissima, pur senza dirlo, sancisce forse l’impossibilità per chi scrive di perpetuare, in esercizi di sillogismi senza fine, la posizione ultima del vecchio Montale, il suo perpetuo «raziocinare delirante» su un nucleo di contraddizioni in termini27?

Ci si potrebbe domandare se e in che senso la freccia del poemetto e di altra poesia limitrofa di Zanzotto prenda le distanze da quella dei Diari di Montale. Forse una delle diversità si rintraccia in questo: che il corteggiamento della poesia violata negli Sguardi e in testi successivi è ben lontano  dal minimalismo montaliano, autoreferenziale, ripetitivo assai e un po’ qualunquista dopo Satura. Insomma, se Montale annienta di più e scaglia indefinitamente in avanti il proprio nichilismo, Zanzotto riaffronta comunque i temi massimi e vertifica per escursioni linguistiche e concettuali  più radicali (si pensi anche soltanto a Possibili prefazi o riprese o conclusioni, in La Beltà). Se la musa di Montale è uno «spaventacchio» uscito acciaccato e mutilo da un ripostiglio di sartoria teatrale (La mia Musa), quella di Zanzotto, lei o il suo doppio, la luna violata dall’allunaggio, è «marogna» calcinata dopo combustione nella stufa, scheggiatura compressa e magari disaiuto nella scoscesa scommessa del dire, ma mai è prolungamento monotono di uno schema retorico e tanto meno di uno schermo / scherno dell’autodifesa. Nelle due posizioni, pariniana e cioè di canone razionalistico, e sublime − in quell’andare sulle punte o per cacumi o vertici de Gli Sguardi − convivono due idee della poesia che Zanzotto immette nello  stesso testo perché‚ questo, è una serie di risposte e renitenze contro le parole d’ordine. Lo statuto balbo del dialogo tra gli io e il tu centrifuga la tensione verso il dire univoco, vietata fin dall’inizio dall’intimazione della deità, instillatrice di invasamento o entusiasmo (cioè del sublime) e residuo cristallino di un fuori storia.


7. Altra affinità indubitabile è quella con Sereni, a proposito del quale la critica di Zanzotto sfiora tanto il cannibalismo (come si è visto al § 2 con le metafora della combustione) quanto la profezia. Nel lavoro del 1967 sugli Strumenti umani si trovano ‘lapilli’ definitorii che col senno del poi applicheremmo piuttosto al libro ultimo di Sereni, Stella variabile (1981). 

La definizione che Zanzotto osa allestire, di «silenzio aletterario, nero, insistente come reticenza anche tra le parole», sembra un oroscopo del volume successivo, davvero colmo di non-detto, di silenzi, di senso del vuoto, mentre Gli strumenti umani è un libro abitato da enigmi, lacune e ceneri, ma anche da pezzi di solido impianto polemico-civile.

A proposito de I versi («Se ne scrivono solo in negativo | dentro un nero di anni») Zanzotto osserva ancora:

Qui il vuoto (il «nero degli anni» su cui in negativo si scrivono i versi) va interpretato come − da una situazione schizofrenica − vengono valutati gli spazi bianchi tra le macchie di Rorschach.

L’evocazione degli spazi vuoti del famoso test, più volte tematizzato dentro poesie e autocommenti di Zanzotto, è ombra lunga del recensore e, del pari, intuizione chiromantica28, dato che in Stella variabile parole tematiche come «vuoto» e «mancamento», prima in qualche modo dissimulate, diventeranno centrali. Il percorso di Stella variabile si muove dalla quarta stazione di Un posto di vacanza («Sull’omissione il mancamento il vuoto che si pose | tra i dileguati e la sogguardante la | farfugliante animula lì | crebbe il mare») a Autostrada della Cisa, con la indimenticabile voce della Sibilla petroniana e eliotiana che scandisce: «Ancora non lo sai | […] |non lo sospetti ancora | che di tutti i colori il più forte | il più indelebile | è il colore del vuoto?».

L’innegabile divinazione degli sviluppi futuri in Sereni è nel contempo fuoruscita di parole tematiche delle poesie che sobbollivano nel cantiere di Pieve di Soligo. Un caso per tutti potrebbe essere ancora il moncone di mito che è la luna-donna-bellezza degli Sguardi quando sillaba per l’appunto un suo risarcimento del mancamento o vuoto:


mi sono riaccostata risarcita del mancamento, 
mancamento di mondo di mio di vostro, 
come al dato focale mi riaccosto29.

Che ci sia un coinvolgimento ‘caldo’ di Zanzotto nel fare di Sereni lo conferma un ultimo esempio che mi pare pertinente. Zanzotto sostiene che valori come gioventù e bellezza, tipici del primo Sereni e dubitosamente rimessi in gioco dal poeta maturo contestato e autocontestantesi, non sarebbero più seriamente pronunciabili, se non forse …, «se non forse in una metafora precostituita, che li abbandonasse alla propria deriva, là fuori, a creare uno spazio convenzionale (e allora si distorcerebbero più visibilmente: da “bellezza” a “beltà”, o meglio da “gioventù” a “giovanezza”, come avviene in una forma però del tutto inconscia nella poesia dell’amato-rifiutato Saba». Quando Zanzotto questo osserva, si nasconde dietro a Saba, lui saggista-poeta che nello stesso torno di tempo andava mettendo a punto la raccolta omonima sulla Beltà con la B maiuscola e ne avrebbe commemorato i ritorni metatestuali in SFS: «ho visto ruotare e andar fuori campo il campo de “La Beltà»; «So che lottavi col fantasma-di-tante-beltà | che mai-verranno-meno-e»30.


8. Qualcuno si chiederà perché si è lasciato per ultimo ciò che era meglio mandare in prima linea, uno tra gli scritti più indelebili, quel Tentativi di esperienze poetiche (poetiche-lampo) uscito in rivista nel 1987, che è un abbozzo di teoria dell’invenzione meditato a lungo, anticipato per segmenti in varie conversazioni degli anni precedenti e ripreso nei successivi. Ma il filo di queste pagine sulla poesia come «collaudo di realtà» aiuta a capire a posteriori quale concetto profondo generi le oscillazioni tra idea astratta e repentini lampi di immagini concrete, che costituiscono le pepite sapienziali e la firma stilistica del poeta in veste di critico31. A ogni  rilettura colpisce la naturalezza con cui lo scrivente a un certo punto mette da parte la propria immensa cultura filosofica, estetica e linguistica e inoltra sul proscenio le rivelazioni o poetiche-lampo, cioè nella sua definizione «immagini che virano in teorie, e viceversa» di due autori grandi, Dante e Saba, ravvisate in cristallizzazioni testuali elementari e nel contempo siderali: il bell’ovile di Paradiso XXV e la gallina di A mia moglie. Immagini così, inscindibilmente teoriche e fantastiche, sono chiavi dissimulate del cortocircuito tra gli stati primordiali del vissuto e il controllo razionale, in cui si colloca per Zanzotto l’esperienza dell’invenzione. Il Dante autore e personaggio paradisiaco, in ascesa verso la Mistica Rosa, si sente nel contempo piccino, agnello risospinto verso l’ovile o utero della Firenze materna e conia un verso pieno di ripetizioni di suoni ironicamente ‘rotondi’, quasi a dar l’idea di un ‘uovo’. Umberto Saba, paragonando la moglie a una  bianca pollastra nonché alle gallinelle, che stanno nel pollaio ma sono anche le Pleiadi, confessa in una sola tessera la poetica del raccordo totemico tra familiarità infantile con gli animali e sovradeterminazione psicanalitica dell’adulto32.

Dietro la scorciatoia delle immagini basiche e quasi regressive dei due grandi sta il punto di vista di Zanzotto poeta, convinto che l’invenzione verbale, «plasma di materia e concetto», di fisicità e sapienzialità, salga su per cesure e latenze dal “buco nero” generativo di origine, tra paradisi di tipo autistico e allucinazioni a pretesa pentecostale, tra un senso fisiologico della reinfetazione nel proprio idioma e un impulso a forzarne la particolarità (cfr. la celebre nota a Idioma). Non sarà un caso che la sospensione di consapevolezza, che si produce nella scintilla inventiva, in questo scritto sia paragonata all’orgasmo e addirittura a un riflesso del corpo, lo sternuto, «un gesto-automatismo necessario e insieme infantile-maldestro».

Signa simplicissima l’ovile, la gallina, lo sternuto, tentativi di conoscere che si sviluppano dal grado zero e arrivano su su fino ai contributi dell’estetica e di altre scienze. Zanzotto, proprio andando sulle punte dei piedi o tirandosi per i capelli come il celebre Barone33; rovesciando le vette teoriche  nel raso terra del sostrato antropologico, può ritrovare il punto prospettico da cui traguardare quel «simbolo del simbolo del simbolo» che è, nonostante gli sfregi della blaterante società, la bellezza, cioè la poesia.


* Università di Siena.


1.- C. Baudelaire, Su Wagner, a cura di A. Prete, Milano, SE, 2004, pp. 38-39. Una  scelta ampia dei diari di L. Anceschi figura nei nn. 31 e 32, luglio e novembre 2006, del «verri», in occasione del cinquantenario della rivista da lui fondata.

2.- S. Dal Bianco, La critica dei poeti, «Nuovi Argomenti», quarta serie, n. 3, aprile-giugno 1995, pp. 229-32.

3.- Il riporto della critica zanzottiana a questioni generali era sottolineato da A. Balduino, Scheda bibliografica per Zanzotto critico, «Studi Novecenteschi», 1974, pp. 341-347, con una prima ricognizione. I maggiori saggi di Zanzotto sono raccolti in FA  del 1991 e in AD del 1994, indi nella nuova edizione del 2001 (SSL) in due volumi con aggiunte, a c. di G.M. Villalta, nonché in PPS del 1999, nella sezione Prospezioni e consuntivi.

4.- Intervista concessa a G. Barbiellini Amidei, «Il mondo», 6 marzo 1975, p. 86. 

5.- Autoritratto [1977], PPS, p. 1205.

6.- Il mestiere di poeta, colloqui con F. Camon, Milano, Lerici, 1965 ora in PPS, p. 1132. 

7.- Pedagogia [1977], AD, pp. 154-55 e 144.

8.- Gli strumenti umani [1967], AD, pp. 37 e 44.

9.- Amelia Rosselli: «Documento» [1976], AD, pp. 127-129. Mi sembra che il caso Rosselli ricordi per certi versi quello di Beckett, anche se il doppio registro inglese e francese in Samuel è gestito su due tastiere linguistiche e due sistemi di controllo lucido e di autotraduzione, mentre in Amelia spesso i sistemi linguistici italiano e inglese si ibridano, viaggiano più o meno consciamente verso un terzo personalissimo sistema, che sta all’incrocio. Nonostante le diverse motivazioni e esperienze biografiche, il caso di Amelia è più affine a quello del Fenoglio delle prime stesure narrative anglo-italiane, vistoso nei materiali chiamati dai posteri Il partigiano Johnny.

10.- L’uomo impiegatizio e Giudici [1977], AD, pp. 130-134.

11.-Testimonianza [1979-81], FA, p. 90. La divaricazione applicata a Ungaretti e altri, tra il polo corporale (Artaud) e quello astratto (Mallarmé) è segnalata da S. Agosti, Zanzotto critico, «Poesia», IV, 45, novembre 1991, alle pp. 9 sgg.

12.- Franco Fortini: «Un’obbedienza» [1980], AD, pp. 223-229.

13.- P.V. Mengaldo, Profili di critici del Novecento, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, pp. 71-77. Si veda anche l’ottimo contributo, orientato però non sulla lingua, ma sulle basi filosofiche, di A. Cortellessa, Geiger nell’ombra. Prospezioni su Zanzotto critico, «Poetiche», 1, 2002, pp. 149-75.

14.- Alludendo a scambi di poesie con Fortini, Zanzotto riprende e così spiega ordalia: «Questo scambio, specie di sonetti, o forme “regolari”, era qualche cosa di intermedio tra il saluto e l’invito a una minima ordalia (Ordal, Urteil), nel senso di comune confronto con grandi ombre (o scheletri) di un passato letterario, di una tradizione comunque inevitabile per una “prova”» [1985], AD, p. 233; anche in SSL, II, il Ricordo di Franco Fortini [1995] parla dell’insonne magistero suo, stretto come tenaglia sull’interlocutore, insomma cogente invito «a un’ordalia non evitabile», p. 408.

15.- Petrarca e i poeti oggi, «L’Approdo Letterario» n. 66, giugno 1974; si veda anche Petrarca fra il palazzo e la cameretta [1976], FA, pp. 261-71. Per la visionarietà, l’energia del messaggio e la memorabilità di Dante cfr. tra l’altro Rileggere Dante con gli occhi del suo tempo, «Corriere della Sera», 20 settembre 2004, p. 25.

16.- Le «Poesie complete» di Sergio Solmi [1975], FA, pp. 74-77.

17.- Rileggere Dante, cit.

18.- Parole, comportamenti, gruppi [1971], uscito nel 1974 nel numero dedicato a Zanzotto di «Studi novecenteschi», ora in PPS, pp. 1191-99.

19.- Pedagogia [1977], AD, pp. 148 e 150.

20.- AD, p. 228.

21.- Pasolini poeta [1980], AD, p. 153.

22.- Su «Teorema» (film e scritto) [1982-1988], ivi, pp. 162-163.

23.- La poesia di Zanzotto [1968], in Il secondo mestiere. Prose, vol. II, Milano, Mondadori, 1996, pp. 2893-2895.

24.- I poeti per Montale, Genova, Bozzi, 1976.

25.- Alcune osservazioni dell’autore [1973], relative al poemetto, uscito a Pieve di Soligo in un numero limitato di copie nel 1969, sono allegate alla riproposta Mondadori 1990 con un intervento di S. Agosti e ristampate anche in PPS, p. 1534. I saggi su Montale sono in FA, pp. 15-44.

26.- FA, p. 30.

27.- Ivi, pp. 42-43.

28.- Il test è tematizzato in Profezie o memorie o giornali murali, VIII; per Gli Sguardi l’autocommento è alle pp. 1532-33 di PPS. L. Conti Bertini, Andrea Zanzotto o la sacra menzogna, Venezia, Marsilio, 1984, sottolinea molti punti di contatto tra il fare poetico ne Gli Sguardi e la riflessione critica.

29.- PPS, p. 368.

30.- PPS, pp. 363-364. Nello stesso saggio del 1967 si rileva ancora negli Strumenti umani una sorta di intimazione a «infrangere la bolla, l’ampolla della partenogenesi»  di ascendenza ermetica. Ampolla(cisti) e fuori sono titolo e parole tematiche di una  poesia che sarebbe stata inclusa nella imminente Beltà: «La tua beltà – chissà averla che impegno − | ardendo nell’ampolla se ne va: volevo | solo dire “beltà”» (PPS, p. 

297); appena sotto, nella Nota pure in versi, si legge che la beltà «ledeva illesa | dentro l’ampolla; inesisteva; insisteva». Qui ampolla e cisti hanno connotazioni opposte: solo la prima è positiva e emblema della femminilità (nell’ampolla della poesia). Sereni, nella seconda sequenza del cronologicamente successivo Un posto di vacanza, che è tutto un surplace sul rapporto tra esperienza e espressione,sembra ricordarsi del ‘lapillo’ linguistico nel saggio di Zanzotto quando scrive, aggirandosi perplesso sui tramontati garanti della parola o vettori del passato (bellezza, scrittura, amore, amicizia) e sulla tentazione attuale del silenzio: «Va a zero la bolla di colore estivo, si restringe su un  minimo | punto di luce […]».

31.-Uscito sul «verri», n. 1-2, n. s., marzo-giugno 1987, il saggio si legge in PPS, pp. 1309-1319.

32.- Che questo saggio sia fondamentale lo conferma la recentissima conversazione con Laura Barile e Ginevra Bompiani, Eterna riabilitazione da un trauma di cui s’ignora la natura, Roma, Nottetempo, 2007, soprattutto alle pp. 29-31, che ho potuto leggere quando queste pagine erano già scritte: «In quel saggetto “Tentativi di esperienze poetiche (poetiche lampo)”, sostenevo che l’unica poetica seria di un poeta consiste in un verso particolarmente significativo», con ribadimento del «bello ovile ov’io dormi’ agnello» e del verso di Saba «quando la sera assonna | le gallinelle | metton voci che ricordano quelle …», ecc.

33.- Nell’individualismo radicale di Zanzotto non vive un’idea ribassata dell’esperienza poetica, ma una concezione interstiziale di attraversamento del sociale: il «respiro-sospiro», che l’io diffratto e la luna-poesia si rinviano a specchio prima del «passo e chiudo» finale de Gli Sguardi, come si accennava viaggia nonostante tutto verso il sublime: «o la risorsa essere acrobata andar per sommi | o parlarci di poesia preparare poesia | o rifarci in poesia che guarda caso è strage | sopraffazione appena invetrinata», ecc. (PPS, p. 365).


Da:   Atti del Convegno Internazionale Andrea Zanzotto:  un poeta nel tempo, tenutosi presso la Biblioteca del Dipartimento di Italianistica dell’Università di Bologna il 23 novembre 2006 e coordinato da Niva Lorenzini a cura di Francesco Carbognin, Edizioni Aspasia (Bologna 2007),  pp. 23-42.

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