José Carlos Cataño | Opera poetica (1975-2007)

Traduzione: Marcela Filippi Plaza CONCEDICI, oh signore, la misura del nostro inferno O, in caso contrario, una lucidità per vivere tranquil...



Traduzione: Marcela Filippi Plaza


CONCEDICI, oh signore, la misura del nostro inferno
O, in caso contrario, una lucidità per vivere tranquilli.
Non questa desolazione della barca senza mare
Né di un porto che la protegga
Che anche l’amore è morto.
Fai di noi
Il tuo pascolo di saggezza. Facci sanguinare per impastare
La gioia del sangue con ciò che del dolore ci resta.
Configura il nostro corpo unico
Sulla misura della nostra morte unica.

Con quei versi in cui risuona l'eco della voce di Rilke, inizia la quinta sezione di Disparos en el paraíso, il primo libro di José Carlos Cataño e uno dei sei che raccoglie lo splendido volume che riunisce la sua Opera poetica (1975-2007 ) in Pre-Textos.

Lo apre un prologo in cui Ana Arzoumanian caratterizza la poesia di Cataño con queste linee iniziali:

«L'esplosione della parola, la vertigine del tempo, la voce epica che riprende la trama del mondo, non attraverso un progetto che legittimi una filiazione, un diritto, bensì nella diaspora di una terra che inabissa ogni appropriazione. La forza poetica di José Carlos Cataño (La Laguna, Isole Canarie, 1954-2019) si imprime mediante una nascita che è uno strofinamento della lingua nell'acqua. Per cui la scrittura non sarà un piegarsi alla legge di un territorio, bensì turbarsi nell'eruzione del vulcano». 

Da Disparos en el paraíso a Lugares que fueron tu rostro, la poesia di José Carlos Cataño è cresciuta attraverso il processo di elaborazione di un'opera in marcia, sottoposta a una revisione costante che cerca il nucleo, il frutto dell'emozione o il midollo del pensiero.

E in questa ricerca è fondamentale l'intensità verbale, la concentrazione espressiva come frutto della decantazione della parola poetica, che è soggetta a una tensione da cui viene estratto il suo più grande potenziale significativo.

Quel processo di astrazione, di elusione dall'aneddoto e di rinuncia alla narratività redditizia in una poesia dalla lettura impegnativa nella quale si proietta l'esigenza dell'autore con la propria opera.

Di questo atteggiamento parla Cataño in questo testo, in una delle poesie in prosa di El cónsul del mar del Norte:

Avrei potuto optare per un tipo di esperienza più presentabile, in cui l'audacia sarebbe stata anche più intellegibile.

Culla e robustezza, talento e principi non mi mancavano. Ma, purtroppo, non ho tenuto conto, dei maestri, e non ho considerato nessuno per dediche, parafrasi oppure omaggi, poiché i pochi che hanno risvegliato le mie simpatie, erano morti o si erano nascosti. E lo stesso è accaduto nelle vicende in cui mi ci sono trovato. Appartenevano sempre all'altro sguardo, quello che suscita il sospetto di una caduta nella cieca, armoniosa enormità del mondo, mentre questo minaccia di svuotarsi nel tremore di una risposta.

L'altro aspetto è lo sguardo dei perdenti —fedeli vassalli di ciò che è privo di senso— il cui impegno viene superato dalla legge che alcuni chiamano dio e altri motivo della letteratura, allo stesso modo in cui il sentiero nella valle o la casa nel deserto sono finalmente recuperati dal sottobosco e dalla desolazione.

E la gente non approva le cose difficili. Applaudono lo stile pulito, la condotta impeccabile, e ciò che chiamano rigore e lucidità. Applaudono la vita, il metodo, il trionfo.

La flessibilità, la profondità lirica, lo spogliarsi o la ricerca della trasparenza essenziale dell'essere e la parola , percorrono questa poesia attraversata da temi centrali come il fragile tempo dell'esistenza, la memoria, l'amore e la morte, l'insularità e le perdite.

Ricerca del centro che dota di struttura una poesia che assume rischi e si propone come forma di conoscenza, come avventura ontologica che trova il suo senso come riflessione sull'essere e sul tempo, mentre si eleva sullo sradicamento e sul vuoto, quando esplora il contingente e i limiti del linguaggio.

In quel cammino di desolazione è fondamentale la nozione di esodo, l'immagine del poeta come straniero e la preoccupazione per la lingua come luogo abitabile, per la scrittura come rifugio dinanzi alla fugacità.

Parola e fugacità unite in modo esemplare in versi come questi, di Para enterrar a los muertos:

A margine del dubbio e sotto il sole
Muore ciò non nomino più
Che non pensato,
Dunque lento come il fiume
Che aspira a mezzogiorno
Mi muore la vita non nella carne,
Mi muore la vita nelle parole.

Quel libro lo chiude una riflessione sulla scrittura che riunisce i temi essenziali della poesia di José Carlos Cataño:


Scrivere è tornare, tornare 
Alla scrittura dove
Chi torna muore
E passa inavvertito
Nel guardare di un altro
Che non guarda, scrivere
E' un'attesa che disegna
E cancella di notte il lavoro,
Disfacendo la notte il lavoro
Del ricamare con lettere dipinte
La notte, la scrittura
Inanella le stelle nel panno
Scuro di un vestito che passeggia
Su un ponte o nello sguardo
Che segue l'andata e il ritorno di un volto
Indifferente,

Quindi siamo noi che torniamo
E che aspettiamo quel ritorno,
L'essere saccheggiato che alla riva torna
E la riva ignota che saccheggia,
L'uno e l'altro,
separati dal chiodo della congiunzione,
Questo e quello, il volto che si spegne
E ciò che alla fine ci dice e ci fa scivolare
Nell'oblio,
Rompendo le costole della barca,
Le costole del cielo e della mente
Definitivamente l'illusione
Nell'ultima esplosione della chiarezza.


Santos Domínguez Ramos



POESIE



CONCEDICI, OH SIGNORE


I


Concedici, oh signore, la misura del nostro inferno

O, in caso contrario, una lucidità per vivere tranquilli.

Non questa desolazione della barca senza mare

Né di un porto che la protegga-

Che anche l’amore è morto.

Fai di noi

Il tuo pascolo di saggezza. Facci sanguinare per impastare

La gioia del sangue con ciò che del dolore ci resta.

Configura il nostro corpo unico

Sulla misura della nostra morte unica.


II


Nella secca prigione del vento

Che unisce unione estatica

Con assenza di realtà - che è il male, il nostro inferno

frondoso di coscienza bandita,

Ascoltaci, oh signore, nella dimora del tuo legame,

Stacca le tue labbra fuse

E possa il sole nutrire il gesto,

Del sentiero nascosto, del destino che comincia.


III


Concedici, oh signore, la misura di ciò che cade

E penetra attraverso il segno del nostro esilio,

Dove balla, applaude

Una strana gioia, frutto dello sfondo,

Protezione di ciò che sopra si strappa

E consuma tra le reti

Di una vita martirizzata.

Che questi sono i nostri pochi atti,

Che sostengono reiterate debolezze.

La sua costellazione redime, gelido soffio

Come la Via Lattea

In una frase compromettente.


IV


Signore, quella luna che i detriti trascinano sulla spiaggia

Non arriva all'oceano della serenità,

E il nostro lavoro è sterile ma aiuta

Una disperazione più prossima

Tra pianto e rabbia, quando espelliamo

I cadaveri da uno stato d’imperfetta unione.

La luna che strappa la marea,

I sassi che dubitano se spezzarla,

Non godono della loro condizione e la testa

Non recupererà il suo interiore vuoto.

Ebbene la riva che geme è il grido della luna

E di altri corpi invisibili, lapidati;

Spiriti in tortura come un vino dal bel colore

E amaro e aspro per chi lo beve.

Perché chi ha menzionato la luna e il mio spirito

Tra i corpi invisibili

Non ha dato loro il senso esatto.


V


E il grido raggiunto non è altro che gli altri,

Appesi allo spazio insieme alle voci,

I sussurri e lamenti del guerriero

Che combatte contro tutti i sé-stessi.

Mantienici, oh signore, in latitudine invisibile;

Rimuovici, di tanto in tanto,

Nel fango della terribile, concreta, prima terra,

Il nostro unico compagno,

Il nostro puro e unico guardiano,

Dove nasce il doppio che ci sostiene.


VI


Concedici, oh signore, il diritto, o forse

Non è giusto cacciare i nostri giudici?

È giusto, necessario e giustificabile

Lungo il percorso del sentiero indiretto

Lottare affinché ti giustifichino in un gesto posteriore-

Nelle estremità del bisogno.


I FIUMI DELLA MEMORIA


L’altro giorno la lava si è fusa nel Mwenzi. Una placca oceanica si è incrostata sotto il continente, ha rifuso il magma della Montagna Che Brilla e ha provocato una valanga di fango e pietre.

L'immagine dei sopravvissuti faceva pensare ai giovani che, durante il rito d’iniziazione, si ungono il corpo con argilla bianca per congedarsi dalle tenebre dell'infanzia.

Anche il cervello ha le sue placche oceaniche, che collassano e fioriscono nella lingua dei poeti. E i fiumi della memoria - rami, cadaveri e cenere - scorrono verso le bianche tenebre dell'infanzia.


AMORI ILLUSTRI


Anch’io potrei dire qualcosa al riguardo. Custodite le vostre stelle polari, le vostre interminabili notti d'amore, le vostre squisite dame, le vostre femmine calde come una mattina per Nyangabulé. Per me fa lo stesso.

Forse l'amore è l’istante in cui due corpi tremano, ritardando l’effondersi l'uno nell'altro, gli occhi negli occhi, la lingua nel segreto previo allo svenimento.

Il suo volto non era bello ed era persona di poche parole. Aveva fin da novembre non so quale seme in acqua, e ieri, come si suol dire, si è trasformato in un sottilissimo gambo, incontenibile, nella gioia della casa.

Rido così tanto di ciò che sopravvive all’estate, che so già cos’è sufficiente.


LE CROCODILE ET MALLARMÉ


Eugène Mallarmé, illustre professore del Collegio di Francia, pubblica nel 1899 la sua monumentale Histoire Naturelle du Crocodile Africain. Un anno dopo ha l'opportunità di mettere piede nel continente nero.

Ora si trova a Rwonga, davanti al suo primo esemplare vivo della specie. Il sangue, all’improvviso, gli si gela, il coccodrillo avanza e Eugène Mallarmé sale su un banano.

Eretto sui quarti posteriori, il mostro striscia e si arrampica.

Le ultime parole del saggio, secondo gli sconsolati testimoni, furono queste:

Mais non! Mais non! Les crocodiles ne montent pas aux arbres!


SIETE STATI BUONI CON ME


Odia con tutto il tuo rancore, con tutto il risentimento che porti ancora nelle viscere. E non temere, perché perfino la crudeltà più abietta scoppia da sé come una bacca matura.

Odia, non per ogni colpo ricevuto - questa è la cosa più semplice - ma per tutto ciò che mai più ricorderai. Che l'unica cosa che potrà illuminare la tua vita sarà l'odio.

E per quanto ignobili siano state le tue azioni, non dimenticare di ringraziare tutti e per tutto quando giungerai alla fine.


SPARI IN PARADISO


Solo

Quando cade ottobre

Gli alberi di nuovo

Rimuovono i dispiaceri

E la luce dubita

Tastando corpi inafferrabili.

La luce e lo sguardo si gettano

Nello stesso abbraccio.

Apro gli occhi e non c’é nessuno.


SE IO MAI


Arrivano i giorni, finiscono le frasi,

Su questa nave abbandonata che chiamo dio,

Come se fosse la prima volta, il motivo

Di non si sa quale annuncio.

Il sereno tracciato degli astri

Da qualche parte risplendeva.


LUOGO DI NASCITA


Grave laguna, sono i tuoi occhi

O sono castigo

Le piaghe che cullano le mie braccia?

Nelle vecchie case chiuse,

Colombaie sofferenti,

Non si è sentita di nuovo la luce del giorno,

Nemmeno il sangue scorre più

Nei viali del vento.

Bebendo

Il trascorrere indolente delle ore,

Le ombre abbattute


Della ferita nell'anima.

Sarò morto, dunque, tornerò

In quelle strade e dicono di conoscermi.






 JOSÉ CARLOS CATAÑO OBRA POÉTICA (1975-2007) | PRE-TEXTOS 2019


CONCÉDENOS, oh señor, la medida de nuestro infierno

O, si no, una lucidez para vivir tranquilos.

No esta desazón de la barca sin mar

Ni puerto que la ampare-

Que el amor también ha muerto.

Haz de nosotros

Tu pasto de sabiduría. Sángranos hasta amasar

La alegría de la sangre con lo que del dolor nos queda.

Configura nuestro cuerpo único

A la medida de nuestra muerte única.


Con esos versos en los que resuena el eco de la voz de Rilke comienza la quinta sección de Disparos en el paraíso, el primer libro de José Carlos Cataño y uno de los seis que recoge el espléndido volumen que reúne su Obra poética (1975-2007) en Pre-Textos.

Lo abre un prólogo en el que Ana Arzoumanian caracteriza la poesía de Cataño con estas líneas iniciales:

«El estallido de la palabra, el vértigo del tiempo, la voz épica reanudando la trama del mundo, no a través de un proyecto que legitime una filiación, un derecho, sino en la diáspora de una tierra naufragando toda apropiación. La fuerza poética de José Carlos Cataño (La Laguna, Islas Canarias, 1954) se imprime mediante una natividad que es un frotamiento de la lengua en el agua. De modo que escribir no será plegarse a la ley de un territorio, sino turbarse en el estallido del volcán».

Desde Disparos en el paraíso hasta Lugares que fueron tu rostro, la poesía de José Carlos Cataño ha ido creciendo a través del proceso de elaboración de una obra en marcha sometida a una constante revisión que busca lo nuclear, la almendra de la emoción o lo medular del pensamiento.

Y en esa búsqueda es fundamental la intensidad verbal, la concentración expresiva y la desnudez como fruto de la decantación de la palabra poética, a la que se somete a una tensión de la que se extrae su mayor potencial significante.

Ese proceso de abstracción, de elusión de la anécdota y de renuncia a la narratividad fructifica en una poesía de lectura exigente en la que se proyecta la exigencia del autor con su propia obra.

De esa actitud habla Cataño en este texto, uno de los poemas en prosa de El cónsul del mar del Norte:

Pude haber optado por un tipo de experiencia más presentable, donde la audacia hubiese sido también más inteligible.

Cuna y madera, talento y principios no me faltaron. Pero prescindí, ay, de maestros, y a nadie tomé para dedicatoria, paráfrasis u homenaje, pues los pocos que despertaron mis simpatías, o estaban muertos o andaban escondidos. Y otro tanto sucedió con los temas en que me las vi. Siempre pertenecían a la otra mirada, la que despierta la sospecha de un desliz en la ciega, armoniosa enormidad del mundo que amenaza con vaciarse en el temblor de una respuesta aplazada.

La otra mirada es la mirada de los perdedores —fieles vasallos del sinsentido—, cuyo empeño queda rebasado por la ley que unos llaman dios y otros motivo de literatura, de la misma manera que la senda en el valle o la casa en el desierto son finalmente recobrados por la broza y la desolación.

Y la gente no está para lo difícil. Aplauden el estilo limpio, la intachable conducta, y eso que llaman rigor y lucidez. Aplauden la vida, el método, el triunfo.


La reflexividad, la hondura lírica, el despojamiento o la búsqueda de la transparencia esencial del ser y la palabra recorren esta poesía, atravesada por temas centrales como el tiempo frágil de la existencia, la memoria, el amor y la muerte, la insularidad y las pérdidas.

Búsqueda del centro que vertebra una poesía que asume riesgos y se plantea como forma de conocimiento, como aventura ontológica que encuentra su sentido como reflexión sobre el ser y el tiempo al elevarse sobre el desarraigo y el vacío, al explorar lo contingente y los límites del lenguaje.

En ese camino de desolación es fundamental la noción de éxodo, la imagen del poeta como un extranjero y la preocupación por el lenguaje como lugar habitable, por la escritura como refugio ante la fugacidad.

Palabra y fugacidad unidas ejemplarmente en versos como estos, de Para enterrar a los muertos en las palabras:

Al margen de la duda y bajo el sol

Muere lo que dejo por nombrar

Que no pensado,

Pues lento como el río

Que aspira a mediodía

Se me muere la vida no en la carne,

Se me muere la vida en las palabras.


Ese libro lo cierra esta reflexión sobre la escritura que reúne los temas esenciales de la poesía de José Carlos Cataño:


Escribir es volver, volver

A la escritura donde

Quien vuelve muere

Y pasa inadvertido

Al mirar de otro

Que no mira, escribir

Es una espera que dibuja

Y borra por la noche la labor,

Deshaciendo la noche la labor

De bordar con letras pintadas

La noche, la escritura

Enhebra estrellas en el paño

Oscuro de un vestido que pasea

Encima de un puente o en la mirada

Que sigue la ida y vuelta de una cara

Indiferente,

Así somos el que regresa

Y el que espera esa vuelta,

El ser saqueado que a la orilla vuelve

Y la orilla ignota y saqueante,

Lo uno y lo otro,

Separados por el clavo de la conjunción,

Esto y aquello, el rostro que se apaga

Y lo que al fin nos dice y nos desliza

En el olvido,

Quebrando las costillas de la barca,

Las costillas del cielo y de la mente,

Definitivamente la ilusión

En el estallido final de la claridad.


                                                                                                            Santos Domínguez Ramos



POEMAS


CONCÉDENOS, OH SEÑOR


I


Concédenos, oh señor, la medida de nuestro infierno

O, si no, una lucidez para vivir tranquilos.

No esta desazón de la barca sin mar

Ni puerto que la ampare-

Que el amor también ha muerto.

Haz de nosotros

Tu pasto de sabiduría. Sángranos hasta amasar

La alegría de la sangre con lo que del dolor nos queda.

Configura nuestro cuerpo único

A la medida de nuestra muerte única.


II


En la seca prisión del viento

Que comulga la unión extática

Con ausencia de realidad -que es el mal, nuestro infierno

frondoso de conciencia desterrada,

Escúchanos, oh señor, en la morada de tu apego,

Desprende tus fundidos labios

Y que el sol nutra el gesto,

Del camino que se oculta, del destino que comienza.


III


Concédenos, oh señor, la medida de lo que cae

Y penetra por la marca de nuestro exilio,

Donde baila, palmotea

Una alegría extraña, fruto del fondo,

Amparo de lo que arriba se desgarra

Y consume entre las redes

De una vida martirizada.

Que éstos son nuestros pocos actos,

Que sostienen reiteradas debilidades.

Su constelación redime, helado soplo

Como la Vía Láctea

En una frase comprometedora.


IV


Señor, en esa luna que arrastran los escombros en la playa

No alcanza el océano de la serenidad,

Y nuestra labor es estéril pero ayuda

A una desesperación más próxima

Entre llanto y coraje, cuando expulsamos

Los cadáveres de un estado de imperfecta unión.

La luna que desgarra la marea,

Los guijarros que dudan si romperla,

No gozan de su medio, y la cabeza

No recobrará su interior vacío.

Pues la orilla que gime es el grito de la luna

Y de otros cuerpos invisibles, apedreados;

Espíritus en tortura como un vino de buen color

Y amargo y áspero para quien lo bebe.

Porque quien nombró la luna y mi espíritu

Entre los cuerpos invisibles

No les dio su sentido exacto.


V


Y el grito logrado no será más que los otros,

Colgados del espacio junto a las voces,

Los susurros y quejidos del guerrero

Que combate contra los sí-mismos.

Mantennos, oh señor, en latitud invisible;

Remuévenos, de vez en cuando,

En el cieno de la terrible, concreta, primera tierra,

Nuestro único compañero,

Nuestro puro y único guardián,

En donde nace el doble que nos sustenta.


VI


Concédenos, oh señor, el derecho, pues acaso

¿No es justo que cacemos a nuestros jueces?

Es justo, necesario y justificable

Por el camino del sendero indirecto

Luchar porque te justifiquen en un postrer gesto-

En las postrimerías de la necesidad.



LOS RÍOS DE LA MEMORIA


El otro día se derritió lava en el Mwenzi. Una placa oceánica se incrustó bajo el continente, refundió el magma de la Montaña Que Brilla y provocó un alud de lodo y piedras.

La imagen de los sobrevivientes hacía pensar en los jóvenes que, durante el rito de iniciación, se untan el cuerpo con arcilla blanca para despedir a las tinieblas de la infancia.

El cerebro también tiene sus placas oceánicas, que se desploman y florecen en la lengua de los poetas. Y los ríos de la memoria -ramas, cadáveres y cenizas- transcurren hacia las blancas tinieblas de la infancia.


AMORES ILUSTRES

Yo también podría decir algo acerca de eso. Guardaos vuestras estrellas polares, vuestras interminables noches de amor, vuestras damas exquisitas, vuestras hembras calientes como una mañana por Nyangabulé. Tanto me da.

Acaso el amor sea el instante en que tiemblan dos cuerpos demorando derramarse el uno en el otro, los ojos en los ojos, la lengua en el secreto previo al desfallecimiento.

Su rostro no era hermoso y era persona de pocas palabras. Tenía desde noviembre no sé qué semilla en agua, y ayer, como quien dice, se convirtió en un tallo finísimo, imparable, en la alegría de la casa.

Tanto me río de lo que sobrevive al verano, que ya sé lo que es suficiente.


LE CROCODILE ET MALLARMÉ


Eugène Mallarmé, ilustre profesor del Colegio de Francia, publica en 1899 su monumental Histoire Naturelle du Crocodile Africain. Un año más tarde tiene ocasión de pisar el continente negro.

Ahora se encuentra en Rwonga, ante su primer ejemplar vivo de la especie. La sangre, de pronto, se le hiela, el cocodrilo avanza y Eugène Mallarmé se sube a un banano.

Erguido sobre los cuartos traseros, el monstruo repta y se encarama.

Las últimas palabras del sabio, según los desconsolados testigos, fueron estas:

— Mais non! Mais non! Les crocodiles ne montent pas aux arbres!


FUISTEIS BUENOS CONMIGO


Odia con todo el rencor, con todo el resentimiento que aún llevas en las entrañas. Y no temas, porque hasta la crueldad más abyecta revienta por sí sola como baya madura.

Odia, no por cada golpe recibido —eso es lo más fácil—, sino por aquello que ya nunca recordarás. Que lo único que podrá iluminar tu vida será el odio.

Y por innobles que hayan sido tus actos, no olvides dar las gracias a todos y por todo cuando llegues al fin.



DISPAROS EN EL PARAÍSO


VI


Solo


Al caer octubre

Otra vez los árboles

Remueven los pesares

Y la luz duda

Tanteando cuerpos escurridizos.

La voz y la mirada se despeñan

En el mismo abrazo.

abro los ojos y no hay nadie.



SI YO NUNCA


Vienen los días, acaban las frases,

En esta nave abandonada que llamo dios,

Como si fuera la primera vez, el motivo

De no sabe qué anunciación.

El sereno trazado de los astros

Sobre alguna parte resplandecía.

Grave laguna, ¿son tus ojos

O son castigo

Las llagas que mecen mis brazos?

En las viejas casas cerradas,

Palomares enfermos,

No ha vuelto a oírse la luz del día,

Ni la sangre ya corre

Por las avenidas del viento.

Bebiendo

El transcurso indolente de las horas,

Las sombras abatidas

De la herida en el alma.

Habré muerto, pues vuelvo


A las calles aquellas y dicen conocerme.



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