Franco Maurella | Dante Maffia: La poesia in dialetto
Va dato atto, in premessa alla mia relazione, tanto all’amministrazione comunale qui rappresentata dal sindaco Franco Durso e dall’assessore...
Va dato atto, in premessa alla mia relazione, tanto all’amministrazione comunale qui rappresentata dal sindaco Franco Durso e dall’assessore alla cultura, Sabrina Franco, quanto a Franco Perri, Giovanni Pistoia e Carlo Rango, di avere capito e, dunque, promosso, l’iniziativa culturale per parlare compiutamente di Dante Maffia che non è solo uno scrittore e poeta calabrese e rosetano ma che appartiene al mondo culturale internazionale per quanto ha prodotto ad ogni latitudine facendosi apprezzare come saggista, narratore e poeta.
Piu’ volte mi sono imbattuto in opere di Maffia che, dopo averle lette con grande attenzione, ho recensito sulle pagine culturali de “Il Quotidiano della Calabria”. Mi riferisco a Milano non esiste, a Gli italiani preferiscono le straniere, I racconti del ciuto, San Bettino Craxi, per finire a IO. Poema totale della dissolvenza alla cui recensione Il Quotidiano ha dedicato due pagine nello speciale del “Domenicale”. Ciò per dire che conosco a fondo l’opera di Maffia e ne ho seguito il percorso di crescita culturale riferendo, giornalisticamente, dei prestigiosi premi conseguiti: dalla medaglia d’oro alla cultura, conferitagli dall’allora Presidente della Repubblica, Carlo Azegio Ciampi, al Premio Matteotti, conferitogli dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri per il volume “Milano non esiste”. Dopo questa premessa, veniamo al tema affidatomi.
Il tema da trattare riguarda la poesia in dialetto di Dante Maffia. La poesia in dialetto e non dialettale, poiché, come esplicita Claudio Magris nella prefazione di I Ruspe cannarute, “poeta dialettale è chi rimane circoscritto nei limiti del suo immediato piccolo mondo, magari caldo e saporoso ma angusto, amato da chi vi appartiene ma non trasceso poeticamente nell’universale e chiuso a chi non vi appartiene”. In questo senso, aggiunge Magris, Dante Maffia e poeta in dialetto; il calabrese, per lui, è un linguaggio essenziale, scrostato di ogni scoria vernacola e pittoresca e depurato di ogni effetto letterario; un linguaggio che scende alle radici della vita, nel cuore dell’esistenza e del suo groviglio, in cui si intrecciano e coesistono gli opposti, l’ebbrezza e la desolazione, il senso e l’insensatezza dell’avventura umana, il suo tutto e il suo niente. Nelle quattro raccolte di poesie in dialetto rosetano, pubblicate da Maffia in altrettanti volumi (U Ddije poverille — I ruspe cannarute — A vite e tutte i jurne — Papaciomme) il dialetto è espressione rigorosa dei connotati essenziali derivanti dalla zona Lausberg, soprattutto calabro–lucana di cui Roseto fa parte. Nella sua poesia in dialetto rosetano, quello che le figlie Serena, Lara e Federica, cui è dedicato U Dije poverille, non conoscono perché senza dialetto, schiude le porte ad una realtà antropologica che Maffia rivela con linguaggio possente ed essenziale compiendo, anche, un’operazione di recupero della memoria remota di una comunità evitandone la dispersione, resa possibile dal fenomeno dell’emigrazione, dello sradicamento dalle proprie radici e dalle proprie origini. Maffia, è noto, non ha mai reciso il cordone ombelicale che lo lega alla sua terra d’origine. Probabilmente, la poesia in dialetto Rosetano rappresenta un omaggio ed un legame indissolubile con la sua terra, tanto da scriverne una, bellissima (Ricordi di New York — dedicata a Giuseppe Trebisacce), pubblicata sulla sua opera omnia Io. Poema totale della dissolvenza, scritta con il furore dal sapore di una rivolta contro l’inconsistenza, contro il dissesto portato avanti da una schiera di finti poeti che hanno sfaldato e offeso il verso facendolo diventare una opaca circostanza, contro una pochezza travestita e infiocchettata di finto estetismo.
La poesia in dialetto di Dante Maffia è stata presa in considerazione da insigni scrittori e poeti contemporanei che ne hanno sintetizzato gli aspetti essenziali. Vediamoli:
Capace di nuda essenzialità e di freschezza primordiale, Maffia è poeta doctus: [a questo proposito, ricordo che fu Dario Bellezza, parlando di Dante Maffia a Pier Paolo Pasolini, ad evidenziarne la smisurata cultura] la sua opera comprende la lirica come il romanzo, la saggistica e la critica. Scrittore che si situa all’incrocio di molte frontiere, Maffia si è confrontato con tante voci della letteratura contemporanea e con i nodi centrali della modernità, una delle sue caratteristiche piu’ felici è la compresenza di sottile e agguerrita coscienza critica, attenta alle ragioni storiche e allo sgomento del divenire, è fantasia mitica, pervasa dal senso dell’immutabile unità dell’essere. Entrambe queste corde sono vissute con generosa umanità, con un’intensa capacità di calarsi totalmente, con tutto se stesso, nel caldo ed impuro fluire della vita.
Claudio Magris, dalla prefazione a I ruspe cannarute, Milano, 1995
Dante Maffia è arrivato al dialetto dopo una lunga esperienza di poeta in lingua. Potrebbe nascere il sospetto di una crisi profonda che lo abbia spinto a rifugiarsi nei suoni e nei sensi dell’infanzia o potrebbe nascere l’idea che l’italiano sia giunto, per Maffia, ad un argine oltre il quale c’è il vuoto, l’afasia... Maffia mostra anche di avere un bioritmo con valenze culturali raffinate e profonde ed ha ragione Giacinto Spagnoletti nella prefazione di A vite i tutti i jurne quando lo fa appartenere alla generazione dei poeti della terza grande stagione della nostra lirica contemporanea, almeno con questo in piu’: possiede una dimensione straordinaria dell’armonia che non gli impedisce di aGrontare la scabrosità di un dialetto, quello di Roseto (in Calabria) arcaico, misto, di arabo e di greco, di latino, di spagnolo, e d’altri apporti che rendono misteriosi luoghi, immagini, presagi, constatazioni, note cromatiche, incanti d’amore
Andrea Zanzotto, da “Radio Lugano”, giugno 1987
La tua poesia sa di cultura, ha il sapore della Calabria antica e Dario fa bene a parlarne con entusiasmo, ammirato anche dalla tua cultura che gli sembra smisurata, anche se lui esagera sempre
Pier Paolo Pasolini
«Il tuo dialetto è stato una sorpresa: così inusuale, così estraneo all’uniformità dell’italiano... Mi convinci di piu’ quando non sei troppo polemico e irruento, quando riesci a raccontare come se fossi con la gente del tuo paese. Allora gli esiti diventano alti, altissimi.»
Natalia Ginzburg
Potremmo continuare a lungo citando tante e tante altre personalità insigni della cultura italiana ed internazionale che hanno parlato e scritto della poesia di Dante Maffia: da Aldo Palazzeschi a Leonida Repaci; da Mario Scotti a Gesualdo Bufalino; da Leonardo Sciascia a Primo Levi; da Giuseppe Pontiggia a Giovanni Raboni e fino agli internazionali Borges, Amado, Starobinski, Brodskij. Ne abbiamo citato solo alcuni per non comporre un elenco lunghissimo di prestigiosi nomi.
Di seguito, vediamo che posto occupa la poesia dialettale italiana nel panorama culturale nazionale.
Nel panorama della poesia italiana la produzione in dialetto riveste un posto di rilievo. Un po’ di storia. Nel corso dell’Ottocento si registrò una fioritura della letteratura dialettale, soprattutto nel teatro e nella poesia. Il fenomeno fu alimentato dapprima dalla curiosità, di matrice romantica, per il folclore e per le tradizioni popolari, che spingeva a continuare il lavoro di raccolta e di commento dei testi orali nei diversi dialetti, in seguito dalle tendenze naturalistiche e veristiche, che costituirono uno stimolo essenziale alla riproposta dei dialetti, intesi come documenti di realtà concrete e specifiche.
Per ciò che riguarda la poesia, una data importante per la nascita di una nuova produzione dialettale è considerata il 1872, quando apparve la raccolta Cento sonetti in vernacolo pisano di Renato Fucini (1843–1921). I Sonetti in dialetto romanesco di Giuseppe Gioachino Belli (1791–1863), composti tra il 1830 e il 1847 ed editi a partire dal 1886, provocarono una moltiplicazione di epigoni, tra i quali si distinse il romano Cesare Pascarella (1858–1940) e, soprattutto, il poeta napoletano Salvatore Di Giacomo (186o–1934). Nel corso del Novecento, nonostante De Sanctis, che considerava il dialetto una «malerba che la scuola dovrebbe provvedere a sradicare» e nonostante il fascismo, insofferente verso i dialetti, molti poeti trovano nelle lingue dei loro paesi di origine suoni e ritmi ideali per esprimere il proprio mondo interiore, filtrando gli oggetti del reale attraverso la propria sensibilità lirico–fantastica. I poeti, che hanno scritto sia in italiano sia in dialetto, nella scelta del dialetto sono stati guidati da diverse motivazioni, non ultima la ricerca di un linguaggio più autentico, non ancora intaccato dai media e capace di dare voce al loro mondo interiore.
Va comunque detto che questa poesia, anche se oggi non è più considerata letteratura minore, ha una limitata possibilità di circolazione, dato il declino delle forme dialettali soprattutto tra le nuove generazioni. In parziale controtendenza rispetto a questa affermazione si può notare che vi sono alcune culture giovanili minoritarie che utilizzano il dialetto d’origine come uno dei linguaggi atti a esprimere la loro protesta e il loro disagio (cultura “rap” e “posse”).
Ai dialetti, pur adeguatamente filtrati dall’italiano, hanno attinto a piene mani e ancora attingono i migliori scrittori d’Italia.
Infatti, come detto, tutte le volte che la letteratura italiana è venuta a trovarsi in stato di sofferenza comunicativa ed espressiva, ha ricevuto il soccorso dei dialetti, che della lingua sono l’inesauribile risorsa. Il dialetto è un deposito notevole di storia e di cultura e attraverso di esso e per mezzo dell’etimologia è possibile raggiungere profondità temporali assai lontane all’interno della storia e della preistoria di un territorio. Per tutti questi motivi e per tanti altri ancora il dialetto è un bene culturale che va salvaguardato, documentato, studiato e tramandato in quanto strumento espressivo dell’aGettività, dei rapporti personali e della confidenza, oltre che delle classi sociali meno acculturate. La lingua, viceversa e ancora una volta per chi la parla insieme al dialetto, è lo strumento espressivo della vita sociale e culturale. Nel dialetto —in quanto meno controllato e standardizzato della lingua— e nelle parole del dialetto meglio si deposita la storia, anche la più lontana, della comunità che lo parla. I dialetti hanno fornito agli scrittori, in particolar modo dall’unità d’Italia in poi, quegli elementi di novità che una lingua sclerotizzata da tanta letteratura non poteva dare. Infatti, ogni parola, del dialetto come di qualsiasi altra lingua, conserva in sé, come in una sorta di DNA, tracce delle sue origini, della sua vita e delle sue vicende tra gli utenti. Al punto che, a mettere insieme alcune parole di una lingua è possibile fare la storia linguistica di una regione. Non a caso il dialetto, in quanto legato al territorio, è l’interfaccia tra la (pre)istoria culturale del territorio e la realtà osservabile. Ancora una volta, il dato linguistico osservabile nel territorio si relaziona col fatto storico, che le parole, anche quando la storia tace, gridano o, se si vuole, cantano. Purché a farle cantare siano poeti come Dante Maffia.
Da: Ti presento Maffia a cura di Rocco Paternostro, Roma: Aracne Editrice (2014), pp. 199-204.