POESIA RUSSA | Arsenij Tarkovskij | Poesie scelte. Traduzione di Donata De Bartolomeo e presentazione di Giorgio Linguaglossa

Presentazione  di Giorgio Linguaglossa Viene qui presentata una ampia scelta delle poesie del poeta russo Arsenij Aleksandr...




Presentazione 
di Giorgio Linguaglossa


Viene qui presentata una ampia scelta delle poesie del poeta russo Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij, tratte dal volume Stelle sull’Aragaz, edito nel 1988 ad Erevan, che comprende oltre ad una raccolta della sua personale produzione poetica, anche traduzioni in lingua russa di poeti armeni a cura dello stesso Tarkovskij. Andreij Tarkovskij nasce nel 1907 ad Elizavetgrad (oggi Kirovograd) in Ucraina, e si dedica fin da giovane alla traduzione di numerosi poeti da svariate lingue (armeno, turkmeno, karakalpaco, georgiano, ebraico e arabo). Quanto questo assiduo esercizio di traduzione abbia influito sulla sua poesia è un problema aperto, ma certamente la frequentazione di una palestra stilistica così vasta ha avuto un peso rilevante nella elaborazione della peculiarissima aura di inattualità delle sue poesie e conforterà il poeta nei lunghissimi anni di silenzio cui sarà costretto. Il primo volume delle sue poesie vedrà la luce soltanto nel 1962, Pered snegom (Neve imminente, 1929-1940); nel 1969 esce Vestnik (Il messaggero 1966-1971); nel 1974 Sticotvorenija (Poesie); nel 1978 e nel 1979 escono rispettivamente Volsebnye gory (Le montagne incantate) e Zimnijden (Giornata d’inverno 1971-1979). Il 27 maggio 1989 muore a Mosca e viene sepolto a Peredelkino.

La presente traduzione ha rispettato fedelmente la misura del verso russo senza tentare una resa in un equivalente metro italiano, operazione che avrebbe fatalmente corso il rischio di falsare i ritmi colloquiali della lingua originale; la utilizzazione dell’a capo rigorosamente conformato a quello del testo russo ha consentito, in qualche misura, la conservazione anche nella versione italiana degli enjambements e delle cesure interne, così come dei tempi lenti di progressione delle immagini.

Se la rivoluzione è incentivo al trasognato lirismo di Chlébnikov, la «fame di spazio» occupa totalmente la mente dei grandi poeti russi del Novecento. Chlébnikov percorre due volte, andata e ritorno, la línea ferroviaria Chàr’kov-Kiev e attende la primavera appollaiato in cima a un albero di ciliegio nei pressi di Chàr’kov, o osserva il cielo stellato dall’alto di un treno in corsa. Così, Tarkovskij scrive una poesia ironica su un immaginario improbabile «catalogo delle stelle», e Mandel’štam cita la «lenta asmatica vastità» dell’orizzonte di Voronez ove «lo spazio ha perso gusto e colore», ovvero, guarda «nel bellissimo binocolo Zeiss… tutte le rughe dello gneiss», la catena dei monti dell’Ararat, l’odierna Armenia. Se Chlébnikov è un «viaggiatore incantato», e Brodskij, invece, nel suo esilio, rappresenta il «viaggiatore solitario», Tarkovskij è a metà, l’uno e l’altro, è poeta del sogno e della storia, entrambe le dimensioni trasfigurate nell’alone fiabesco della terribile storia russa, evanescente come un sogno. In Tarkovskij è presente la imagery dominante della poesia russa del XX secolo che è stata riassunta nella formula: specchio-candela-ombra-sogno, e che dalla Achmàtova passando per Derzavin, Baratynskij e Mandel’štam, giunge oggi fino a Brodskij.

Il manierismo debole di certe immagini di Tarkovskij non ha nulla di gratuito o di rococò, ma corrisponde ai movimenti lievi e improvvisi della memoria, d’una memoria inutilizzabile nel mondo che ha conosciuto la barbarie della seconda guerra mondiale; la sua è una poesia da camera, poesia d’un solitario che si rivolge ad altri solitari nella assoluta estraneità al mondo del Potere e della Storia. Lo spietato rigore della metrica e delle rime dei testi originali vuole soltanto ribadire il carattere addomesticato, domato della materia, il virtuosismo tecnico è virtuosismo formale che presuppone il dato dell’esistenza. Il materiale poetico è ciò che rimane della materia viva e palpitante della vita. La rivoluzione fa parte del trapassato remoto, e l’armamentario degli slogans del suo tempo trova il poeta non ostile, bensì completamente estraneo, come se abitasse un altro pianeta, la dacia dove volavano le farfalle. Anche l’orrore degli avvenimenti della propria biografia – come nella poesia «Ospedale da campo», ove viene rivissuto l’episodio dell’amputazione della gamba, avvenuto nel 1943 a seguito della ferita inferta da un proiettile esplosivo presso Velike Luki – viene trasfigurato in atmosfere di sogno e irreali.

La struttura simbolica significativa che presiede la poesía di Tarkovskij è rappresentata dalla opposizione tra la immobilità della storia russa e la direzionalità, la verticalità, il moto unidirezionale della modernità che irrompe con le immagini dei treni che sfrecciano e degli aeroplani che volteggiano. Detta polarità è attraversata dalla figura del poeta-profeta, «cronista del mesozoico», «il Geremia dei tempi futuri» che tiene in mano «l’orologio e il calendario»; strumenti, marchingegni escogitati dall’uomo per tentare di conciliare il tempo oggettivo e il tempo soggettivo, la storia e l’anima, l’immortalità e la caducità. Nella poesia «Vita, vita», il tono sacrale trova d’incanto l’esatta misura d’uno stile ieratico che si staglia in grandiose metafore tridimensionali, dove la potenza delle immagini rimanda alla integrità del poeta, alla sua forza interna, invincibile, che la fede nell’«immortalità» gli restituisce dopo lo scacco del destino e della storia. Sono versi di eccezionale altezza: Nel mondo non c’è la morte./ Tutti sono immortali. Tutto è immortale./ Non bisogna temere la morte né a diciassette anni/ né a settanta. Esistono soltanto la realtà e la luce,/ in questo mondo non ci sono né buio né morte./ Noi tutti siamo già sulla riva del mare / ed io sono tra quelli che tirano le reti,/ mentre passa a branchi l’immortalità./ Vivete in casa – e la casa non crollerà./ Io evocherò uno qualunque dei secoli,/ entrerò in esso ed in esso una casa costruirò./… Io ogni giorno del passato, come una puntellatura,/ con le mie clavicole ho sostenuto,/ misurai il tempo con la catena dell’agrimensore/ ed attraverso di esso sono passato, come attraverso gli Urali.

L’«immortalità»  indica l’attraversamento che gli uomini devono operare, nella negatività della storia, di quella distesa grigia e arida rappresentata dal mondo infirmato dalla mortalità. La costellazione simbolico-metaforica è qui: l’onda, la stella, l’uomo, l’uccello, la realtà, i sogni, la morte… e, di nuovo, l’onda. L’epifania della verità avviene «tra gli specchi – riflesso nel recinto/ dei mari e delle città che brillano nel fumo». E la pace dell’«immortalità», dell’«onda» che va dietro l’«onda» è rappresentata dalla «madre (che) piangendo, prende il bimbo in grembo». Le immagini del «grembo materno», delle «erbe infantili», della «città col Cremlino sul fiume» e le altre variazioni della immagine archetipica materna acquistano plasticità e vigore se proiettate sullo sfondo delle «acque nere», della «riva», della «casa distrutta dalla guerra», etc.: lo sfondo luteo della storia, il magma acherontico che investe la coscienza infelice. Compito del poeta è cogliere «la corrispondenza del suono e del colore». La metafora è combinazione di rappresentazioni in funzione di una più ricca unità semantica. Come per Mandel’štam anche in Tarkovskij il mutamento dei significati diviene evidente attraverso il contenuto delle parole nel contesto dell’opera, laddove esse producono vicendevolmente nuovo senso mediante improvvise rimozioni e profonde anamnesi. Con questo metodo si ottengono le parole portanti, si mette in luce la ricchezza delle parole-chiave. Mandel’štam studiò la produzione di queste parole-chiave nel simbolismo oggettivo e psicologico di Innokentij Annenskij.

La rifrazione della vita nei simboli poetici è per Mandel’štam accettabile, inaccettabile è l’estrazione di un «simbolismo professionale»; «le immagini sono sventrate come animali da impagliare – scrive Mandel’štam criticando il simbolismo – e imbottite di un contenuto a loro estraneo… Una spaventosa controdanza di “corrispondenze” – che ammiccano l’una all’altra. Un eterno strizzar d’occhio… la rosa rimanda alla fanciulla, la fanciulla alla rosa». Mandel’štam propone «una poetica organica di carattere non normativo, bensì biologico», cioè di «considerare la parola come un’immagine, una rappresentazione verbale… un complesso insieme di fenomeni, un nesso, un sistema»* Tarkovskij ha studiato in Mandel’štam la componente architettonica della sua poesia, la dislocazione spazio-temporale del materiale linguistico, l’assoggettamento del materiale alle esigenze  costruttive. Anche in Tarkovskij come in Chlébnikov l’avvenire e il passato coincidono, così come primitivismo e utopia, polarità contraddittorie, vengono risolte con l’indebolimento dell’utopia e con la massiccia immissione di tracce della quotidianità all’interno delle composizioni poetiche. Proprio come in Chlébnikov, il futuro diventa esperienza anteriore, ciò che deve accadere è già avvenuto, il futuro non è ciò che sarà ma ciò che è già stato. Probabilmente, una tale concezione rivela l’influenza delle teorie di Fedorov, il suo concetto della storia come progetto e simultaneità di tutte le generazioni. Per Tarkovskij il mondo tecnologico, la modernità, sono inconciliabilmente ostili alla silvestre innocenza  dello stato di natura; del resto, tutte le sue metafore sono rigorosamente tratte dalla civiltà agricola («la svasatura dell’imbuto», «la ruota del vasaio», «gli occhi dell’erba», «il catino, la brocca», «la gonna di cotone stampato», etc. – Il tessuto quietamente discorsivo dei testi stride con le metafore lampeggianti e le vertiginose accelerazioni; v’è un’algebra delle corrispondenze, vi sono dei cunicoli sotterranei, una densità semantica, rimandi espliciti e impliciti alla grande tradizione della poesia russa, in particolare a Mandel’štam, con il quale condivide il concetto di metafora come costruzione complessa fondata su rapporti di inerenza. Non è affatto un caso che le ultime bozze di quello che avrebbe dovuto essere il suo primo volume di versi (corre l’anno 1946) ad una lettura attenta da parte di un funzionario di partito, eufemísticamente denominata «recensione per uso interno», recitava: «poeta di grande talento, Tarkovskij appartiene a quel Pantheon Nero della poesia russa a cui appartengono anche Achmàtova, Gumilev, Mandel’štam e l’emigrante Chodasevič, e perciò quanto più talento vi è in questi versi tanto più essi sono nocivi e pericolosi». La recensione sfavorevole indurrà la casa editrice Sovetsjij pisatel’ a distruggere il piombo delle matrici.

Il rifugio in una lirica della natura è lo stratagemma residuo che resta al poeta che non intenda sottomettersi all’estetica zdanoviana e che voglia sottrarsi al kitsch dell’arte del realismo socialista. I processi autoritari di accumulazione forzata del capitale e la erezione di uno stato socialista basato sulla socializzazione dei rapporti di produzione, erano le condizioni più svantaggiose per la nascita della poesia, e tali condizioni imposero l’assunzione della forma della poesia lirica. Tarkovskij prende le distanze dalla assunzione acritica del concetto di «natura»; dichiara il poeta russo: «non v’è libertà nella natura», ché altrimenti finirebbe dritta nell’anacronismo, non soltanto perché il suo contenuto di verità è scomparso ma soprattutto perché la natura è inattuale; la celebrazione del passato remoto sarebbe il ripristino di un rito museificato, deificato. Per Tarkovskij «il nostro passato è in tutto simile a una minaccia». È questa la posizione di partenza della sua poesia: la percezione che l’arte, a fronte della stato socialista, non è altro che un diversivo all’orrore, «crittografia del dolore, anamnesi di ciò che è stato sconfitto».(1)

Sotto le condizioni imposte dalla amministrazione totale dello stato socialista sovietico, unica via di uscita è la certezza che «il vento che irrompe violento nella vita – dissolverà – le farfalle che giocano col fuoco». Sembra una chiarissima premonizione della fine dell’Impero, della rovinosa caduta degli idoli. Soltanto un veggente che vive nella propia veggenza poteva possedere strumenti di auscultazione così sofisticati e sensibili da intravedere con tanto anticipo gli esiti finali. A ben leggere, i testi dei grandi poeti ci indicano sempre il cammino del futuro: «La tempesta qua e là per la Russia / scagliava loro dei bengala.  «Ed era soltanto l’inizio», scrive Tarkovskij in una poesia del 1976. I poeti del Pantheon Nero avevano già messo su carta il colore nero dell’orrore. In Tarkovskij e in Chlébnikov la farfalla e il cigno bianco sono ipostasi del poeta e della bellezza: il «candido angelo», il «cigno morente», la «candida neve» sono simboli che annunciano la caducità della bellezza; la «notte», ovviamente, è il luogo della morte, ove «più leggera dell’ala di un uccello» trascorre la bellezza «come una vertigine». Ma la «bellezza» può anche condurre «dall’altra parte dello specchio»: «Nel cristallo pulsavano i fiumi, / fumavano le montagne, rilucevano i mari». Così, la norte può essere detronizzata soltanto dall’amore che tutto trasfigura, perché la via che conduce alla morte si chiama «destino»: «quando il destino ricalcava le orme dietro di noi, / come un pazzo col rasoio in mano». Questa complessa rete di simboli fondata sulla opposizione binaria luce-tenebra regge tutta la poesia di Tarkovskij, ed infonde spessore analogico alle similitudini Il poeta è, di volta in volta, «Nestore, cronista del mesozoico», «Geremia dei tempi futuri», perché il poeta sa «della morte più cose dei morti», e il suo romanzo è preda dell’«orologio» e del «calendario», del «passato» e del «futuro»; soltanto la morte, «la terribile bocca della regina Kore» può fornire il viatico per la «verità». Ed ecco i simboli della «pioggia», del «mare» e del «ruscello» che richiamano l’idea del fluire dell’universo nell’«irripetibile movimiento dell’erba», nella «immortalità»; il tempo soggettivo fluisce e sfocia nel tempo oggettivo: «io mi sceglievo il secolo secondo la grandezza». La terribile storia russa detta a Tarkovskij i versi tra i più commoventi e saldi della poesia russa del XX secolo: «vivete in casa – e la casa non crollerà (...) il futuro si compie ora». Una dichiarazione di fede così alta trova concrezione in questi versi monumentali, scanditi con lenta, sacrale progressione.


(1) T.W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino, 1975



Poesie scelte
Traduzione di Donata De Bartolomeo


CATALOGO DELLE STELLE

Finora non
ci avevo pensato.
A che mi
serve un catalogo delle stelle?
Nel
catalogo dieci milioni
di numeri
di telefoni celesti,
dieci
milioni di numeri
di telefono
di nebbie e mondi,
codice
pieno di luminescenza e scintillio,
elenco di abbonati
dell’universo.
Io so qual
è il nome della stella,
troverò anche
il suo telefono,
aspetterò il
turno della terra,
girerò l’alfabeto
d’acciaio:
L – 13 – 40 – 25 
Io non so
dove cercarti.
Si
metterà a cantare la membrana del telefono:
Risponde Alfa Orione. 
Sono in viaggio, io ora sono una stella. 
Io ti ho
dimenticato per sempre.
Sono una
stella – sorellina dell’aurora,
non
vorrò nemmeno venirti in sogno.
Di te non
mi importa più nulla.
Telefonami
tra trecento anni.
(1940-1945)

 ***
Tu, come
una farfalla bianca e nera,
non come
volevamo noi selvaggiamente e coraggiosamente,
nella mia
casa entrasti volando,
non fare
una magia su di me, non rendere
il mio
cuore più amaro dell’amaro.
La tenebra,
ispirata dalla luce,
la stessa
oscura fedeltà ai voti 
e il
fazzoletto che scende dalle spalle.
Ma anche in
questa trepidazione
lo stesso
veleno e una conversazione non in russo.
(1946) 
  
*** 
Ho studiato
l’erba, aprendo il quaderno
e l’erba ha
iniziato, come un flauto, a suonare.
Io coglievo
la corrispondenza del suono e del colore
e, quando
la libellula il suo inno intonava
andando tra
i verdi tasti come una cometa,
io
già sapevo che qualunque gocciolina di rugiada è una lacrima.
Sapevo che
ogni faccetta dell’enorme occhio,
in ogni arcobaleno
delle ali splendenti
dimora la
parola più ardente del profeta
ed il
mistero ad Adamo io, come per miracolo, schiudevo.
Io amavo il
mio straziante lavoro, questa costruzione
di parole,
collegate da luce propria, l’enigma
dei
sentimenti confusi e la semplice soluzione della mente,
nella
parola ‘verità’ mi pareva di vedere la verità stessa,
la mia
lingua era veritiera, come un’analisi spettrale
ma le
parole si prostravano ai miei piedi.
Ed ancora
io dirò: mio vero interlocutore,
ho sentito
un quarto di rumore, ho visto a mezza luce,
tuttavia
non umiliai né il prossimo né  le erbe,
non offesi
con l’indifferenza la terra paterna
e finora ho
lavorato sulla terra, ricevendo
il dono
dell’acqua fredda e del pane fragrante,
sopra di me
stava un cielo senza fondo.
Le stelle
mi cadevano sulla manica.
(1956) 
  

IL MANOSCRITTO
Ad Anna Achmatova

Ho finito
il libro ed ho detto basta
non posso
più rileggere il manoscritto.
Il mio
destino si è bruciato tra le righe
mentre
l’anima cambiava rivestimento.
Così il
figliol prodigo si strappa la camicia dalle spalle
così il
sale dei mari e la polvere delle strade terrestri 
benedice e
maledice il profeta,
che da solo
camminava sugli angeli.
Io sono
quello che ha vissuto al suo tempo
ma non ero
io. Io il più  giovane della famiglia
degli
uomini e degli uccelli, io ho amato insieme a tutti
e non
abbandonerò il banchetto dei viventi –
diretto
sigillo del loro onore familiare,
diretto
vocabolario dei legami di radice.
(1960)

  
I

PIFFERO DELLA STEPPA
Vivevano,
combattevano, pativano la fame
morivano
serenamente da soli.
Io non sono
un pittore, non mi servono
i dettagli,
prenderò meglio un sol.
Di tutto il
largo consumo della terra
mi hanno
portato soltanto un piffero
ho preso poco
dalla terra per il cielo,
ho preso di
più dal cielo per la terra.
Scuotendo
il berretto, ho lasciato cadere gli astri,
dalla
manica ho lasciato partire gli uccelli.
Da tempo la
terra si è scordata di me
sebbene sia
viva per il mio rimeggiare. 

II
  
Ad ogni
suono corrisponde un’eco sulla terra.
I pastori
bollivano il culesc sulla caldaia,
le pecore
si grattavano attorno a noi
e battevano
i neri ciabattini.
A che mi
servono i soldi? Gli onori, la gloria
nella
steppa serale senza fine e confini?
Voglio
mangiare con Ovidio il cacio pecorino
e gemere
sulla riva del Don
senza
distinguere le voci lontane,
senza
aspettare le vele benedette.

III

Dove Ovidio
ha tradotto
in latino
la tempesta,
io ho
bevuto l’azzurro della steppa
e ho
cucinato una zuppa di molluschi.
E col fuoco
della disgrazia da parte a parte
ho ripulito
soffiando il piffero
e per
questo gli accordi cantano, come Mariula
e per
questo nella nostra
famiglia
non manca la pecora nera
ed
è bella la mia 
libertà del
Don.
Dove lui
scaldava per il freddo
una
focaccia sul palmo delle mani,
là la
stella del sud
sta nella
volta celeste.

IV

Terra di
steppa, infruttuosa,
infiammabile
ma dentro vi è per il cuore
l’osseo
violino del grillo campestre
e la gloria
umiliata dell’imperatore.
E dov’è il
mio violino? Lo sa Dio.
Ricordando
l’esilio di un altro,
con Ovidio
anch’io a dieci a dieci
ho
sfogliato il quaderno sulla riva del Don.
Per il
giallo e per il fiele ho amato questa regione
e dicevo:
“Canta, mio grillo!”
E dicevo:
“Sette anni di cammino fino a Roma!”
E adesso
sono lontano dalla steppa .
Vivi almeno
tu, sorso di secco respiro,
capanna,
pelliccia, latte di pecora.
(1960-1964)


PRIMI APPUNTAMENTI

Dei nostri
incontri ogni istante
noi
festeggiavamo, come un’epifania, 
soli nel
mondo intero. Tu eri
coraggiosa
e più leggera dell’ala di un uccello,
lungo la
scala, come una vertigine,
scendevi
saltando i gradini e conducevi
attraverso
l’umido lillà nei tuoi possedimenti
dall’altra
parte dello specchio.
Quando la
notte calava, la grazia
mi veniva
concessa, le porte degli altari 
si aprivano
e nell’oscurità splendeva
e
lentamente si tendeva la nudità.
E,
svegliandomi, “sii benedetta”
dicevo e
sapevo che la mia benedizione
era
ingiuriosa: tu dormivi
e per te il
lillà si allungava dal tavolo
a sfiorare
le palpebre con l’azzurro del mondo
e le
palpebre, sfiorate dall’azzurro, 
erano
tranquille e la mano tiepida.
Ma nel
cristallo pulsavano i fiumi,
fumavano le
montagne, rilucevano i mari
e tu tenevi
nel palmo la sfera
di
cristallo e dormivi nel trono
e – quant’è
vero iddio – eri mia.
Tu ti
svegliasti e trasformasti 
il
vocabolario quotidiano dell’uomo
e le parole
si riempiono nella gola
del vigore
di un suono nuovo e la parola “tu”
svela il
suo nuovo significato: “re”.
Nel mondo tutto
si trasfigurò, persino
le cose
semplici – il catino, la brocca – quando
stava, come
di guardia, tra di noi
l’acqua
stratiforme e dura.
Ci condusse
non si sa dove.
  
Davanti a
noi cedevano il passo, come miraggi,
città costruite
come per miracolo,
la stessa
menta si stendeva ai nostri piedi
e gli
uccelli andavano con noi lungo la strada
ed i pesci
salivano lungo il fiume
ed il cielo
si spiegava davanti agli occhi…
Quando il
destino ricalcava le orme dietro di noi,
come un
pazzo col rasoio in mano.
 (1962)


OSPEDALE DA CAMPO


Girarono il
tavolo verso la luce. Io giacevo
con la
testa all’ingiù, come carne al peso,
la mia
anima palpitava nella rete
ed io mi
vedevo dal di fuori:
senza
aggiunte ero equilibrato
come un
grasso peso del mercato.
Questo avveniva
nel centro
di uno scudo di neve
scheggiato
nella parte occidentale,
nel circolo
di paludi che non gelano,
di alberi
con le gambe massacrate
e di
piccole stazioni ferroviarie
con crani
spaccati, nere
per i passi
nella neve, ora doppi, ora
tripli.
Quel giorno il tempo si fermò,
le ore non
passavano e le anime dei treni
lungo le
scarpate non sfrecciavano più
senza
lampade, nei grigi lasti del vapore
e non
c’erano né nozze di cornacchie, né tempeste
né disgeli
in quel limbo 
dove io
giacevo, nella vergogna, nudo,
nel mio
sangue, fuori del campo di gravitazione
futura.
Ma io mi
spostai e cominciai a camminare sugli assi
intorno
allo scudo di neve abbagliante
ed in
basso, al di sopra della mia testa,
sette
aeroplani si spiegarono
e la garza,
come corteccia d’albero
si induriva
sul corpo e correva
il sangue
di un altro dal matraccio nelle mie vene
ed io
respiravo, come un pesce nella sabbia,
ingoiando
la dura, micacea, terrestre
fredda e
benedetta aria.
  Avevo
le labbra arse ed ancora
mi davano
da bere col cucchiaino ed ancora
non potevo
ricordare come mi chiamavo
ma rinacque
nella mia lingua
il
vocabolario del re David.
Ma dopo
anche la
neve andò via ed una precoce primavera
si
sollevò in punta di piedi e coprì
gli alberi
col suo giallo scialle.
 (1964)


VITA, VITA

I

Non credo
nei presentimenti e dei segni
non ho
paura. Né la calunnia né il sarcasmo
io fuggo.
Nel mondo non c’è la morte.
Tutti sono
immortali. Tutto è immortale.
Non bisogna
temere la morte né a diciassette anni
Né a
settanta. Esistono solo la realtà e la luce,
in questo
mondo non ci sono né buio né  morte.
Noi tutti
siamo già sulla riva del mare
ed io sono
tra quelli che tirano le reti
mentre
passa a branchi l’immortalità.

II

Vivete in
casa – e casa non crollerà.
Io
evocherò uno qualunque dei secoli,
entrerò in
esso ed in esso una casa costruirò.
Ecco
perché sono con me ad un unico tavolo
i vostri
figli e le vostre mogli.
Ma c’è un
unico tavolo per il bisnonno e per il nipote.
Il futuro
si compie ora
e se io
sollevo la mano
tutti e
cinque i raggi rimarranno presso di voi.
Io ogni
giorno del passato, come una puntellatura,
con le mie
clavicole ho sostenuto,
misurai il
tempo con la catena dell’agrimensore
ed
attraverso esso sono passato, come attraverso gli Urali.

III

Io mi
sceglievo il secolo secondo la grandezza.
Andavamo al
sud, alzavamo la polvere sopra la steppa;
l’erbaccia
fumava; il grillo campestre faceva il birichino,
toccava con
i baffi i ferri dei cavalli e profetava
e, come un
monaco, minacciava per me la rovina.
Io il mio
destino alla sella allacciavo;
io, anche
adesso, in epoche future,
come un
bambino mi solleverò sulle staffe.
Sono
soddisfatto della mia immortalità,
che il mio
sangue scorra di secolo in secolo.
Per un
angolo sicuro di costante calore
io avrei
arbitrariamente pagato con la vita,
qualora il
suo mobile ago
non mi
avesse, come filo, condotto per il mondo.
(1965)

*** 

Nell’ultimo
mese dell’autunno
al
crepuscolo della mia amarissima vita, 
colmo di
dolore,
io sono
entrato in un bosco senza foglie e senza nome.
Da un lato
era lambito
dal
bianco-latteo specchio
della
nebbia.
Lungo i
rami biancastri
colavano
lacrime limpide
quali soltanto
gli alberi piangono alla vigilia
di un
inverno completamente privo di colore.
E allora
avvenne il miracolo:
al tramonto
baluginò l’azzurro
da dietro una nuvola
e un raggio
luminoso si fece largo come in giugno
dai giorni
futuri del mio passato.
E
piangevano gli alberi alla vigilia
delle
grandi fatiche e delle grazie festive
delle
semplici tempeste che turbinano nell’azzurro
e le
cinciallegre danzavano in circolo
come mani
che lungo la tastiera
vanno dalla
terra alle note più alte.
(metà anni ’70)




 ARSENIJ ALEKSANDROVIČ TARKOVSKIJ  (in russo: Арсений Александрович Тарковский (Elisavetgrad, 25 giugno 1907 – Mosca, 27 maggio 1989) è stato un poeta e traduttore russo, di origine ucraina dal temperamento alquanto instabile, padre del famoso regista Andrej Arsen’evič Tarkovskij. Alla fine degli anni venti Arsenij Tarkovskij inizia la collaborazione con alcune riviste e scrivedrammi per la radio sovietica. Nel 1932, accusato di misticismo, deve abbandonare il suo lavoro e si dedica quindi all’attività di traduttore dall’arabo, dall’ebraico, dall’armeno, dal georgiano, dal turkmeno e da altre lingue ancora. Inizia, sempre in quel periodo, a frequentare Anna Achmatova e Osip Mandel’štam, attirando su di sé ulteriori attenzioni da parte del regime, che gli costeranno una censura durata sino agli anni sessanta. Arruolato come soldato nella seconda guerra mondiale, nel 1943 viene insignito dell’Ordine della Stella Rossa per il suo eroismo in battaglia e in seguito, gravemente ferito, debe subire l’amputazione di una gamba. A partire dal 1962 inizia la pubblicazione delle sue poesie, che consisteranno in una decina di raccolte in tutto. Muore a Mosca il 27 maggio 1989.

Related

Tarkovskij A. 1772431282188846537

SEGUICI SU FACEBOOK

SEGUICI SU TWITTER

Post Più Recenti

In Evidenza

Doris Bellomusto | Quindici Poesie Inedite

Da: Vuoti a rendere L’amore, il tempo e le mancanze (Raccolta Inedita) 1.- ORO E PETROLIO L’amore è un pugno nel ventre, oro e petrolio. L’a...

Novità Editoriali

Letteratura Straniera

Intervista

I Piu' Letti

Musica

Letteratura Italiana

Visualizzazioni totali

item