Francesco Omar Zamboni | Dimensioni teoretiche del Manṭiq al-Ṭayr di Farīd al-Dīn ʿAṭṭār

Abstract Il presente lavoro si approccia alla magistrale opera mistica di Farīd al-Dīn ʿAṭṭār, il Manṭiq al-Ṭayr , discutendone i contenuti ...


Abstract

Il presente lavoro si approccia alla magistrale opera mistica di Farīd al-Dīn ʿAṭṭār, il Manṭiq al-Ṭayr, discutendone i contenuti in chiave speculativa. Si rileva come il discorso ʿaṭṭāriano si strutturi in tre grandi plessi di contraddizioni: il primo riguarda l'affermazione dell'inconcepibilità di Dio; il secondo investe l'idea per cui vengono fatti equivalere totalità dell'essere finito e Nulla; il terzo mostra come la concezione di un “viaggio” mistico verso Dio implichi la contingenza dell'eterno. Tutti e tre questi plessi si fondano sulla più generale incapacità di conciliare Dio con il mondo, l'Infinito con il finito. La nostra tesi è che ʿAṭṭār sia almeno in parte cosciente delle contraddizioni del proprio linguaggio, ma fedelemente al proprio anti-intellettualismo si proponga di togliere tali contraddizioni tramite l'annullamento ontologico di uno dei due termini che le provoca: il finito.


The present paper approaches the mystical work of Farīd al-Dīn ʿAṭṭār, the Manṭiq al-Ṭayr, discussing its features with a philosophical outlook. We notice that the ʿaṭṭārian discourse is structured upon three important networks of contradictions: the first pertain to the affirmation of God's inconceivability, which is a after all a way to actually conceive Him; the second regards the idea of the coincidence between finite beings and Nothing; the third shows how every conception of a mystical “travel” to God implies the contingence of the Eternal. All these networks have their foundation upon in a general incapacity of reconcile God and finite beings. For our thesis ʿAṭṭār is at least in part conscious of the contradictions that afflict his own language, but coherently with his anti-rationalism tries to resolve them with the ontological annichilation of one of the terms in contradition: the finite beings.

Key words: annihilation, ʿAṭṭār, creatio ex nihilo, God's inconceivability, Manṭiq al-Ṭayr, monism, mystical travel, Nothing, ontological becoming, principle of non-contradiction, Simurgh, sufism



Farīd al-Dīn ʿAṭṭār di Nišapūr (ca. 1145-1221) è uno dei più significativi fra i poeti-mistici del sufismo medievale. Autore capace di coniugare maestria letteraria e profondità speculativa, di suo pugno sono note un'opera in prosa e otto in poesia1. Fra queste ultime spicca il maṯnawī2 noto come Manṭiq al-Ṭayr (Il Verbo degli Uccelli, 1177), in cui viene descritto il viaggio di un gruppo di uccelli in cerca del proprio re, Sīmurġ3, viaggio che è insieme cornice narrativa e metafora della ricerca spirituale che porta l'anima del mistico verso Dio.

Nel presente lavoro ci si propone di far emergere e discutere, in dialogo con quest'ultimo testo, quei tratti del pensiero ʿaṭṭāriano che mostrano un particolare interesse speculativo in sede metafisica. Se ne mostreranno quindi le aporie fondamentali, tanto esplicite che implicite, analizzando le cause del loro apparire. Si è scelto di adottare questa metodologia da un lato poiché si ritiene possibile comprendere a fondo un percorso intellettuale soltanto vedendone i vicoli ciechi; dall'altro, poiché si constata la primaria importanza che il Manṭiq al-Ṭayr attribuisce esplicitamente alla contraddizione e all'illogico. L'utilizzo di paradossi e figure ossimoriche è ben noto alla letteratura mistica islamica, e ad ʿAṭṭār in particolare, ma sarebbe una banalizzazione ridurlo a un puro e semplice artifizio retorico, un gioco linguistico prodotto con l'obiettivo di intrigare il lettore: al contrario, spesso la contraddizione investe in profondità gli stessi contenuti di pensiero che il testo vuole trasmettere.

Prima di passare ad analizzare nel dettaglio le tematiche d'interesse teoretico è necessario però dar conto, a grandi linee, della struttura e dei contenuti dell'opera, così da contestualizzare adeguatamente la lettura che verrà proposta.

Il Manṭiq al-Ṭayr si struttura in cinque sezioni:

– un'introduzione che si apre con una riflessione sulla natura di Dio e del linguaggio che tenta di esprimermene l'essenza; a questo seguono lodi al Profeta e ai quattro Califfi Ben Guidati;

– due serie di dialoghi fra gli uccelli e la loro guida, l'Upupa, che di volta in volta li sprona, li redarguisce o li minaccia affinché abbandonino i propri desideri e le proprie angosce contingenti per volgersi alla cerca di Sīmurġ;

– una descrizione della via mistica che porta a Sīmurġ, articolata nelle sette “valli” della Ricerca, dell'Amore, della Conoscenza, del Distacco, dell'Unificazione, dello Stupore e dell'Annientamento; segue l'arrivo degli uccelli, decimati e stremati, alla reggia di Sīmurġ e l'illusorio apparire di quest'ultimo sotto forma delle immagini rispecchiate dei cercatori e del mondo intero;

– infine la conclusione, in cui viene portata avanti una speculazione sul significato dell'Annientamento e della Permanenza dopo di esso.


La narrazione risulta inframmezzata da frequenti e perlopiù brevi narrazioni illustrative (hikāyat) che traggono spunto dalla scrittura coranica, dall'agiografia, dal folklore arabo-persiano, da figure ed episodi storici o pseudo-storici. Non è però interesse della presente trattazione fornire un'ermeneutica onnicomprensiva dell'opera e delle sue variopinte suggestioni, perciò l'esposizione non seguirà un procedere necessariamente diacronico, secondo lo sviluppo della narrazione, ma adotterà piuttosto un approccio tematico-sincronico, di volta in volta estrapolando e discutendo i passi più significativi riguardo all'argomento in questione.


Comprendere l'Incomprensibile, esprimere l'Inesprimibile


L'introduzione del Manṭiq al-Ṭayr rappresenta il luogo di partenza privilegiato per sviluppare un'analitica della dimensione epistemologica, e in particolare della relazione fra segno e significato, presente nel pensiero di ʿAṭṭār. Qui infatti il nostro Autore, dopo aver ampiamente esemplificato le infinite capacità dell'onnipotenza divina, passa a speculare sulla relazione che intercorre fra Dio e il mondo nei seguenti termini:

«Tutto ciò che esiste, dal dorso del pesce alla luna, sino a ogni singolo atomo, testimonia la sua pura sostanza. Le altezze dei cieli, le profondità della terra sono adeguate testimonianze di Lui. Egli creò e vento e terra e fuoco e acqua e nella totalità degli elementi si manifesta il suo Segreto».4

E ancora:

«La parte e il Tutto sono due testimonianze della sua pura sostanza [“Invocazione”]»;

«[...] soltanto Egli è, tutto il resto non è più di un nome [ibid.]».  

Le cose stesse, dunque, non si riducono a puri significati, ma sono a propria volta dei segni che si riferiscono a un ulteriore significato: il mondo intero, nella sua totalità e in ognuna delle sue parti, è un “linguaggio” che “parla” di Dio5; e pare che stia proprio nel testimoniare Dio che le cose possono avere una qualche consistenza ontologica6.  

Cosa però tale testimonianza dica è problematico, in quanto ʿAṭṭār intende tener ferma la trascendenza dell'intima natura di Dio rispetto a ogni dire:

«Tu sfuggi a ogni descrizione! [“Invocazione”]»;

«Egli non è quel che tu credi, e allora taci una buona volta! [ibid.]»;

«Egli sfugge a ogni spiegazione, a qualsiasi attributo [ibid.]».

  

A questo punto il “linguaggio del creato” e la stessa ragione umana pare debbano limitarsi a un'asserzione esistenziale, ad affermare che Dio è, senza poterne descrivere compiutamente i tratti:

«Tutto il creato, o meraviglia, Lo implora, Gli chiede perdono e testimonia che Egli esiste [“Invocazione”]»;

«La ragione coglie i segni della tua esistenza ma non può sondare i tuoi abissi [ibid.]».

A questo punto emerge una prima potenziale contraddizione del discorso di ʿAṭṭār. 

Se infatti Dio non è in alcun modo descrivibile, a cosa si sta attribuendo l'esistenza? L'attribuzione dell'esistenza si riferisce a un contenuto indeterminato. Ora, non è possibile attribuire con fondatezza l'esistenza a qualcosa che, in quanto del tutto indeterminato, non mostra alcunché di se stesso. Affermare l'esistenza di un contenuto indeterminato significa affermare indeterminatamente - e senza alcuna ragione - l'esistenza di quel contenuto, appunto perché di esso non si sta dicendo niente, non gli si sta attribuendo nulla sulla cui base sia possibile decidersi sulla sua esistenza o non esistenza.  

Seguendo questa linea di pensiero, i “segni” dell'esistenza del Deus Incognitus che la ragione e l'intero creato dovrebbero possedere non possono affermare l'esistenza di alcunché; non sono nemmeno “segni”, propriamente, siccome affinché qualcosa sia riconoscibile come segno deve mostrarsi il significato di cui il primo appunto è segno.

  Ci pare che ʿAṭṭār si avvicini a una conclusione simile a quella esposta quando afferma, in esplicita contraddizione con quanto detto poco prima:

«[...] la sua sostanza è, senza traccia alcuna. Di Lui non si trova altro segno che il non-segno [“Invocazione”]».  

Un altro lato della contraddizione appena rilevata appare nella misura in cui, pur sostenendo che di Dio non si danno tracce né segni, ʿAṭṭār intende tenerne ferma come indubitabile l'esistenza, la quale dovrebbe essere indotta a partire da detti segni. Si dice “la sua sostanza è, senza traccia alcuna”; ma se sono quelle tracce la base su cui è possibile affermare l'essere della sua sostanza, può avere un qualche significato questa proposizione? In altre parole l'Autore, pur trovandosi nella contraddizione di affermare e negare i segni di Dio nel mondo, separa l'affermazione dalla negazione e vede di volta in volta soltanto l'una oppure soltanto l'altra.  

L'intera questione potrebbe venir sviluppata in modo diverso da come si è delineato, evitando di porre ʿAṭṭār in contraddizione, se si sostenesse che quei “segni di Dio” dei quali si afferma la presenza nel mondo non sono quegli altri segni dei quali tale presenza viene negata. I primi sarebbero quei segni cui va a legarsi l'apparire astratto e formale del significato cui si riferiscono; i secondi quell'altra tipologia di segni che porta con sé l'apparire completo e concreto di quel significato7. Ancora: il segno-formale la cui presenza viene affermata è anche “non-segno” (concreto) nella misura in cui non può far apparire la totale compiutezza di ciò che vorrebbe esprimere; viceversa il segno-concreto la cui presenza viene negata è presente come “non-segno” (formale) nella misura in cui il segno-formale dice appunto il proprio non essere segno-concreto.

  Dietro la (apparente?) contraddizione di cui sopra starebbe dunque il tentativo da parte di ʿAṭṭār di fare i conti con l'annoso problema di un Dio che nel mondo si mostra formalmente, ma al contempo non si mostra concretamente, facendo d'altra parte apparire la propria differenza rispetto alla totalità delle determinazioni che costituiscono il mondo stesso.

Questa direzione potrebbero indicare passi come i seguenti:

«O Tu, totalmente invisibile pur nella tua evidenza, sei l'intero universo eppure nessuno mai ha contemplato il tuo volto [“Invocazione”]»;

«Di Lui soltanto una pallida idea ci è concessa, dare compiuta notizia di Lui è impossibile [ibid.]».

Dove il “volto” e la “compiuta notizia” sarebbero quei segni capaci di far apparire il significato che indicano –  Dio – nella sua compiutezza.

  Resta in ogni caso particolarmente arduo decifrare quale sia la posizione di ʿAṭṭār a questo riguardo, se quest'ultima oppure quella contraddittoria, forse più vicina alla lettera del testo, che abbiamo portata alla luce per prima. Come spesso capita con autori che utilizzano diffusamente espressioni ossimoriche o ambigue, vi è una notevole difficoltà nel comprendere fino a che punto una contraddizione resti confinata alla forma e fino a che punto invece investa il piano del contenuto.

  Nel discorso di ʿAṭṭār vi è d'altra parte un'ulteriore contraddizione più chiaramente rilevabile e al tempo stesso intimamente legata a quanto discusso: quella per cui Dio sarebbe un oggetto indescrivibile, trascendente qualunque tentativo di indicarlo.

«Non usare analogie, o tu che apprezzi il vero, perché un oggetto indescrivibile non le tollera [“Invocazione”]»;

«Egli sfugge a ogni spiegazione, a qualsiasi attributo [ibid.]»;

«[...] Tu non sei e insieme sei qualunque cosa di Te io dica [ibid.]».

Espressioni di questo tipo risultano in se stesse contraddittorie, prima ancora di essere in contrasto con l'affermazione della presenza dei segni di Dio nel mondo. Tale auto-contraddittorietà si declina in due sensi distinti, uno immediato-formale e uno mediato-concreto.

Il primo di tali sensi è quello per cui ogni proposizione del tipo «nessuna proposizione può dire qualcosa di significativo rispetto al contenuto X» – questa la forma che accomuna i passi di cui sopra – intende d'altra parte dire qualcosa di significativo rispetto a quel dato contenuto, cosicché ciò che la proposizione sottintende ne contraddice il contenuto esplicito e viceversa. Questo approdo è inevitabile, nella misura in cui si vuole tener ferma la validità universale della proposizione stessa. La quale a questo punto si riduce all'insignificanza in quanto, proprio nel voler restare fedeli fino in fondo al contenuto espresso, si deve arrivare a sostenere l'insignificanza di quest'ultimo8. Diciamo questo primo senso dell'auto-contraddizione immediato-formale in quanto investe la proposizione in virtù della sua struttura, a prescindere dall'effettivo determinarsi di X.

Se invece si volesse evitare di contraddirsi immediatamente, la proposizione andrebbe riformulata nel modo seguente: «nessuna proposizione, tranne la presente, può dire qualcosa di significativo rispetto al contenuto X», o in suoi equivalenti, come: «X è ciò che non è esprimibile se non come inesprimibile». Esisterebbe dunque una “eminente” classe di proposizioni che si distingue dalle altre in virtù della propria capacità di esprimere l'inesprimibilità dell'inesprimibile. In esse Dio sarebbe dunque presente come ciò che non è in alcun altro modo presente, intelligibile come ciò che non è in alcun altro modo intelligibile. Ogni espressione riferita a Dio sarebbe adeguata e avrebbe significato soltanto nella misura in cui negasse la possibilità di dirne alcunché al di là di quella stessa negazione. 

A questo punto si giunge al senso mediato e concreto dell'auto-contraddizione cui accennavamo sopra9, il quale a propria volta conosce due declinazioni. 

Quella più banale e formalistica sorge dal rilevare che la X della proposizione di cui sopra non è posta come “ciò-che-non-è-esprimibile-se-non-come-inesprimibile”, ma piuttosto come “Dio”, “creatore”, “Assoluto”, “Infinito” e così via: tutte determinazioni del soggetto che contraddicono il predicato in quanto esprimono qualcosa di positivo. Eppure, di questo soggetto così determinato si vuole pur dire che è “ciò-che-non-è-esprimibile-se-non-come-inesprimibile”. In questo caso la contraddizione è risolvibile affermando che le determinazioni secondo cui si declina il soggetto non sono che flatua vocis, espressioni verbali prive di corrispondente logico-ontologico.

Esiste però una forma di contraddizione più profonda ed essenziale, che a ben vedere presenta un punto di contatto con quanto rilevato in apertura sulla prima contraddizione del discorso di ʿAṭṭār10. Cosa può distinguere un Dio che si determina unicamente come “non-esprimibile-se-non-come- inesprimibile” dal puro e semplice Nulla? L'essenza del Nulla assoluto consiste appunto nel suo presentarsi come negazione di ogni propria presenza, comprendersi come negazione di ogni propria intelligibilità, esprimersi come negazione di ogni propria esprimibilità, e così via.

D'altra parte non v'è dubbio che per ʿAṭṭār sia pacifica la differenza infinita che intercorre fra Dio e il Nulla, rispetto al quale è piuttosto il mondo a presentarsi come “contiguo”11. Dio è perfetta, assoluta positività. Un pieno, non un vuoto:

«Tu sei Eterno nel tuo perfetto essere e ogni realtà hai a Te soggiogato [“Invocazione”]»;

«Egli è questo mondo e quell'altro: nulla esiste al di fuori di Lui, e anche se fosse, sarebbe pur sempre Lui [ibid.]»;

«[...] Egli è, in eterno, assoluto sovrano e vive immerso nella pienezza della sua maestà [Cap.II]».

Con ogni evidenza l'attribuzione dell'indicibilità a Dio sorge dalla necessità di salvaguardarne l'assolutezza, negando che quest'ultima possa venire espressa o racchiusa nelle finite espressioni umane. Questo però non significa che all'intenzione di tener fermo l'assolutamente positivo corrisponda la capacità di farlo. Tutt'altro.

Davvero un mirabile paradosso quello di ʿAṭṭār, il quale per restar fedele all'assoluta positività di Dio arriva, senza rendersene conto, a suggerirne la contiguità con ciò che è assolutamente negativo, oltre a invalidare in partenza il proprio stesso discorso:

«Nei Due Mondi Egli è dentro ogni atomo e quindi anche in te, ma qualunque cosa tu dica non riguarda Dio, è solo una tua fantasia [“Invocazione”]»;

«Ogni tua parola, ogni tua conoscenza si riferisce a te soltanto, cento volte a te soltanto – conosci te stesso! – e non a Lui [ibid.]»

Giungiamo qui all'ultima delle contraddizioni di cui desideriamo trattare nella presente sezione.

Si tratta a ben vedere di una conseguenza, o meglio un “corollario”, delle prime due. 

I passi di cui sopra affermano, in sintesi, che ogni segno e ogni discorso utilizzati dall'uomo per indicare il significato in cui Dio consiste non fanno che riferirsi invece all'uomo stesso: anche quando si vuole parlare di Dio, in realtà si parla di ciò che è altro da Dio, in questo caso dello stesso parlante. 

Questo è in diretto contrasto con quanto rilevato all'inizio riguardo alle cose del mondo come segni di quel significato supremo che è Dio. Da quest'ultima posizione segue infatti che i segni del linguaggio umano si riferiscono a significati (le cose) i quali a propria volta sono ulteriori segni che rimandano a Dio: dunque, al contrario di quanto afferma ʿAṭṭār, anche quando non si vuole parlare di Dio, ma di ciò che è altro da Lui, si parlerebbe comunque di Dio, per quanto indirettamente.

È di questa contraddizione che ʿAṭṭār ci pare acquisti coscienza nel passo seguente:

«Ma chi sono io per poter aspirare a conoscerlo? Può farlo solamente colui che con altri che Lui non ha avuto a che fare. Ma se Lui, e soltanto Lui, esiste nei Due Mondi, con altri potresti avere rapporto? Di qui discende il nostro travaglio! [“Invocazione”]».

Di primaria importanza rilevare come a questo punto il discorso vada avanti prospettando non la soluzione teoretica delle aporie che si sono mostrate, ma piuttosto l'annullamento del discorso e persino del parlante stesso:

«Tutto ciò con cui Lo si descrive in cosa mai potrà riguardarLo? Ma questo discorso con te non è facile. E allora non parlare di Lui [“Invocazione”]»;

«In quanto a te, non esistere: altra perfezione non ti è concessa. Scompari a te stesso, giacché questo richiede l'Unione! Scompari in Lui, ecco la autentica unificazione; tutto il resto non è che chiacchiera vana. Entra nell'Uno, da “due” trasformati in Uno! [ibid.]»;

«Ma sino a quando parlerò, io che non ho più parole? Le rose strappate dal ramo non restano [ibid]».  

Per dirla in altro modo, la soluzione delle contraddizioni mostrate sarebbe operativa, non teoretica. Tale soluzione operativa mostra due livelli di profondità: quello più superficiale corrisponde al silenzio, l'annullamento del linguaggio che produce l'aporia; quello più profondo è l'annullamento dello stesso parlante, dell'uomo. Di seguito si mostra per quale motivo all'interno della prospettiva di ʿAṭṭār sia necessario anche questo secondo tipo più radicale di annientamento.

Ridursi semplicemente al silenzio non è infatti abbastanza. In un certo senso equivale a tenere dormienti i sintomi di una malattia senza combatterne le cause: si elimina il contraddirsi del linguaggio, ma non si eliminano le ragioni per le quali il linguaggio arriva a contraddirsi. Tanto più che il silenzio è una condizione reversibile e dunque, qualora chi se lo fosse imposto ne uscisse, costui tornerebbe inevitabilmente a contraddirsi.

A produrre l'aporia è la modalità in cui si concepisce la relazione fra Dio e il mondo, o fra Dio e l'uomo. Preso atto di ciò, e della volontà di tener fermo tale modalità, per togliere la contraddizione è necessario prospettare l'annullamento di uno dei due termini della relazione: l'uomo, come si può immaginare. A quel punto verrebbe ad annullarsi anche la relazione stessa – ogni relazione di qualcosa con il Nulla è nulla a propria volta – e l'aporia non si porrebbe più. 

Pensiamo che quanto rilevato sia importante, in quanto permette di gettare luce sul pensiero ʿaṭṭāriano riguardo alla contraddizione e all'assurdo. ʿAṭṭār non è un negatore del principium firmissimum della logica, il Principio di Non Contraddizione, al di là di quanto lui stesso possa dire sulla “follia” del proprio discorso12. Negatore di tale Principio è infatti chi afferma che nel contraddirsi ci sia verità; ʿAṭṭār, al contrario, non sostiene che tramite la contraddizione il discorso possa dire qualcosa di vero riguardo a Dio, ma che in essa emerga l'incapacità di dire Dio da parte di ogni discorso: la differenza può apparire sottile, ma non è per nulla trascurabile. 

ʿAṭṭār rileva, o crede di rilevare, l'inoltrepassabilità di certe aporie da parte del pensiero logico- razionale, e dunque si propone di togliere tali aporie nell'unico modo rimastogli: tramite l'annullamento del parlare e del parlante. Il prospettato annullamento dell'uomo è l'estremo tentativo del pensiero di uscire dalla contraddizione, non il suo acquietarsi soddisfatto in essa.

Non si pensi però che nel modo sopra indicato la questione verrebbe risolta: vera risoluzione sarebbe quella che riuscisse a porre e Dio e il mondo senza poi dover togliere di mezzo uno dei due. Tanto più che, finché l'uomo (e il mondo stesso, in realtà) esiste, la contraddizione resta comunque reale, e al pensiero è chiesto di toglierla proprio per quanto concerne il presente: il toglimento di una contraddizione non può essere un progetto, un futuro che ancora attenda di realizzarsi, altrimenti la presenza reale della contraddizione sarebbe il presupposto del suo toglimento13. Con ogni evidenza, la pseudo-soluzione di ʿAṭṭār è allo stesso tempo anche una resa alla (ma non un'accettazione della) contraddizione.

Creazione dal Nulla, Creazione di nulla 

L'ontologia di ʿAṭṭār non si discosta, nei fondamenti, dal paradigma creazionistico della tradizione teologica islamica: Dio è eterna, assoluta positività, l'unico vero Essere; il mondo e tutto ciò che esso contiene possiedono invece un'esistenza derivata, sottoposta all'arbitrio dell'atto creatore ed essenzialmente contigua al Nulla. Di seguito alcuni passi che corroborano quanto si sostiene:

«Tu sei Eterno nel tuo perfetto essere e ogni realtà hai a Te soggiogato [“Invocazione”]»;

«Tutto ciò che esiste è immerso nella sua Unità, ma che dico?, in Lui è totalmente annullato! [ibid]»;

«Sappi che in questo mare il mondo è una semplice bolla; e anche l'atomo, ricordalo, non è che una bolla. E dunque, se svanissero sia il mondo che un atomo, questo mare avrebbe perduto solo due bolle, nient'altro. [ibid]»;

«[...] Egli è, in eterno, assoluto sovrano e vive immerso nella pienezza della sua maestà [Cap.II]»;

«Tutto ciò che è, che fu o che sarà ha un equivalente, tranne nostro Signore. Qualunque cosa tu stia inseguendo, a parte Lui, potrai trovarne l'esatta imitazione: Egli solo è inimitabile ed eternamente necessario [Cap.XXXVI - “Un discorso di Rābiʿa”]»;

«Un tale chiese a un folle: “Ma cosa sono in definitiva questi Due Mondi che a tal punto dominano i nostri pensieri?”. Quegli rispose: “Entrambi, l'inferiore e il superiore, non sono che una goccia d'acqua: il che significa che sono e non sono. […] Ogni forma che ha avuto origine dall'acqua, fosse anche plasmata nel ferro, è destinata a corrompersi. Nulla è più duro del ferro, eppure ha il proprio fondamento nell'acqua. Quanto si fondi sull'acqua, fosse anche di ferro, è cosa illusoria [Cap.VI - “Cosa sono i Due Mondi”]»;

«Sappiate che quando Simurgh mostrò dietro un velo il suo volto splendente come sole, proiettò sulla terra ombre infinite. Quindi su quelle ombre purissime lanciò il proprio sguardo. Egli dunque fece dono al mondo della sua stessa ombra, da cui sorsero uccelli numerosi ad ogni istante. I disparati volti degli uccelli del mondo non sono che ombre del bel Simurgh [...] [Cap.XIII]»

Se l'ontologia del misticismo ʿaṭṭāriano si discosta da quella della scolastica islamica è per la maggior radicalità con cui il primo nega consistenza ontologica al mondo. Come afferma l'ultimo dei passi citati, le cose non sono che “ombre” prodotte dal velamento dell'apparire di Dio: è perché Dio si vela che possono apparire le ombre in cui consistono le infinite cose del mondo, e fra queste quel tipo “eminente” di ombre che sono le anime umane. Si ponga particolare attenzione sulla metafora dell'ombra, perché può far trapelare molto sulla concezione ʿaṭṭāriana dello stato creaturale: in primo luogo, un'ombra è qualcosa dall'esistenza doppiamente derivata, in quanto necessita di una luce (Dio) e di un corpo che quella luce interrompa (l'auto-velarsi di Dio) per presentarsi; in secondo luogo, l'essere dell'ombra ha un carattere negativo, in quanto consiste essenzialmente nella negazione della presenza della luce. Nella loro essenza, gli enti del mondo dicono prima di tutto cosa non-sono, non cosa sono: sono negazioni, prima che affermazioni.

È in quest'ottica che vanno interpretate espressioni apparentemente panteistiche come:

«Ma se Lui, e soltanto Lui, esiste nei Due Mondi, con altri potresti avere rapporto? [“Invocazione”]».  

Soltanto Dio esiste nei Due Mondi perché tutto ciò che questi ultimi contengono è poco più di niente: le “ombre” in cui consistono le cose possiedono, per ʿAṭṭār, una consistenza ontologica così residuale – in quanto insieme derivata e negativa – da non esistere nemmeno una volta che le si ponga a confronto con Dio. Questa idea emerge nel modo più radicale all'interno del seguente passo, posto quasi in conclusione dell'opera:

«Quanto fin qui avete visto o conosciuto, in realtà non accadde, e quanto avete detto o udito non è mai stato; e [neppure mai sono esistite] le valli che vi siete lasciati alle spalle, o le stazioni ove virilmente poteste maturare. In realtà voi tutti avete marciato senza mai deviare dall'alveo della Nostra Azione e avete riposato nelle profonde valli delle Nostre Qualità [Cap.XLV - “L'annientamento degli uccelli”]».

Persino le tappe del percorso mistico – e dunque a maggior ragione tutte le altre cose del mondo – non sono che contenuti di un'illusione: l'illusione che crede esista qualcosa al di fuori di Dio. Il pensiero di ʿAṭṭār mostra qui, in controluce, una profonda vicinanza al monismo assoluto di dottrine indiane come l'Advaita Vedanta14 o il Buddhismo Mādhyamaka15. Al tempo stesso rileviamo come questa tipologia di metafisica, pur con tutta la sua semplicità e raffinatezza, non riesca a risolvere ciò che intende risolvere. Di seguito si analizzano i motivi di tale fallimento.

Si accetti pure la tesi che il mondo non esista, che la sua esistenza sia un'illusione. Diciamo illusione una credenza il cui contenuto è Nulla. A questo punto è necessario chiedersi: tale credenza, l'illusione stessa, esiste oppure no? Evidentemente si deve rispondere che esiste, altrimenti non ci si illuderebbe e non si starebbe a discutere dell'illusione, ma dell'illusione che esista l'illusione di cui sopra. Dunque, sia pur nullo il contenuto dell'illusione, l'illusione in quanto tale non è nulla: possiede un'esistenza, per quanto residuale la si voglia dire.

Ora, e qui sta il passo decisivo, bisogna rendersi conto che, se l'illusione esiste ed è altro da Dio, l'illusione non può illudersi del tutto. È essa stessa a verificare il proprio contenuto, consistendo essa appunto nella credenza secondo cui esiste qualcosa al di fuori di Dio: quel “qualcosa” è la stessa affermazione in questione. Dunque non si è risolto niente, la dualità è semplicemente stata spostata dalla relazione fra Dio e mondo a quella fra Dio e illusione.  

Non vanno certo meglio le cose sostenendo che l'illusione è identica a Dio. In questo caso infatti l'illusione risulterebbe essere massimamente reale, anzi l'unica cosa dotata di esistenza. Ciò che non ha altri-da-sé consisterebbe essenzialmente nell'illudersi di avere altri-da-sé: Dio sarebbe tout court una contraddizione; l'originario sarebbe il falso, e di conseguenza non ci sarebbe alcuno spazio possibile per il vero, dato che sarebbe qualcosa di altro rispetto a ciò che si illude (e solo si illude) di avere altri-da-sé. 

Si potrebbe sfuggire a questa conseguenza affermando che l'illusione rappresenta solo una parte di quell'intero che è Dio, il quale nella sua completezza non è ma piuttosto contiene l'illusione. Quest'ultima linea di pensiero è però preclusa al discorso di ʿAṭṭār, che non intende compromettere in alcun modo l'assolutezza dell'unità divina con una posizione che presupponga un'articolazione interna alla natura di Dio:

«Il corpo non è disgiunto dall'anima, bensì ne è una parte e similmente l'anima non è separata dal Tutto, bensì ne partecipa. Ma poiché non esiste quantità ('adad) in questa via unica (ahad), si può dire che non vi sarà in eterno (abad) né “parte” né “tutto” [Cap.XIX - “L'asceta e il libertino”]»;

«Egli svanirà affinché solo Lui possa apparire, e ammutolirà affinché solo Lui possa parlare. La parte e il tutto non saranno più distinguibili, e una qualsiasi forma, o meraviglia, non sarà né spirito né materia […] [Cap.XXXVII:5 - “Una vecchia visita Abū ʿAlī”]».  

In definitiva la dualità che ʿAṭṭār vorrebbe togliere di mezzo continua a tornare, con aspetti sempre diversi ma identici nell'essenza. Ragione di ciò è che persino l'illusione che nega l'assolutamente positivo (l'Essere assoluto) non è Nulla, ma un positivo (un essere) a propria volta. Detta in altro modo: se pure le cose del mondo sono ombre – esistenza derivata, negativa, illusoria – non per questo si è autorizzati a concludere che siano niente.  

L'assurdità fondamentale del discorso ontologico di ʿAṭṭār, e del monismo assoluto in generale, sta nel voler tener fermi in Dio due dimensioni contrastanti: il suo essere il Tutto assoluto e il suo essere l'Uno assoluto. 

Da una parte nessuna unità semplice, indifferenziata al proprio interno, può essere una totalità: sarebbe totalità di niente, totalità vuota e dunque tale solo di nome, in quanto priva della pluralità che dovrebbe unificare.  

Dall'altra parte nessuna totalità propriamente detta può essere unità semplice e indivisibile sotto ogni punto di vista, ma  sarà sempre unità di molteplici, perché al suo interno si andranno a distinguere le parti di cui è tutto, nonché il suo stesso essere-tutto rispetto all'essere-parti delle parti. Questa contraddizione viene nascosta dall'ambigua consistenza ontologica del mondo di cui si è parlato precedentemente. In virtù di ciò le cose vengono viste di volta in volta come esistenti, così che si può attribuire a Dio l'essere il Tutto che le contiene, oppure come inesistenti, salvaguardando l'assoluta unità divina che non ammette alcuna dualità esterna o interna a sé. 

Sarebbe erroneo pensare che le aporie emerse siano conseguenza di un pensiero estraneo alla tradizione religiosa islamica. Di quest'ultima ʿAṭṭār e il Sufismo monista rappresentano, seppur in modo diverso dalla teologia dialettica (kalām) e dalla filosofia ellenizzante (falsafa), uno dei massimi gradi di autocoscienza: in opere come il Manṭiq al-Ṭayr non fanno che venire alla luce, a esplicitarsi, quelle aporie che nel pensiero religioso perlopiù restano celate, implicite. E, lo ricordiamo, il mostrarsi di una contraddizione come contraddizione è il presupposto del suo superamento.  

In vista anche di un'esemplificazione di quanto veniamo dal dire, chiudiamo la sezione discutendo il contenuto di un passo eccezionalmente importante per l'economia generale del nostro discorso. Vi vediamo emergere uno dei temi teologici per eccellenza, la creatio ex nihilo, in una prospettiva di inaudita radicalità:

«In principio Egli legò la terra, inchiodandola con i monti, e il suo volto deterse nelle acque degli oceani. Quindi caricò la terra sulla groppa di una vacca, e questa sul dorso di un pesce che nuota nell'aria. Ma l'aria su cosa giace? Sul nulla! O non essere, tutto dunque a nulla si riduce. Rifletti, almeno una volta, sull'opera di questo Re che ogni cosa ha fondato sul nulla. Poiché tutto è dall'Uno sostenuto sul nulla, non v'è dubbio che tutto in realtà sia nulla. [“Invocazione”]».

La forma dell'argomentare stupisce per la sua chiarezza e linearità, quasi un sillogismo in forma letteraria, ma il contenuto appartiene a quanto di più profondo e vertiginoso sia mai emerso nella storia del pensiero. Un'antinomia che ha saputo eludere gli intelletti di innumerevoli teologi e filosofi. Questa la sua formulazione più immediata: se tutto è creato dal Nulla, allora il tutto è Nulla. 

A questo si ribatterà, e con buona ragione, che è assurdo equiparare al Nulla la totalità delle cose esistenti le quali, in quanto e nella misura in cui appunto esistono, non possono aver rapporto con il Nulla. L'assurdo appena delineato compete di diritto proprio alla creatio ex nihilo.  

Cosa può significare infatti quest'ultimo concetto, una volta analizzato più da vicino? Che l'essente oggetto della creazione, l'atto divino che lo separa dal niente assoluto, è originariamente legato a quel niente assoluto. Per ʿAṭṭār, ma in realtà per ampie fette della coscienza filosofica e

teologica tanto occidentale che orientale, la distinguibilità delle cose dal Nulla (creatio) è fondata sulla loro originaria identità con esso (ex nihilo). L'esistente creato, che pure si dice non esser Nulla, è in qualche modo contiguo (cioè parzialmente identico) rispetto al Nulla: esso condivide qualche tratto con il Nulla; ma come si può condividere qualunque cosa con il Nulla? Di qui la contraddizione.  

Si noti che detta identificazione dell'essente e del Nulla non è qualcosa di incidentale al concetto di creazione, ma ne rappresenta il cuore: senza identificazione fra i due, l' “ex nihilo” non ha alcun significato, e Dio non può trarre le cose fuori dal niente, cioè non può creare alcunché. Si può infatti creare (o annientare) ciò che si ha la capacità di rendere diverso (o nuovamente identico) rispetto al niente, dove il verbo “rendere” indica quell'atto trasformativo reale in cui vanno a confliggere i termini dell'antinomia di cui sopra: nell'istante creativo la cosa deve sia essere, altrimenti non vi sarebbe alcun risultato dell'atto, sia non essere, in quanto la creazione suppone l'identità fra cosa e Nulla per potersi attuare.  

È il pensiero teologico, ben prima di Nietzsche o Leopardi, a nutrire il germe del nichilismo più dirompente, se per nichilismo s'intende non tanto un atteggiamento esistenziale teso a svalutare ogni valore ma la persuasione che a livello ontologico l'Essere o parti di esso possano venire equiparati al Nulla16. Nel passo che si è presentato la consapevolezza di tutto questo emerge con una vividezza inaspettata, come un fulmine a ciel sereno, ma come si è visto e si vedrà è l'intera opera a rappresentare un punto di vista privilegiato per portare alla luce le spinte nichilistiche interne al pensiero e all'esperienza religiosa. 

Se ʿAṭṭār può permettersi di lasciare come non risolte contraddizioni come quella di cui sopra, pur esprimendole con la potenza e la chiarezza che si sono viste, è perché in virtù del suo anti- intellettualismo le considera poco più che equivoci di una concettualità costitutivamente incapace di cogliere il Reale: equivoci – e qui sta la grande ironia dell'intera questione – che solo il compiuto annullamento del soggetto pensante può togliere di mezzo.

Il viaggio senza meta

L'escatologia mistica è senza ombra di dubbio il tema portante del Manṭiq al-Ṭayr. L'intera opera non è che il tentativo di descrivere, sia a chiare lettere che attraverso metafore, le precondizioni, le esperienze e le finalità della via mistica.  

Fra le precondizioni vi è un radicale contemptus mundi, che arriva a svalutare non soltanto i beni più smaccatamente mondani come le ricchezze o i piaceri corporali, ma la stessa esistenza personale dell'asceta e i suoi più intimi affetti:

«E in primo luogo ritira le mani da te stesso, perché solo così potrai iniziare il tuo cammino sulla via [Cap.XXIX]»;

«Il santo del Turkistan parlando di se stesso ebbe a dire: “Due cose soprattutto io amo: il mio veloce cavallo screziato e il mio piccolo figlio. Ebbene, se avessi notizia della morte di mio figlio, offrirei il cavallo in ringraziamento. Infatti io vedo che entrambi sono divenuti pericolosi idoli agli occhi dell'anima mia” [Cap.XXIX - “Il santo del Turkistan”]»;

«E se continuerai anche un pochettino ad avere desiderio dell'esistenza, resterai un infedele, un volgare idolatra. Se poi ti concederai anche per un solo istante all'esistenza, diverrai il bersaglio di una pioggia di frecce [Cap.XXXIV]»;

«Lungo questa via i veri amanti hanno imparato a giocarsi la vita e a ritrarre le mani dai Due Mondi [Cap.XXXVII:2 - “Due innamorati”]»;

«Questo è un viaggio che richiede uomini d'azione e dal cuore vivente, disposti ad offrire a ogni istante non una ma cento vite![Cap.XXXVII:2]»  

Interessante notare come il contemptus mundi venga esteso allo stesso aldilà paradisiaco, testimoniando la radicalità di una cerca che non vuole accontentarsi di nient'altro che Dio stesso:

«La maestà di Dio è mare immenso, al cui confronto il giardino dell'Eden è misera goccia. […] O tu che puoi giungere fino a questo mare, perché ti affretti dietro una goccia di rugiada? [Cap.V]»;

«Se Egli permette che ti trastulli nell'idea del paradiso o delle urì, sta' pur certo che ha voluto allontanarti da Sé [Cap.XXXVI - “Iddio a colloquio con Davide”]»; 

Altra precondizione della via mistica è quella di lasciarsi dietro la speculazione razionale per abbandonarsi a quella “passione amorosa” che sola sarebbe capace di condurre in modo esperienziale e immediato17 dall'angoscia della Separazione alla dolcezza dell'Unione:

«È direttamente che devi conoscerlo, non attraverso te stesso. La via sino a Lui si snoda da Lui, non dalla tua ragione! [“Invocazione”]»;

«Alla ragione è preclusa l'unione, la scienza non è partecipe del suo segreto [Ibid.]»;

«Passione e aridità non possono coesistere [Cap.XIII]»;

«L'intelletto, sappilo, non è maestro nella passione d'amore, giacché l'amore non è faccenda per l'innata ragione. L'amore è fuoco, l'intelletto fumo, e quando il primo appare l'altro vola via. Sempre amore trapassa palpitante dall'ardore allo struggimento e solo si placa quando raggiunge il suo scopo [Cap.XXXVII:2]»;

A questo punto ci sia permessa una breve digressione. I passi citati, gli ultimi due in particolare, rappresentano infatti un'ulteriore corroborazione dell'ipotesi che ʿAṭṭār non intenda negare in assoluto il principio di non contraddizione. Infatti amore e intelletto rimangono cose distinte e anzi opposte, al punto che «quando il primo appare l'altro vola via» (inconciliabilità dei contrari).

Tanto più che, se anche il nostro Autore intendesse effettivamente negare detto principio18, riuscirebbe a farlo solo a parole (in actu signato) e non nei fatti (in actu exercito). Vediamo perché: poniamo si intenda rifiutare la ragione, e con essa il principio di non contraddizione, per accettare l'amore; ma rifiutare la ragione così definita, ossia la facoltà della distinzione e della separazione, per accettare l'amore, ossia la facoltà dalla non distinzione e dell'unificazione, necessita proprio della distinzione fra ragione e amore, cioè della preliminare accettazione della ragione19. 

Le esperienze che attendono il mistico lungo la via sono in linea con le due precondizioni che abbiamo delineate – contemptus mundi e conoscenza unificatrice a-logica, esperienziale – e possono venire riassunte nelle sette valli di cui parla la quarta sezione dell'opera:

– una tensione trascinante verso la Ricerca di Dio;

– un Amore bruciante che porta l'anima a consumare se stessa, nel venir meno delle dicotomie su cui si fonda la religiosità comune (fede/empietà, bene/male, etc...);

– una forma di Conoscenza intuitiva tramite la quale il mistico può riconoscere la presenza di Dio in ogni cosa esistente;

– un senso di totale Distacco da entrambi i Mondi, sia quello terreno che l'aldilà, e da tutto ciò che contengono di buono o di malvagio;

– un'esperienza di Unificazione, in cui il molteplice viene meno e tutto ciò che rimane di fronte alla coscienza è il puro Uno;

– una forma di intimo Stupore dell'anima, che riconosce l'indecidibilità e la contraddittorietà dello stato in cui si trova;

– infine giunge l'Annientamento, l'eterno naufragare in Dio da parte di un individualità che ormai ha perduto se stessa.

Evidentemente è quest'ultima la finalità del viaggio mistico; ma in cosa consista tale stato finale, e quali siano le sue condizioni di possibilità, è cosa meno chiara. 

Riguardo alla prima questione, la natura dell'Annientamento prospettato da ʿAṭṭār, occorre sottolineare come quest'ultimo neghi in modo inequivocabile la possibilità di una qualche forma di unificazione ontologica fra creatura e Creatore, di identificazione fra il finito e l'Infinito:

«Chiunque ne venga a conoscenza (del segreto che consiste nell'essere ombra di Simurgh da parte dell'anima umana - ndr), non può che naufragare [in lui], ma non vogliate affermare per questo che egli sia Dio. Se tu diventi ciò che ho detto, non sarai Dio, ma t'inabisserai in Lui senza fine. Colui che naufraga, si fonde forse in altra sostanza? Ma questo non è discorso accessibile a tutti [Cap.XIII]».

Eppure un altro passo dell'opera pare contraddire quanto appena emerso:

«Se tu bruci l'aloe profumata o il legno più comune, si riducono entrambi a cenere indistinta, solo all'apparenza simili ma radicalmente diversi nella sostanza. [Ugualmente accade per noi:] se un impuro affonda nel mare del Tutto, resta entro i confini della sua sostanza trattenuto dalle sue impurità; ma quando è un puro a immergersi in questo mare, scompare persino ai propri occhi e il suo movimento si uniforma a quello del mare, e sarà di una perfetta bellezza, avendo cessato di esistere [Cap.XXXVII:7]».

In questo caso però la contraddizione ci sembra soltanto apparente, cagionata da una modalità di espressione che spesso sacrifica la coerenza formale per offrire suggestioni nella forma di immagini plastiche. La chiave di volta capace di mostrare la concordanza dei due passaggi è proprio nell'ultima frase che si è citata: «sarà di una perfetta bellezza, avendo cessato di esistere». Il finito diventa l'Infinito nella misura in cui smette di esistere in quanto tale.  

Si noti come questo non sia in contrasto con quanto detto precedentemente sull'impossibilità, da parte della sostanza dell'uomo, di diventare la sostanza di Dio. Infatti, dato che l'uomo si annulla compiutamente in Dio, niente di ciò che caratterizza l'uomo in quanto uomo può essere predicato di Dio e viceversa. Il “divenire” che conduce dal finito all'Infinito è atipico, perché richiede il completo annientamento del primo termine, dove invece ogni altra forma di trasformazione conserva perlomeno alcuni tratti di ciò che va a trasformarsi. Si tornerà su questo concetto successivamente, mostrando che un divenire inteso come totale annullamento del termine che diviene non è soltanto atipico, ma non è proprio divenire.  

Ad ogni modo, i passi che corroborano questa interpretazione sono presenti in quantità nell'opera:

«[...] li renderò ombre del Mio vicolo e per loro leverò il sole del Mio Volto! Ma se questo sole risplende, come può anche una sola ombra allungarsi nel Mio vicolo? Quando l'ombra s'annulla nel sole, questo solo rimane e Dio ne sa certamente di più [Cap.XXIX - “Il racconto di Ḏū-l-Nūn”]»;

«E poiché nulla resta di me, neppure il nome, com'è possibile che io mi prostri e riverisca il sovrano? Se in quell'istante tu vedi qualcuno, non sono io, è bensì il re del mondo! E se tu concedi una sola grazia o infinite, in verità lo concedi a te stesso! E come potrebbe un'ombra annullata dal sole rendere omaggio a qualcuno? [Cap.XXXVII:4 - “La parata dell'esercito di Maḥmūd”]»;

«Egli svanirà affinché solo Lui possa apparire, e ammutolirà affinché solo Lui possa parlare [Cap.XXXVII:5 - “Una vecchia visita Abū ʿAlī”]»;

«Questa è la valle dell'oblio, il luogo del mutismo e della sordità, dell'estremo deliquio, in cui infinite ombre vedrai eternamente annullate in un unico sole [Cap. XXXVII:7]».  

Certi altri passaggi potrebbero suggerire che tale stato finale possa essere descrivibile tramite una contraddizione:

«Purché una porta ti sia aperta, giungerai ad accettare l'empietà e la maledizione, e quando finalmente si sarà aperta, per te più non esisteranno né fede né empietà, poiché oltre quella si cancella per sempre ogni distinzione [Cap.XXXVII:1]»;

«La parte e il tutto non saranno più distinguibili, e una qualsiasi forma, o meraviglia, non sarà né spirito né materia, e quattro non sarà più quattro e mille sarà più di mille![Cap.XXXVII:5 - “Una vecchia visita Abū ʿAlī”]»;

«Infatti, se volgevano lo sguardo verso Simurgh, vedevano i trenta uccelli (superstiti del viaggio – ndr) e guardando ancora se stessi rivedevano lui. E se poi guardavano da una parte e dall'altra al contempo, null'altro appariva che un unico Simurgh. O meraviglia, questo era quello e quello era questo: quando mai nel mondo si era udito qualcosa di simile? [Cap.XLV - “L'annientamento degli uccelli”]».

Come già osservato in precedenza20, non ci pare che qui ʿAṭṭār voglia sostenere che la contraddizione descriva compiutamente lo stato finale cui approda la via mistica ma piuttosto che la sua intenzione sia, da una parte, sottolineare l'insufficienza di ogni discorso razionale riguardante detto stato e, dall'altra, far emergere che a quel punto la distinguibilità delle cose non sussiste più in quanto sono le cose stesse ad essere diventate nulla: per usare i termini del linguaggio ʿaṭṭāriano, non è più possibile distinguere il Due dall'Uno non perché il Due sia l'Uno, ma perché il Due si annulla in quanto Due. Si noti al riguardo il seguente passo, in cui viene descritta la valle dello Stupore:

«Quando il viandante giungerà smarrito in questi luoghi, immerso nello sgomento e senza una direzione, dovrà perdere se stesso nella via dello stupore, totalmente, divenendo ignaro della propria esistenza e di quella delle altre creature. Colui che abbia impresso nell'anima il sigillo dell'Unità, qui smarrirà le tracce di ogni cosa e persino della propria persona. E se qualcuno gli chiederà: “Esisti o non esisti, ci sei o non ci sei? Sei ancora presente o ti sei tolto di mezzo? O sei sul limite? Sei nascosto o manifesto? Ti sei annullato o eternato, entrambe le cose?”, egli risponderà: “Io in verità non so nulla, non so né questo né alcunché di me stesso. Mi sono innamorato, ma ignoro di chi. Non posso considerarmi né un credente né un miscredente, ignoro che cosa io sia. Dell'amore [che mi governa] io neppure ho coscienza, il mio cuore è ripieno di  passione ed è vuoto al contempo” [Cap.XXXVII:6]».  

Il “viandante” sta confessando la propria ignoranza, la nullità del contenuto del proprio discorso, non sta sostenendo che il suo stato sia descrivibile tramite una contraddizione.

Quanto rilevato non viene smosso dall'ultima affermazione, che pure a tutta prima ha l'aspetto di un ossimoro. Il cuore è infatti “ripieno di passione” e “vuoto” al contempo, ma secondo due aspetti diversi: è “pieno” nella misura in cui l'amore effettivamente lo guida ed è “vuoto” nella misura in cui il viandante non sa dire, né esser conscio di, quell'amore che pur lo guida. Questa è sì una contraddizione – in quanto il parlante deve pur in qualche modo essere conscio dell'amore che lo guida per negare di esser conscio che l'amore lo guidi – ma possiede un carattere peculiare in quanto investe il discorso, e non il soggetto del discorso, come invece quelle proposizioni che descrivono il soggetto in questione come, ad esempio, “annullato e non annullato” oppure “presente e non presente”. In altre parole, il viandante si sta contraddicendo, ma non è lui stesso una contraddizione21.

Ci troviamo qui alle soglie di quel ridursi al silenzio della parola cui si è già accennato e che prelude al totale annullamento del parlante stesso.

Si consideri anche quanto ʿAṭṭār afferma di seguito:

«Egli sarà e non sarà nello stesso tempo, ma come è possibile questo? È un mistero che sfugge a immaginazione e intelletto [Cap.XXXVII:6]».  

L'apparenza di contraddizione, utilizzata dall'Autore come argomento retorico per sostenere l'impotenza della speculazione razionale, viene tolta rilevando come, nemmeno se si resta fedeli al discorso di ʿAṭṭār, risulti necessario dire che l'uomo annullatosi in Dio sia e non sia la medesima cosa sotto il medesimo aspetto22: egli «sarà» nella forma dell'altro, cioè di Dio, e «non sarà» nella forma di se stesso, cioè dell'uomo. In caso contrario, se si volesse far diventare la proposizione precedente una contraddizione, il nostro autore dovrebbe dire che l'uomo, annullandosi in Dio, non si annulla in Dio in quanto «sarà» ancora se stesso.  

A questo riguardo emerge la figura della “Permanenza dopo l'Annientamento” – questa sì una contraddizione in termini – che però ha un'importanza minimale nell'economia generale dell'opera e non viene fatta oggetto di sviluppi speculativamente significativi. Se ne tratterà in conclusione.  

Infinita distanza fra il finito e l'Infinito; raggiungimento del secondo come implicante l'annullamento del primo; impotenza della razionalità a descrivere lo stadio finale di questo processo: questi i tratti essenziali del discorso ʿaṭṭāriano. A ulteriore riprova di quanto sosteniamo citiamo uno dei passaggi decisivi dell'opera, nel quale a un primo suggerimento di una identità o identificazione possibile fra uomo e Dio segue la lapidaria presa di coscienza che quest'ultimo è al di là di ogni somiglianza e che per raggiungerlo è necessario un annullamento totale:

«Finalmente il fulgido sole della Vicinanza rifulse su di loro e i suoi raggi vennero riflessi nelle loro anime. Allora nel riflesso abbagliante del volto del “simurgh” del mondo essi contemplarono il volto di Simurgh. Osservando più attentamente si accorsero al di là di ogni dubbio che i trenta-uccelli altri non erano che Simurgh: ne furon tutti stupiti e sbalorditi, né potevano comprendere cosa fossero divenuti. Videro in se stessi un perfetto Simurgh e Simurgh d'altronde era i trenta uccelli! […] Gli uccelli, in preda allo Stupore, rimasero un poco a pensare pur senza pensieri, ma non venendo a capo di nulla interrogarono senza parole quell'augusta Presenza, implorando la spiegazione di questo assoluto mistero per cui il “noi” e il “tu” apparivano uniti. E giunse senza parole la risposta di quella Presenza: “Noi siamo uno specchio grande come il sole e chiunque in esso guardi, vede l'immagine di se stesso, del corpo e dell'anima, dell'uno e dell'altra. […] Per quanto siate mutati, vedrete voi stessi, e in verità voi avete visto esattamente voi stessi. Chi mai potrà spingere il suo sguardo fino a Noi? […] Voi siete trenta uccelli in preda a stupore, ormai privi del cuore, dell'anima e della serenità, ma Noi siamo oltre e prima di voi, giacché formiamo l'essenza di Simurgh.  Annullatevi in Noi, in gloria infinita, e dentro di Noi ritroverete voi stessi” [Cap.XLV - “L'annientamento degli uccelli”]».  

Veniamo dunque a considerare le condizioni di possibilità del raggiungimento della meta prospettata, prima nella consapevolezza di ʿAṭṭār e successivamente in quella di chi scrive.  

L'Autore, a dire la verità, pare più interessato a discutere come si possa raggiungere l'annullamento in Dio – e di qui tutta una pletora di indicazioni riguardanti il contemptus mundi e l'abbandono all'amore – rispetto al domandarsi se tale annullamento sia possibile. Solo in un passaggio tale questione emerge esplicitamente; di seguito la risposta che viene offerta:

«Morire durante questa ricerca non è forse preferibile al soffocare ignominiosamente nell'immondizia? E se anche la ricerca, la mia o la tua, si rivelasse un errore e io ne morissi per l'angoscia, sarebbe comunque giusta e meritoria. Poiché infiniti sono gli errori del mondo, uno in più non modifica nulla! […] E se qualcuno dicesse che questo desiderio è vana presunzione e che non è possibile giungere là ove nessuno è mai giunto, ebbene tu rispondi che offrire la vita stessa per siffatta presunzione è azione più nobile che attendere agli affari di casa e bottega [Cap.XVIII]». 

Al di là dell'intensità espressiva, l'argomento è deludente: la questione viene tolta di mezzo, travisata, non risolta. Si tenta aggrapparsi a una giustificazione etica (“la ricerca sarebbe comunque giusta e meritoria”) per colmare un vuoto di certezza teoretica, declinato sia nella forma della possibilità contraria (“se anche la ricerca si rivelasse un errore”) oppure in quella dell'impossibilità assoluta (“non è possibile giungere là ove nessuno è mai giunto”).

Il tentativo non può che dimostrarsi fallimentare, in quanto sta cercando di scavalcare la metafisica attraverso l'etica, e questo è impossibile poiché le due non si pongono su un piano paritario: si ammetta pure che, dato il vero, l'etica debba allinearvisi e affermare che perseguirlo è meritorio; da questo non segue che la metafisica debba invece piegarsi alle pretese dell'etica e affermare che ciò che è meritorio è anche vero.  

Tanto più che un'assoluta separazione della teoretica dall'etica, che permetterebbe a quest'ultima di elaborare i propri dettami prescindendo da considerazioni di verità e falsità, risulta impossibile. Questo perché ciò che deve essere fatto – il dover-essere, campo dell'etica – è necessariamente un sottoinsieme di ciò che può essere veramente fatto – il realmente possibile, campo della metafisica: se il mare fosse pietra, impossibile da navigare, non avrebbe alcun significato sostenere che lo si dovrebbe navigare, o che sarebbe meritorio navigarlo. In altri termini, l'etica può indicare come contenuto dei propri dettami, cioè come meritorio, soltanto una parte di ciò che ritiene veramente possibile; così che porre qualcosa come meritorio significa porlo implicitamente come veramente possibile. Viene così invalidato l'argomento di ʿAṭṭār secondo cui la ricerca dell'Annientamento in Dio sarebbe giusta e meritoria anche se fosse un errore, cioè se non fosse realmente attuabile: l'esser giusto e meritorio da parte di qualcosa invece presuppone necessariamente il suo essere realmente attuabile. 

Tramite questa mediazione logica il discorso di ʿAṭṭār arriva a mostrarsi come contraddittorio, in quanto implicitamente afferma che, se anche l'Annientamento non fosse realmente attuabile, ciononostante sarebbe realmente attuabile nella misura in cui tale proprietà è implicata dal suo essere meritorio23. E poi, anche dal punto di vista della pura morale, in base a quali presupposti potrebbe darsi come meritorio qualcosa come perseguire il falso, o l'impossibile? Che tipo assurdo di etica ne emergerebbe? 

Tanto più che, agli occhi della consapevolezza di chi scrive – se mi è permesso esprimere una personale opinione - la perseguibilità dell'Annientamento mistico non si presenta né come attuabilità reale né come possibilità indecidibile, ma come assoluta impossibilità. Qui si perviene, infine, al nucleo dell'intero discorso portato avanti fin'ora: l'inconciliabilità dell'Annientamento mistico con quegli stessi presupposti su cui esso pur si basa. 

In estrema sintesi, la posizione di ʿAṭṭār è la seguente: esiste la possibilità che una forma atipica di divenire conduca al completo annullamento dell'individualità umana, e che a tale annullamento corrisponda o segua l'apparire di Dio nella sua compiutezza. Questa prospettiva afferma la conciliabilità, e anzi l'implicazione reciproca, fra divenire, annullamento dell'individualità e apparire di Dio. Si può facilmente mostrare come nessuno di questi tre elementi sia conciliabile con gli altri due.  

Si consideri in primo luogo la relazione fra divenire e annullamento. Ogni divenire di cui venga fatta esperienza nell'esistenza ordinaria si può descrivere come un passaggio da un termine – l'Inizio – a un secondo termine – il Risultato – nel quale viene conservata una parte del primo: la legna e la cenere, per quanto possano essere diverse, mantengono una serie di proprietà fisiche comuni, oltre che la loro collocazione spaziale e così via. Se non fosse così, se non ci fosse una qualche permanenza dell'Inizio nel Risultato, non si potrebbe mai dire che “l'uno è divenuto l'altro”, dato che avendo di fronte solo l'altro non ci sarebbe modo di affermare l'uno. In altri termini, l'intelligibilità del passaggio necessita che in qualche modo siano compresenti e l'Inizio e il Risultato, che l'Inizio permanga parzialmente nel Risultato, altrimenti non si darebbe alcuna nozione del passaggio e vi sarebbe il solo Risultato (che, in quanto slegato dal passaggio, non sarebbe nemmeno Risultato di alcunché): non si direbbe che, una volta divenuta cenere, è stata proprio la legna a diventare cenere; ma piuttosto si direbbe che si dà solo la cenere, senza possibilità di affermare il passaggio fra le due. Ogni divenire dunque, proprio per essere concepibile come divenire, implica la parziale permanenza del termine che diviene.  

Ora, come può l'annullamento totale di cui stiamo discutendo essere una forma di divenire? Lo si potrebbe definire come quel tipo di divenire in cui l'Inizio è l'uomo e il Risultato è il Nulla, ma quanto così descritto è divenire soltanto nel nome. Se infatti per definizione niente dell'Inizio permane nel Risultato, che in quanto il Nulla non contiene alcunché, su quale base si potrà affermare che esso è Risultato dell'Inizio, o persino che si dà un qualunque Risultato? In che modo potrà essere concepibile il passaggio fra due termini, se il secondo non esiste? Tenendo fermo il Nulla come assoluta negatività, ogni relazione fra le cose e il Nulla è a propria volta niente; così è niente anche quella peculiare relazione in cui dovrebbe consistere il passaggio fra l'Inizio e il Risultato dell'annullamento. Dire che una qualunque cosa si annulla, cioè che passa nel Nulla, equivale a dire che il suo passaggio è a propria volta Nulla, non esiste, dunque che la cosa in realtà non passa.  

Non si confonda il nostro discorso sull'assurdità dell'equiparazione di divenire e annientamento totale - assurdità di cui ʿAṭṭār non ha consapevolezza - con la sua comprensione del fatto che annullarsi in Dio non equivale a diventare Dio:

«Se tu diventi ciò che ho detto, non sarai Dio, ma t'inabisserai in Lui senza fine[Cap.XIII]».

Qui il nostro autore sta semplicemente dicendo che il diventare-Nulla da parte del finito non è il suo diventare-Dio. In questione nel nostro discorso è invece il fatto che nessun divenire può essere un diventare-Nulla. 

Con qualche contorsione intellettuale si potrebbe pensare che il concetto di “Permanenza dopo l'Annientamento”, di cui ʿAṭṭār parla in conclusione dell'opera, rappresenti un abbozzo di soluzione dell'aporia qui delineata. Per quanto emerge dal testo, non ci pare possibile:

«Il seme fu nutrito con cure infinite sin da quando fu in grado di discernere e di agire, e allora fu reso cosciente dei segreti che custodiva e gli fu data conoscenza dell'azione da intraprendere. A quel punto fu lasciato morire e totalmente cancellato e dalle altezze dell'onore precedente venne scagliato negli abissi dell'abiezione. Fu poi trasformato in polvere della via e più volte annientato. E solo in quello stato di totale Annientamento gli furono rivelati molteplici segreti: furono rivelati a lui, ma senza-di-lui! Venne infine innalzato al soglio della Permanenza e in lui l'occhio dell'abiezione fu mutato nell'occhio della Gloria. […] Non ti sarà possibile nella Permanenza contemplare l'eterna verità finché non comprenderai la tua difettività nell'Annientamento. […]   Cerca di farti nulla affinché l'Essere da Lui ti giunga: finché sei, come potrà l'Essere giungere sino a te? Come otterrai la conferma della Permanenza e della Gloria se non osi cancellare ignominiosamente te stesso nell'Annientamento? [“Epilogo”]».  

Pur ammettendo, e non concedendo, che secondo questo discorso ciò che permane abbia qualche tratto comune con ciò che è annientato – cosa che sarebbe in esplicita contraddizione con una quantità di passi citati sopra – è da rilevare come qui ʿAṭṭār non stia depotenziando il concetto di Annientamento affiancando ad esso la Permanenza, così che in realtà non vi sarebbe pieno annullamento. Tutto il contrario: un completo Annientamento è condizione necessaria della successiva Permanenza, ovvero la Permanenza presuppone l'Annientamento.  

Passi come i seguenti paiono lasciare poco spazio a interpretazioni di segno diverso da quella proposta:

«Annullatevi in Noi, in gloria infinita, e dentro di Noi ritroverete voi stessi [Cap.XLV - “ L'annientamento degli uccelli”]»;

«Se non si annulla totalmente nel sole, come può un atomo durare in eterno? [Cap.XXVII - “ Un tale interroga Junayd”]». 

ʿAṭṭār qui sta dicendo che, affinché una cosa permanga, deve prima di tutto annullarsi: per essere occorre in primo luogo non essere.  

Questo non fa che raddoppiare la contraddizione: prima la cosa deve diventare Nulla, e a questo punto soltanto può divenire nuovamente (se stessa? Dio?) e raggiungere la Permanenza. Abbiamo perciò due forme impossibili di divenire in successione: una in cui la cosa è l'Inizio e il Nulla il Risultato, l'altra in cui il Nulla è l'Inizio e la Permanenza il Risultato. Se infatti la Permanenza fosse, assieme al Nulla, Risultato del primo divenire, l'Annientamento non sarebbe tale e l'intero discorso portato avanti da ʿAṭṭār non avrebbe alcun significato.  

Veniamo ora ad analizzare la relazione fra divenire e apparire di Dio. Come si è in più occasioni avuto modo di vedere, ʿAṭṭār nega che al divenir-Nulla dell'uomo corrisponda il suo divenir-Dio; questo evidentemente al fine di rigettare ogni possibile forma di compromissione della positività assoluta dell'Infinito con la negatività presente nel finito. Vi è però una ragione meno generica per cui si deve necessariamente negare che il finito possa diventare l'Infinito, e tale ragione discende dal fatto che l'eternità è un attributo necessario e distintivo di Dio: la prospettiva di diventare Dio pone quest'ultimo come Risultato di un divenire, ma eternità significa proprio impossibilità a divenire in qualunque senso; un'eternità “divenuta” è una semplice immortalità. In altre parole, se Dio è qualcosa che si può diventare, allora non può essere ciò che dovrebbe essere (eterno). 

E fin qui il discorso ʿaṭṭāriano concorda con il nostro. Il problema sorge nel momento in cui si ponga in questione cosa possa significare un concetto come “apparire di Dio”. Si dice infatti che Dio appare, ma a chi? Se apparisse all'uomo in quanto tale, cioè al finito, il suo apparire sarebbe condizionato dai limiti dello sguardo che lo vede, e dunque non sarebbe quel pieno apparire in cui è proprio Dio a mostrarsi, e non una sua distorta e limitata immagine. Tanto più che lo sguardo del finito dovrebbe annullarsi, nella prospettiva di ʿAṭṭār.

In vista di quanto rilevato Dio appare veramente, nella sua pienezza, solo a se stesso: l'Infinito è quello sguardo che si vede Infinito. A questo punto affermare che l'uomo, nell'annullarsi, diventa l'apparire di Dio, o anche solo il supporto di tale apparire24, significa affermare che il finito diventa l'Infinito. Quindi si ripropone l'auto-contraddittorietà del divenir-eterno delineata sopra.  

Per quanto riguarda la conciliabilità fra annientamento dell'uomo e apparire di Dio, per un verso si ripropone quanto appena rilevato: pensare che il mostrarsi di Dio a Sé possa essere condizionato dall'annullamento dell'uomo, o segua da esso, significa pensare Dio stesso come diveniente, in questo caso non perché sia posto implicitamente come Risultato di un divenire ma perché si fa dipendere una sua caratteristica da un evento contingente. Per un altro verso è da notare come dall'implicazione fra apparire di Dio e annullamento dell'uomo segua necessariamente che il Dio- Uno non può essere il Tutto. A tale Dio infatti manca perlomeno quell'essere che si è annullato per farlo apparire, il quale se pure tornasse a esistere tale e quale nella “Permanenza dopo l'Annientamento” – e comunque non pare questo il caso, in ʿAṭṭār – non potrebbe essere esattamente proprio lo stesso che era in passato perché mancherebbe perlomeno il suo “essere-nel- passato-prima-di-annullarsi/unificarsi”: factum infectum fieri non potest, altrimenti si vanificherebbe l'annullamento stesso. In altre parole, all'Infinito non può che mancare perlomeno il finito nella sua finitezza.  

Se anche le “ombre” del mondo avessero un'esistenza derivata, negativa, illusoria e così via, pur sempre di esistenza si tratterebbe. E il loro sparire senza traccia all'apparire del “Sole” non potrebbe coincidere con l'infinita ricchezza di quest'ultimo, ma con la sua assoluta povertà. 

Non si tratta di una conseguenza da nulla, perché la coincidenza fra Dio, Uno e Tutto è qualcosa che ʿAṭṭār intende tener fermo in ogni modo, per esempio degradando a illusione l'idea che gli uccelli siano mai stati veramente separati da Simurgh:

«Quanto fin qui avete visto o conosciuto, in realtà non accadde, e quanto avete detto o udito non è mai stato; e [neppure mai sono esistite] le valli che vi siete lasciati alle spalle, o le stazioni ove virilmente poteste maturare. In realtà voi tutti avete marciato senza mai deviare dall'alveo della Nostra Azione e avete riposato nelle profonde valli delle Nostre Qualità [Cap.XLV - “L'annientamento degli uccelli”]».  

In realtà un tentativo di soluzione del genere non risolve il problema. Se pure si dicesse che non vi è alcun vero divenire e alcun vero annientamento, che si tratta di illusioni prodotte da una falsa coscienza, resterebbe il fatto che qualcosa – la coscienza illusoria, ma neanche totalmente illusoria.25

– diviene e si annulla affinché qualcos'altro – la coscienza vera, ma neanche totalmente vera26 – possa apparire.  

E se si negasse persino questa forma residuale di divenire e di annullamento, non ci sarebbe alcuna possibilità di un qualsivoglia “passaggio” dal finito all'Infinito, le due dimensioni permarrebbero eternamente ciò che sono loro senza possibilità per la prima di trapassare nella seconda. Ancora una volta il “viaggio” mistico si dimostra una contraddizione in termini, perché se si vuol tener fermo che sia un viaggio (un divenire) bisogna negare che abbia una meta (Dio, che è il non-diveniente), ma un viaggio privo di meta da raggiungere non è un viaggio; e se invece si vuol tener fermo che ci sia una meta (non-diveniente) bisogna negare che sia meta di un viaggio (un divenire) ma, di nuovo, una meta senza viaggio che conduca ad essa non è una meta.

Crediamo che il presupposto fondamentale, e solo parzialmente esplicitato, nel discorso di ʿAṭṭār27 è che le cose del mondo, in quanto tali, non siano legate a Dio. Il finito è infinitamente abbandonato dall'Infinito, che nella sua assoluta trascendenza e unità non può accettare alcuna molteplicità interna a Sé. Così all'apparire delle cose coincide l'assenza di Dio, e all'apparire di Dio coincide l'annullamento delle cose. Di qui l'assurdo di progettare un divenire/annullamento che conduca all'apparire dell'Infinito, ovvero ciò che nel suo essere e nel suo apparire non segue ad alcun divenire né è dipendente da alcun annullamento. Diciamo tale progetto un “assurdo” in quanto, anche al di là delle contraddizioni delineate, rappresenta il tentativo di riunificare ciò che pur si è in primo luogo posto come irrimediabilmente separato. 

Quello che ʿAṭṭār, e il mistico in generale, non riesce a vedere è che il finito non può che essere per sempre separato dall'Infinito, oppure già da sempre contenuto in esso, ma in quanto finito, dunque come sua parte28: è necessario che l'unione con Dio non sia un meta da raggiungere, un niente che ancora deve venire ad essere. Nessun “viaggio”, dunque, nessuna trasformazione o annientamento: o fra Dio e le cose vi è un vuoto ontologico incolmabile, oppure vi è un pieno già da sempre colmato che in quanto tale non può essere “prodotto” di alcun processo, né “Risultato” di alcun divenire.

È d'altra parte evidente come il mistico non possa giungere a tale consapevolezza, perlomeno restando tale. Il nostro discorso non potrebbe infatti che risultargli deludente, perfino inaccettabile. Senza la necessità di un divenire che conduca all'unificazione con Dio tutte le cose, persino l'atomo più insignificante o la coscienza più lontana dalla verità, devono avere la medesima relazione (o assenza di relazione) con Lui. In questo quadro l'Amore tramite cui il mistico si propone di raggiungere l'unificazione è per forza di cose un'illusione, o perché non potrà mai raggiungere quello che vuole o perché invece lo ha già raggiunto, cioè crede di poter/dover raggiungere - e dunque non crede di possedere attualmente - qualcosa che non è un futuro possibile ma un presente necessario.  

È necessario comprendere come in questo tipo di misticismo venga alla luce con particolare forza la deriva nichilistica del pensiero religioso. Si tratta di un nichilismo attivo, performativo: l'afflato del mistico che si sente Nulla rispetto a Dio, che vuole essere Nulla affinché soltanto Dio sia, è non soltanto una constatazione della nientità di tutte le cose, ma un esplicito progetto di annientamento universale. E qui si giunge al culmine del paradosso: si vuole ridurre a niente le cose finite, e perfino se stessi, proprio per liberarsi da quella minorità ontologica – cioè dalla loro contiguità al niente – che si è constatata. Ci si uccide per liberarsi dalla morte.

Come si può progettare di salvarsi da una dose di veleno inghiottendone un'altra


Conclusione

In chiusura vogliamo prendere in considerazione due possibili obiezioni al discorso portato avanti nel presente lavoro.  

La prima può venire espressa nel modo seguente: è incongruo sottoporre a una critica basata sul principio di non contraddizione un pensiero che non intende sottomettersi a tale principio. 

Questa critica ovviamente presuppone, in contrasto con la nostra ipotesi29, che ʿAṭṭār intenda negare fino in fondo la validità del principium firmissimum. Ammesso e non concesso che le cose stiano in questo modo, da ciò comunque non segue che indagare il pensiero del nostro Autore tramite il vaglio della non contraddizione sia metodologicamente errato. Questo semplicemente perché non è possibile fare altrimenti: come mostra l'élenchos aristotelico30, il principio di non contraddizione è intrascendibile perché ogni sua negazione lo deve presupporre per distinguersi da esso. Non esiste quindi possibilità di “scegliere” fra accettare il principium firmissimum e non accettarlo, ma piuttosto fra un'accettazione coerente e una (più o meno) incoerente. Da questo segue che utilizzare la coerenza rispetto al principio di non contraddizione per analizzare l'ipotetico discorso del mistico che vuole rifiutare la razionalità non è un'imposizione metodologica esterna al pensiero del mistico, ma un restare fedeli al cuore del suo discorso più di quanto faccia il discorso stesso. 

Un'ulteriore tipo di obiezione alla nostra analisi potrebbe sorgere qualora si desse un diverso tipo di interpretazione dei passi esaminati e delle loro relazioni. Consci della falsificabilità di principio di ogni ipotesi in sede di ermeneutica testuale31, accettiamo a braccia aperte qualsiasi ulteriore interpretazione e chiarificazione volta a mostrare come ʿAṭṭār non intenda dire quello che, sulla base di un'analisi del senso immediato dei passaggi trattati, crediamo intenda dire; questo purché non si confonda la falsificabilità dell'interpretazione che attribuisce certe posizioni e contraddizioni al discorso di ʿAṭṭār con la negazione della necessità logica che lega tali posizioni e tali contraddizioni in quanto tali.  

In altre parole, che l'intenzione comunicativa di ʿAṭṭār – ma di qualunque autore, in realtà – coincida con l'interpretazione attuale (o con qualunque altra interpretazione) del suo discorso è destinato a rimanere un problema; d'altra parte, se ʿAṭṭār intende dire ciò che crediamo intenda dire, allora è necessario che il suo discorso si contraddica nei modi che si sono analiticamente indicati. Si noti inoltre come il carattere necessario delle connessioni fra certe tesi e certe contraddizioni permanga a prescindere dal fatto, in fondo ipotetico, che dette tesi siano state affermate da alcuno lungo la storia intellettuale dell'umanità.




1.- Per più dettagliate informazioni biografiche e bibliografiche si veda B. Reinert, "ʿAṭṭār, Farīd al-Dīn", in Encyclopaedia Iranica, vol.III/1, Londra: Routledge, 1987

2.- Il maṯnawī è una tipologia di componimento poetico senza alcun limite di lunghezza, strutturato in versi ( buyūt) fra loro indipendenti ma internamente strutturati in due emistichi a rima baciata. Il maṯnawī viene utilizzato per opere di ampio respiro, spesso a carattere narrativo o didattico, o narrativo e didattico.

3.- Uccello mitico del folklore nazionale persiano: ne parla Firdawsī (935-1025) nello Šāh-nāma, ma è già noto ai testi zoroastriani pre-islamici. Al riguardo cfr. H.-P. Schmidt, "Simorḡ" in Encyclopaedia Iranica, edizione online, New York: Routledge, 2002; una versione online è disponibile all'indirizzo http://www.iranicaonline.org/articles/simorg.

4.- Cit. Farīd al-Dīn ʿAṭṭār, Il verbo degli uccelli [Edizione Kindle], a cura di C. Saccone, Centro Essad Bey, 2013, Cap.I - "Invocazione". Ogni citazione presentata nel nostro studio proviene da questa edizione elettronica (ebook). Non essendo possibile indicare la pagina, è stato indicato il capitolo e eventualmente il titolo del brano.

5.- Da questo rilievo segue, ma ʿAṭṭār pare non rendersene conto compiutamente, che il comune linguaggio umano parla di Dio (anche se in modo indiretto) anche quando vuole parlare delle cose. Si riprenderà questo tema più avanti lungo la sezione.

6.- «La loro forma si plasma nell'ossequio: se non Lo adorassero, potrebbero mai avere un volto? [“Invocazione”]»

7.- La distinzione fra apparire astratto-formale e apparire compiuto-concreto di un certo significato sta alla base di qualunque tentativo possibile di parlare di ciò che oltrepassa l'orizzonte dell'esperienza, e risulta di capitale importanza nella presente trattazione. Di seguito ne forniamo un esempio, al fine di fugare eventuali incomprensioni: nell'esprimere il concetto "totalità delle cose" si vuol forse dire che tale totalità è effettivamente presente nella piena ricchezza delle sue determinazioni? No. Eppure nonostante questo il concetto ha un significato ben preciso che lo rende perfettamente intelligibile: il significato "totalità delle cose" si mostra cioè nel suo valore formale.

8.- Un esempio concreto di quanto andiamo dicendo. Si affermi pure di Dio che «è e non è qualunque cosa di Lui si dica». Ora, quest'ultima proposizione pur consiste nel dire qualcosa di Dio. A questo punto, assumendo il contenuto stesso della proposizione come una possibile individuazione dell'universale da essa indicato (il «qualunque cosa») segue che, se Dio è "ciò che è e non è qualunque cosa di esso si dica" allora allo stesso tempo non lo è: auto- contraddizione dell'indicibilità assoluta.

9.- In questo caso la classe di proposizioni in questione si contraddice non in virtù della propria struttura, a prescindere dal determinarsi dell'incognita X, ma in quanto quest'ultima assume un valore specifico che contraddice ciò che di essa si vuole predicare.

10.- Il problema inerente all'attribuzione dell'esistenza a un contenuto assolutamente indeterminato. 

11.- Si analizzerà più a fondo questo problema nella sezione successiva.

12.- Cfr. Infra, "Il viaggio senza meta" e "Conclusione".

13.- Sarebbe come dire che deve esistere il triangolo quadrato affinché si possa progettare di eliminarlo nel futuro. In realtà però il triangolo quadrato non può essere qualcosa di esistente che sia in qualche modo necessario eliminare. Più in generale: l'impossibile non può mai essere realmente presente.

14.- Il quale, al contrario di quanto si ritiene comunemente, non rappresenta la dottrina dominante all'interno del panorama filosofico dell'induismo medievale. Al riguardo cfr. Lorenzen D.N., "Who invented Hinduism?", in Comparative Studies in Society and History, XLI/4, 1999, pp.630-659 & Nicholson A. J., Unifying Hinduism: Philosophy and Identity in Indian Intellectual History, New York: Columbia University Press, 2010

15.- Non si vuole suggerire alcuna ipotesi di una "filiazione" indiana del pensiero di ʿAṭṭār, o del Sufismo monista più in generale, ma piuttosto rilevare una convergenza de facto da parte di tradizioni intellettuali differenti.

16.- Riguardo al nichilismo celato dell'ontologia classico-medievale e a quello conclamato della cultura filosofica contemporanea si vedano le magistrali opere di Emanuele Severino, specialmente Essenza del Nichilismo (Brescia: Paideia, 1972), Destino della Necessità (Milano: Adelphi, 1980) e Tautòtēs (Milano:Adelphi, 1995).

17.- Nel senso di "privo di mediazioni", o stadi intermedi, non semplicemente di "istantaneo".

18.- E in certi passi dell'opera potrebbe apparire che sia così. Si veda la fine della sezione per la nostra interpretazione di tali passaggi.

19.- Questo nostro argomento è una forma particolare dell'élenchos aristotelico, cioè dell'autoconfutazione che investe la negazione del principio di non contraddizione. Si badi bene che l'autoconfutazione non consiste nel rilevare che tale negazione si contraddice – in questo caso ci si troverebbe davanti a una petitio principii – ma nel mostrare che essa presuppone ciò che vorrebbe negare.

20.- Si vedano le osservazioni esposte nella prima sezione, "Comprendere l'Incomprensibile, esprimere l'Inesprimibile". 

21.- La distinzione potrebbe sembrare capziosa, ma non lo è affatto: una cosa è la contraddizione, ad esempio A=non-A, altra cosa è il contraddirsi, cioè la proposizione che dice «A=non-A». Sono cose tanto diverse che la prima non esiste e non può esistere per definizione, mentre la seconda esiste eccome e la prova di tale esistenza è proprio la sua presenza in questo discorso.

22.- Questo uno dei modi in cui può darsi la definizione di contraddizione.

23.- Cioè oggetto di un "dover-fare" che presuppone un "poter-fare".

24.- Vale a dire ciò senza cui tale apparire non si darebbe.

25.- Dato che almeno il suo divenire e il suo annullarsi ne verificano il contenuto. 

26.- Dato che il divenire e l'annullarsi dell'altra ne falsifica il contenuto.

27.- E con i dovuti distinguo e precisazioni si potrebbe estendere il discorso alla maggioranza dei mistici di ogni tempo e luogo.

28.- Giacché se non fosse parte sarebbe il Tutto, cioè l'Infinito stesso.

29.-  Cfr. Supra, "Comprendere l'Incomprensibile, esprimere l'Inesprimibile" 

30.- Si veda Aristotele, Metafisica, IV:3-6

31.- Non solo perché potrebbe cambiare, ampliarsi o ridursi il contenuto da considerare all'interno dell'interpretazione, ma perché potrebbero cambiare le stesse regole dell'interpretazione.


Bibliografia di approfondimento


• Aristotele, Metafisica [qualunque edizione]

• ʿAṭṭār Farīd al-Dīn, Il verbo degli uccelli [edizione Kindle], a cura di C. Saccone, Centro Essad Bey, 2013

• Bausani A., Il pazzo sacro nell'islam, a cura di Mauizio Pistoso, Milano-Trento: Luni, 2000

• Lorenzen D.N., "Who invented Hinduism?", in Comparative Studies in Society and History, XLI/4, 1999, pp.630-659

• Nicholson A. J., Unifying Hinduism: Philosophy and Identity in Indian Intellectual History, New York: Columbia University Press, 2010

• Reinert B., "ʿAṭṭār, Farīd al-Dīn", in Encyclopaedia Iranica, vol.III/1, Londra:Routledge, 1987

• Saccone C.,Viaggi e visioni di re sufi profeti. Storia tematica della letteratura persiana classica. Vol. I, Milano-Trento: Luni, 1999

• Id., Il maestro sufi e la bella cristiana. Storia tematica della letteratura persiana classica. Vol. II, Milano: Carocci, 2005

• Severino Emanuele, Essenza del Nichilismo, Brescia: Paideia, 1972

• Id., Destino della Necessità, Milano:Adelphi, 1980

• Id., Tautòtēs, Milano: Adelphi, 1995

• Schmidt H.-P., "Simorḡ" in Encyclopaedia Iranica [edizione online], New York: Routledge, 2002


Da: Quaderni di Meykhane V (2015)


FRANCESCO OMAR ZAMBONI Ph.D. in Filosofia (Scuola Normale Superiore, Pisa) con tesi dottorale sulla ricezione della dottrina eziologica di Avicenna nei pensatori islamici successivi. Ha conseguito la laurea magistrale in Lingue e Culture dell’Asia e dell’Africa nel 2015 presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna, con una tesi sulla trattazione del problema del male e delle religioni dualiste nell’opera del dossografo musulmano ʿAbd al-Karīm al-Šahrastānī. I suoi attuali ambiti di ricerca riguardano vari aspetti del pensiero arabo-islamico, dalla metafisica (ontologia, eziologia, mereologia) alla fisica (atomismo e anti-atomismo) fino alla teologia (problema del male, grazia, visione di Dio, resurrezione dei corpi). Ha pubblicato vari scritti sui temi menzionati, tra cui si possono menzionare: Is existence one or manifold? Avicenna and his early interpreters on the modulation of existence («Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale», 2020) e Come la Luna durante il plenilunio. Il dibattito sulla visione di Dio nel kalām («Rivista di Studi Indo-Mediterranei», 2017), nonché contributi in monografie come “Atomism and Islamic thought” (in U. Zilioli, Atomism in Philosophy, 2020) e “Concezioni della grazia nella teologia razionale islamica” (in B. Maj, cur., La Grazia. Declinazioni metafisiche e teologiche, letterarie e cinematografiche, 2016).

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