Tommaso Pincio | Il bianco e il nero (racconto in quattro momenti)

Primo momento. Il mio telefono era poco più che un orologio. Anzi, per come lo usavo, era soltanto un orologio. Lo guardavo infatti soltanto...


Primo momento.


Il mio telefono era poco più che un orologio. Anzi, per come lo usavo, era soltanto un orologio. Lo guardavo infatti soltanto per quello, per controllare l’ora. Non chiamavo nessuno e nessuno mi chiamava. Non fotografavo. Non giocavo. Non scaricavo applicazioni. Non navigavo. Perché ne avessi uno, non lo so. Immagino perché lo avevano tutti. Sapevo che c’era un mondo intero là dentro, la cosiddetta rete, ma non ci andavo. Me ne tenevo a distanza e non perché fosse un mondo virtuale. Non temevo la sua insidiosa incorporeità, la possibilità che potesse rivelarsi un universo parallelo capace di sconvolgere in un attimo le verità dell’universo in cui vivevo. Me ne tenevo a distanza come avevo cominciato a tenermi a distanza dal mondo materiale. Se la gente si appartasse dalla vita come mi sono appartato io, si risparmierebbe un sacco di problemi e fraintedimenti. Un sacco di odio, anche. Basterebbe capire che non va fatta alcuna sostanziale differenza tra ciò che troviamo dentro la rete e ciò che troviamo qui fuori, tra ciò che diciamo là dentro e ciò che diciamo qui fuori. Là dentro come qui fuori basta un niente perché una parola diventi più dura di un sasso e un’invenzione qualcosa di più vero del bisogno di respirare. Del resto non è forse vero che ci si può innamorare di una persona senza averla mai incontrata, perché te ne hanno parlato o hai udito la sua voce al telefono, dal tono particolarmente caldo o brioso o malinconico? Se è quello giusto, anche un semplice nome può bastare. Figurarsi dunque se non ci si può innamorare di un libro senza averlo mai sfogliato, sempre perché te ne hanno parlato o per il titolo o – ed è anche questa una cosa che capita di frequente con le donne – perché non lo puoi avere, perché è raro, come si diceva ai miei tempi tra bibliofili, o peggio ancora introvabile. Daria Stento si era innamorata – o almeno così ho creduto – del Bianco e il nero, libro frammentario ed elusivo, com’era nello spirito del suo autore, Martirio Encantada, un porteño famoso, a quanto pareva, per la capacità di star solo e senza far nulla per parecchie ore di seguito non patendo la noia, anzi godendone. Sebbene la banalità comunque cattivante di un titolo come Il bianco e il nero fosse fuori discussione, fu però altro a stuzzicare le fantasie di Daria Stento, una frase che lei sosteneva avere sentita pronunciare non ricordo più dove e da chi. La frase era questa, testuale:

«Nascere è una beffa: arriviamo e già ci sono gli altri, in quantità così immensa che in senso stretto è peggio essere uno di loro che non essere». Potevo non capire Daria Stento? Potevo eccome. Infatti, mentre insisteva a parlarmi della straordinaria figura di Martirio Encantada e del suo libro misterioso, io la udivo e non la udivo, la seguivo ormai distratto, dalla lontananza in cui era sfumata la mia mente, tutta presa dal giro perfetto di quella frase, dalla sua verità. Venni sottratto a quei pensieri quando la ragazza un po’ a bruciapelo mi domandò se conoscevo Martirio Encantada. Era seduta davanti a me, al tavolo che occupavo quasi ogni mattino per circa un’ora dalle undici in poi, l’unico momento della giornata in cui il Gatsby era quasi vuoto e dunque un quasi paradiso per me che non sopportavo più di trovarmi accalcato tra i miei simili, specie al chiuso. Ne stimai l’altezza, di qualche centimetro superiore alla mia, e gli anni, attorno ai trenta, quell’età magica – irresistibile per me, che ormai posso osservarla solo da lontano – in cui si è schiacciati tra la giovinezza e quel che viene dopo. Aveva capelli nerissimi e lunghi, anche se raccolti appena sopra la nuca, con un paio di ciocche che le cadevano ai lati del collo pallido. Pure gli occhi erano neri o almeno parecchio scuri, e così le sopracciglia e le ciglia leggermente cispose che mi indussero a immaginare si fosse alzata da poco. «Lo conosce o no?» insisté. Certo, risposi in tono vago, scusandomi per essermi assentato. Al che sorrise, rivolta più a se stessa che a me e in un modo così beffardo che anch’io risi tra me, nella convinzione tutta sbagliata, come avrei poi scoperto, che sorridesse perché la fissavo con desiderio, già un po’ invaghito, quando in realtà, come ho detto, era a tutt’altro che pensavo... la fissavo cioè senza vederla davvero o vedendola soltanto a tratti e anche in quegli intervalli non era la piacevolezza del viso e della sua presenza in generale a interessarmi, ma il vago accenno di occhiaie sospeso sopra il tondo delle guance morbide che mostravano i primi segni di cedimento, e mi interessava non tanto perché è proprio in presenza di certe imperfezioni che la bellezza ci appare finalmente come qualcosa di vero e tangibile, di carnoso e perfino non così diverso da noi, quanto perché in quei piccoli e quasi impercettibili guasti intravedevo la conferma che il tempo scorre per tutti, non soltanto per me. In altre parole, non la guardavo affatto perché perso nel più trito degli squallori: uomo qualunque attempato in totale e rovi- noso struggimento per giovane altrettanto qualunque ma con il vantaggio della giovinezza. Avevo letto troppi romanzi per cascarci ed ero troppo affaticato dalla vita per sentirmi abbastanza vivo e indulgere in simili fantasie. No, se la guardavo è perché dicevo fra me, Cosa credi, fanciulla, arriverà anche per te il momento, anzi è già arrivato anche se fingi di non pensarci, e così dicendo mi consolavo. Meschino, vero, consolarsi a questa maniera, con il pensiero che quanto tocca a te finirà per toccare anche agli altri? Mi ero ridotto così. Sempre perché avevo letto troppi romanzi, e libri in generale, mi verrebbe da aggiungere, ma in fondo cosa importa il perché? Che colpa avevano i libri se non ero stato capace di emanciparmi da loro? Tra l’altro la miseria delle mie consolazioni è solo l’inizio di questa storia; niente al confronto di ciò che venne dopo. E per tornare appunto agli eventi, a quel mattino da Gatsby, ciò che venne dopo il sorriso di Daria Stento mise una brusca fine al nostro primo incontro. Il rumore di una goccia che cadeva, ricreato elettronicamente dal suo telefono, notificò l’arrivo di un messaggio alla mia nuova conoscenza, che torse il busto per affondare una mano nella borsa. Si scusò a mezza bocca e si dedicò allo schermo. Vidi il bagliore biancastro illuminarle dal basso il viso dandone una versione spettrale, vidi Daria sorridere rapita con un’espressione che la fece tornare quasi bambina, la vidi carezzare più volte con il pollice lo schermo, a scatti, fermandosi di tanto in tanto. Da principio sfruttai quell’interruzione per tornare a pensare a Martirio Encantada, a questo suo libro, Il bianco e il nero, e alla frase che tanto mi aveva colpito e al ritratto che di Martirio mi aveva fatto Daria, ma soprattutto a un mistero di cui non mi capacitavo, il fatto che non ne avessi mai sentito parlare. Perché un’altra misera verità è che avevo mentito poco prima, confermando come niente fosse che lo conoscevo. Non era così, il che era quanto meno curioso per chi, come me, aveva vissuto solo di libri. Non dico letto, ma almeno averlo sentito nominare. Come potevo avere dimenticato un personaggio tanto sopra le righe, uno che, per stare a uno dei racconti di Daria, attribuiva a Cervantes qualunque pensiero gli passasse per la testa, dando spesso i riferimenti precisi – capitolo pagina edizione – del Don Chisciotte, e quando qualcuno gli faceva notare che in quella pagina Cervantes aveva scritto tutt’altro, lui, senza scomporsi, ammetteva che poteva anche darsi ma, se così era, lo aveva scritto solo per risparmiarsi questioni con la censura? Fui tentato di prendere anch’io il telefono e cercare informazioni. Cedere alla tentazione lo trovavo però degradante, come pure tolleravo poco l’offesa di dovere aspettare i comodi di un’estranea che si era seduta al mio tavolo, non invitata, cominciando a parlare di libri, con i rischi che questo comporta oggigiorno. Chi si cre- deva di essere? Mostrai vari segni di impazienza, tamburellai con le dita sul tavolo, feci respiri profondi e rumorosi, mi guardai attorno scocciato, finché lei, di nuovo con un sorrisino, posò il telefono e disse «Scusa». Di colpo era passata al tu. Che significava quella novità? Riportò una mano al telefono, lasciato a se stesso sul tavolo per non più di un secondo, e cominciò anche lei a tamburellare con le dita o, meglio, con le unghie smaltate di un bianco sporco sulla custodia di plastica, sempre sorridendo ma con un’espressione diversa sul viso, una sorta di imbarazzo, una timidezza da bambina, di cui mi sfuggiva l’esatta natura, quanto fosse simulata e quanto sincera, e comunque in preoccupante contrasto con il gesto della mano, che aveva invece tutti i crismi dello scherno. Qualcosa bolliva in pentola, era chiaro, ma giusto il tempo di domandarmi se non fosse il caso di cominciare a inquadrare sul serio quella ragazza, i suoi scopi soprattutto, ed ecco che la vedo afferrare di nuovo il telefono, piegandosi un poco in avanti, per dire «Non so se posso chiedertelo, se ti dà fastidio». La guardai, raddrizzando il busto. «È una sciocchezza, ma magari ti scoccia lo stesso». Sentiamo, pensai senza però fiatare. «Non è che ti lasceresti fotografare insieme a me?». Mi alzai di scatto urtando il tavolo che, inclinandosi, rovesciò il tè di Daria Stento addosso a Daria Stento, in particolare sulla bella lana bianca del suo maglione, in tono con lo smalto delle unghie, me ne rendevo conto soltanto ora, mentre dicevo – o forse urlavo – un secco no. «Ma perché? È soltanto una foto. Non avevo mai conosciuto un lettore vero prima d’ora» insisté lei senza dare l’impressione di preoccuparsi del danno patito dal maglione, che aveva molto l’aria di essere un capo tutt’altro che economico. «Ti prometto che la terrò per me. Non la vedrà nessuno, non la pubblicherò su nessun social». Ci mancherebbe pure, ribattei tra i denti, con un filo di voce e il corpo – ancora in piedi davanti al tavolo – che mi tremava. «E su, un piccolo ricordo di questo nostro incontro fortuito. Chissà quando ci ricapiterà». Non vi è alcuna necessità perché ricapiti. «Perché dici così? Non è stata forse piacevole questa mezzora che abbiamo passato insieme? E poi, me lo devi, in fondo». Io non le devo proprio niente. «Sì, invece, grazie a me hai conosciuto Martirio Encantada». Ripetei che lo conoscevo benissimo, tenendo il punto come un bambino. «Non ci provare. Sono più che sicura che non lo conoscevi, l’ho capito dalla tua faccia» disse ridendo, guardandomi con materna commiserazione. Lo conoscevo benis- simo, bofonchiai ancora, e comunque... «Sì?» disse lei, con la testa leggermente inclinata su un lato e un bordo del telefono poggiato sulle labbra dischiuse. E comunque appartengo a un’epoca in cui queste cose non si usavano, dissi. Pronunciate queste melodrammatiche parole, schizzai fuori dalla sala, mi fermai davanti alla cassa per scoprire che il mio caffè macchiato era stato già pagato dalla signorina e uscii dal Gatsby. Ritrovarsi all’esterno fu una strana sensazione, che non saprei definire con esattezza, a parte che mi sembrò di passare da una dimensione a un’altra, come se in quella mezzora trascorsa a parlare con Daria Stento il mondo fosse cambiato o si fosse spostato, pur restando lo stesso. Perché che fosse lo stesso era indubbio. La triste penombra dei portici di piazza Vittorio era sempre quella, come sembravano immutati i suoi passanti, le feroci persone dabbene che sfilavano tra gli immigrati, l’esercito degli esclusi che si infoltiva quasi a vista d’occhio. Mi girai su me stesso un paio di volte, come per orientarmi o forse per nascondermi, perché infatti, con una deliberazione meccanica, impostami da chissà quale recesso della mente, sono andato ad appostarmi a una ventina di metri dal Gatsby, dietro uno dei pilastri che sorreggono gli archi della piazza, in attesa di vederla uscire e quando infine l’ho vista – non più di una decina di minuti dopo – ho atteso che lei si immergesse nel sottopasso della metro per seguirla a distanza fino ai tornelli, oltre i quali è scesa per la scala mobile voltandosi con compassata lentezza, quasi un attimo prima che scomparisse del tutto, quando della sua figura restavano soltanto testa e spalle. E qui non so più cosa ho davvero visto e quanto ho creduto di vedere, essendo a quel punto lei troppo lontana e io un miope che non si è mai voluto rassegnare agli occhiali, ma la sensazione fu che, nel voltarsi, mi avesse lanciato un altro dei suoi sorrisi irridenti, andando a colpo sicuro, senza cercarmi con lo sguardo cioè, come sapesse con esattezza dov’ero.


Secondo momento.


Come dovevo interpretare tutto ciò? Tornato a casa cercai sì di non pensarci più, di reimmettermi nel corso della mia routine di persona ormai quasi anziana e appartata da tutto e tutti, ma fu ovviamente impossibile. Non mi riuscì nemmeno di cucinare, attività che di solito mi pacificava. Non avevo fame del resto, sicché mi rassegnai a quel che mi ero ripromesso di evitare mentre uscivo dalla metro. Mollai gli indugi e presi il largo nel procelloso mare di internet, dove non mi avventuravo da parecchio. Come in fondo presentivo, fu una navigazione brevissima. Per la rete, non esisteva alcun Martirio Encantada, tanto meno un Martirio Encantada scrittore. Era dunque un’invenzione di questa Daria Stento? Non si poteva certo escludere, anzi era l’ipotesi più ragionevole, ma appena la prendevo in considerazione la testa si riempiva di altri e più numerosi interrogativi, di fronte ai quali mi sentivo molto più impotente, anche perché il ricordo della mezzora passata al Gatsby, malgrado recentissimo, si era già a tal punto intricato che non lo dirimevo più. Seguitavo a rivedere lei voltarsi dalla scala mobile e quanto era accaduto prima mi appariva altrettanto sfocato, indeciso tra il vero e il falso. Era sempre stato un mio problema rimuginare sui fatti fino a per- derli di vista. Da quando poi avevo smesso di avere relazioni con i miei simili, fatta l’ovvia eccezione relativa ai contatti imposti dal disbrigo di impellenze ineludibili quali il procacciamento di cibo al supermercato, la fastidiosa tendenza a confondere oggetto e speculazione si era per forza di cose aggravata. Ero seduto davanti a me, sul mio divano, e fissavo la parete interamente coperta di libri e mi domandavo se non fosse stata tutta quella carta stampata a ridurmi così. Me lo domandavo spesso, in effetti, e mi guardavo sempre dal dar- mi una risposta definitiva perché avrebbe significato disfarmi delle uniche vite che avevo in qualche modo vissuto. Del resto che senso aveva curarmi da una malattia che conoscevo benissimo e di cui mi fidavo come fosse un vecchio amico? Il pensiero di quella parola – amico – riportò i miei occhi sul telefono che ancora tenevo tra le mani e mi serviva soltanto come orologio, a parte qualche rara sortita in rete, come quel- la di pochi istanti prima per cercare notizie di Martirio Encantada. Quanto tempo era che non chiamavo qualcuno? Cominciai a scorrere la rubrica che incredibilmente contava 159 contatti, anche se la gran parte erano persone il cui nome non mi diceva nulla. Alla lettera P, mi fermai però su Francesco Ponti. Forse a lui potevo telefonare, ammesso che il numero fosse ancora attivo e lui ancora vivo. Non lo vedevo da quando aveva chiuso la libreria dell’usato in via Vespasiano, ai tempi un luogo di ritrovo, un salotto di sbalestrati e depressi come spesso erano i frequentatori di quel genere di librerie. Francesco era anche lui un malinconico, ma con più senso pratico di noi suoi clienti. A differenza di noi, si era sposato, aveva una figlia che studiava a Londra, una famiglia normale che lui manteneva senza problemi; aveva infatti un’abilità non comune per gli affari e diversamente da noi suoi clienti sapeva come guadagnare con i libri. Gli riuscì di fare soldi perfino nei momenti più bui e se arrivò a decidersi di calare per sempre il bandone fu solo per la testa di maiale mozzata che trovò sul tavolo un mattino, entrando in negozio. I libri erano tutti al loro posto, beati, nulla era stato toccato. Gli effrattori si erano limitati a lasciare quel macabro messaggio, perché che fosse un messaggio era l’unica certezza implicita nel macabro ritrovamento. «Non so cosa significhi» aveva detto Francesco a chi passò quel giorno in libreria, «ma qual- cosa significa di sicuro, per cui, scusatemi, ma questa storia per me termina qui». Se si scusava non era per la viltà di cui avremmo potuto accusarlo. Non era un vile, era anzi stato, tra i librai romani, l’ultimo a cedere e non per necessità. Aveva raggiunto una stabilità economica che gli consentiva di pren- dere il lavoro come un passatempo e un’opera di bene. Se aveva resistito era stato per noialtri sbandati e solitari malati di libri. Sapeva che per noi la chiusura del negozio equivaleva a perdere una famiglia, la sola occasione di una qualche forma di socialità, e sapeva che una volta perso quel surrogato di casa, quel luogo di contatti umani, una volta diventati orfani – per chiamare il dramma con il suo vero nome – non avremmo cercato nuovi posti, nuovi surrogati di famiglia; ci saremmo rintanati in noi stessi ed era di questo che si scusava. Il suo numero era ancora attivo e lui rispose al suono della mia voce con un entusiasmo che in un attimo mi tolse dall’imbarazzo di spiegare perché mi rifacevo vivo. Tutto fu molto naturale. Cominciò a prendermi in giro alla sua maniera benevola ed ebbe la delicatezza di non chiedermi niente della mia vita, risparmiandomi un altro e forse più penoso imbarazzo: dirgli come me la passavo e cosa avevo combinato in tutti quegli anni. Non mi fu dunque difficile passare dai convenevoli al punto, se aveva mai sentito parlare di Martirio Encantada e di un suo libro intitolato Il bianco e il nero. Gli risultavano entrambi sconosciuti, anche se la descrizione del personaggio e la sua origine porteña gli ricordavano qualcosa che non riusciva a mettere a fuoco. Gli dissi della mia perplessità riguardo a quel nome tanto suggestivo, che pareva inventato. «È vero» confermò Francesco, «ma non significa nulla. Può benissimo essere uno pseudonimo. Tu stesso ne hai usato uno per molto tempo, no?». Aveva ragione. Mi ero quasi dimenticato del mio semioscuro passato di scrittore e forse per questo non avevo pensato a quell’ipotesi più che plausibile. Restava però aperta l’altra questione, come mai non avevo trovato tracce del Bianco e il nero? Un libro stampato ne lascia sempre qualcuna, non sparisce nel nulla. «Un tempo forse. Ma ora i pochi cataloghi di biblioteche rimasti online hanno subito tanti di quegli attacchi informatici che la loro attendibilità è pari a quella delle profezie di Nostradamus. Ma potrebbe esserci un’altra possibilità. Che sia stato stam- pato senza editore. In proprio, in pochi esemplari. Un libro autoprodotto. Una scelta in linea con il personaggio che mi hai descritto, il che spiegherebbe il nom de guerre dietro il quale si nasconde magari uno scrittore che conosciamo benissimo. Non facesti qualcosa di simile anche tu, ai tempi?». Avevo fatto anche questo, vero, e anche di questo mi ero quasi dimenticato. Però, pensai a voce alta senza rendermene conto, se così fosse, come fa lei a sapere tante cose sul suo conto? «Lei? Lei chi?». Dovetti dirgli della ragazza; che era stata lei a parlarmi di Martirio Encantada. «C’è dunque una ragazza? Mi sorprendi». Provai a spiegargli che non c’era niente di cui sorprendersi; che non era come pensava lui.

«Oh, ma io non penso proprio niente. Solo, una ragazza è una ragazza. Non mi sembra un elemento da poco, conoscendoti. E se è stata lei a dirti di questo Martirio, significa che avete parlato, e nemmeno questa è una novità qualunque, conoscendoti. Racconta, la telefonata si fa interessante». Allora gli raccontai di come qualche giorno prima – mentii, lo so – mi trovassi in questo bar che lui non conosceva, il Gatsby, nei pressi di casa mia, e dove avevo l’abitudine di andare a leggere ogni mattina. «Leggere in un locale pubblico? Sei impazzito? E nessuno ti ha detto niente?». Leggere a mente. Memorizzavo le pagine prima di uscire e me le rileggevo al bar, a mente, prendendo un caffè macchiato. Adesso si usava così, per evitare problemi. «Ho sentito, sì, ma è rischioso comun- que. Qualcuno potrebbe capire». E infatti questa ragazza di cui gli dicevo, Daria Stento, si era fermata davanti al mio tavolo e mi scrutava. Al che ho smesso di leggere e l’ho guardata come per dirle cosa volesse finché non è stata lei a parlare, dicendomi «Scusi, lei sta leggendo, vero?». Cristo. Mi sono guardato intorno per capire se qualcuno avesse sentito e intanto lei seguitava «No, non mi dica niente, non c’è bisogno che mi risponda, l’ho capito subito che stava leggendo». Non la smetteva più. Mi subissava di domande. Quanto spesso andavo a leggere in quel bar. Quante pagine riuscivo a legge- re senza libro. Che cosa stavo leggendo. «E cosa stavi leggendo?». Un racconto di Čechov, Uno scherzetto. «Però. Sei migliorato. Quando ci frequentavamo avevi gusti di merda». Gli dissi di smetterla. Che non ci si mettesse anche lui, che non scherzasse. Non era importante cosa leggevo, mi ascoltasse piuttosto. «Non ti agitare, ti ascolto». Francesco aveva ragione, mi stavo agitando. Rievocare i fatti di quella mattina mi stava dando le palpitazioni, mi sforzai di recuperare un minimo di controllo e ripresi il racconto. Gli dissi che la ragazza.

«Questa Daria». Quella Daria sì, mi chiese se mi dava fastidio che lei si sedesse un attimo, anzi che mi facesse un po’ compagnia, aveva detto così in effetti, e prima che io avessi il tempo di protestare o rendermi conto di niente, lei era già seduta davanti a me, per farmi un po’ compagnia, dicendo che le sarebbe piaciuto tanto leggere come facevano le persone della mia età ma purtroppo era troppo giovane. «Troppo quanto?». Non sapevo. «Sì che lo sai». Sui trenta, un paio di meno forse. Diceva che riusciva a tenere a mente abbastanza bene fino a mezza pagina, ma non di più, e lei, sempre a quanto diceva, tra gli amici della sua età, era quella con la memoria di ferro. E insomma, alla fine mi aveva chiesto se fossi disposto a spiegarle come si fa, se c’è un metodo particolare o è proprio un problema di generazione. «Non le avrai mica detto che eri disposto, spero». Certo che no. Per quanto, a dire il vero, non è che me lo avesse proprio chiesto. Aveva parlato in astratto, riferendosi a una terza ed eventuale persona, dicendo che le sarebbe piaciuto trovare qualcuno in grado e disposto a insegnarle. Si era anche detta pronta a ricambiare offrendo qualcosa di molto prezioso, qualcosa che valeva lo sforzo, se non di più. «Posso immaginare. È carina almeno?». No. «Non vale la pena dello sforzo, dunque? Fossi in te ci farei un pensiero comunque. Sui trenta, forse un paio di meno, quando ti ricapita». Francesco aveva frainteso. Quel che questa Daria si proponeva di offrire non era quel che pensava lui. «E cosa allora?». La conoscenza dell’opera di uno scrittore straordinario ignoto a tutti o noto a una ristretta cerchia di iniziati. «Martirio Encantada». Esattamente, e senza che io le chiedessi niente, questa Daria aveva cominciato a parlarmi di lui, a raccontarmi quale personaggio fosse, a citarmi passi del libro più importante e introvabile, Il bianco e il nero. «Non tiene a mente più di mezza pagina ma cita passi da un libro introvabile». Sì, era strano, a ripensarci, anche se in effetti di passi ne aveva citati soltanto un paio, due frasi appena, peraltro non lunghe o chissà quanto complesse, anche se, dovevo ammetterlo, affascinanti. «E le hai chiesto come mai lei, una ragazza sui trenta, forse pure più giovane, conosca così bene uno scrittore ignoto a tutti, tanto da citare passi dal suo libro introvabile?». Dovetti confessare a Francesco che non potevo. «E perché?». Perché le avevo detto che lo conoscevo. «E bene, magari». Non proprio, ma in un certo senso sì. «Ti pareva. Non sei cambiato per niente, vedo». Lo pregai di non tormentarmi e di ascoltare il resto.

«Sentiamo». Gli dissi così il resto, fino alla richiesta della foto, raccontandogli del mio scatto, di come le avevo versato sul maglione il suo tè e di come mi ero congedato. Tutto tranne la parte in cui mi ero appostato dietro la colonna per seguire Daria nel sottopasso della metro. «Interessante, però. La tua citazione, intendo». Che citazione? «Henry James». Non capivo. «Quando le hai detto che appartieni a un’epoca in cui certe cose non si usavano. Potrei ricordare male, ma non è la stessa cosa che dice la vecchia del Carteggio Aspern?». Aveva ragione anche stavolta, senza rendermene conto avevo usato la battuta di un libro. «Che non te ne sia reso conto è ancora più interessante. Può darsi che una parte profonda di te abbia colto qualcosa di cui non sei consapevole e ti stia mandando un segnale, se non un avvertimento». Chiesi lumi.

«Beh, Il carteggio Aspern non racconta forse di un critico letterario che si introduce con l’inganno, con un nom de guerre, in casa della vecchia amante di un famoso poeta per impos- sessarsi dei suoi scritti?». E con ciò? domandai, nonostante avessi intuito qual era l’ipotesi di Francesco. «Questa Daria potrebbe avere mire analoghe. Finge di capitare per caso in un bar dove tu vai tutte le mattine, ti irretisce parlandoti di uno scrittore e di un libro che nessuno ha mai sentito, ti cita frasi che sembrano concepite apposta per combaciare con il tuo gusto. Non so, ma è come se in questo incontro non ci sia nulla di accidentale, ma proprio nulla, anzi, più ci penso, più mi sembra pianificato, come se anche lei stesse cercando di introdursi nella tua vita per sottrarti qualcosa o per un altro scopo che non sappiamo. Non hai forse detto che aveva già pagato il tuo caffè?». L’avevo detto, sì. «E si è mai alzata dal tavolo dopo avere attaccato bottone con te?». No. «Dunque l’ha pagato prima. Dunque non ti ha incontrato per caso. Sapeva già che eri al tuo tavolo e probabilmente sapeva anche che vai in quel bar ogni giorno e a che ora. Chissà da quanto tempo ti ha adocchiato». Ammisi che pure per me c’era qualcosa che non quadrava, malgrado non ricordassi di averla mai vista prima, né al Gatsby né in giro per il quartiere. «Questo non significa proprio niente. Svagato come sei, non vedresti nemmeno tua madre e comunque la prima accortezza che ha un pedinatore è proprio quella di non farsi notare dal pedinato, ti pare?». Sì, ma a differenza di Miss Bordereau, non avevo carteggi io, pensai con la testa ormai in subbuglio.

«Non è del tutto vero». Si riferiva a una vecchia storia, roba di una vita fa. «Non così tanti. Tu e io siamo ancora qui, non più in forma come un tempo ma nemmeno così decrepiti. Quei messaggi che hai reso pubblici saranno anche roba di una vita fa, ma sono ancora in rete e, grazie a te, chiunque può leggerli e costruirci sopra chissà che castelli». Erano a disposizione di chiunque appunto e, va bene i castelli, ma io non avevo altro, non sapevo nulla di più di quanto non fosse già pubblico. «I castelli sono castelli. Non puoi impedire alla gente di fantasticare che tu nasconda ancora qualcosa. Senza contare i libri di Tondi. Che quei libri si trovano ora in casa tua è anch’essa un’informazione che hai divulgato urbi et or- bi, un’altra delle tue follie. C’è un mercato clandestino per articoli di quel tipo, un giro di soldi tutt’altro che disprezza- bile». Mi stupì un po’ sentire Francesco usare una parola si- mile riferita ai libri: articoli. «Solo per dire le prime ipotesi che mi vengono in mente. Ma potrebbero essere tante altre le mire di questa tua Daria». Tante altre quali? «Non lo so. Tante. Di sicuro ne ha una, però, e farei molta attenzione, fossi in te, la prossima volta che vi vedete». Dissi che non ci sarebbe stata nessuna prossima volta. Francesco scoppiò a ridere. «Ci sarà, ci sarà. Ci sarà eccome».


Terzo momento.


E ci fu infatti, anche se non subito. Arrivò quando cominciai ad abbassare la guardia, una cosa che mi ero ripromesso di evitare ma che è purtroppo nella natura umana, se non nella natura di ogni specie vivente. Se non ci fosse un momento in cui la preda si distrae o si abitua ai segnali di allarme al punto di non prenderli più come tali, un cacciatore non avrebbe speranze. Ma procedo con ordine. Nei giorni immediatamente successivi al primo incontro con Daria Stento abbandonai la routine del caffè macchiato al Gatsby per iniziarne una nuova. Ogni mattina, una decina di minuti prima dell’ora del mio caffè, mi appostavo dietro una delle colonne, in prossimità del bar. Ogni mattina cambiavo colonna, le alternavo con metodo per ridurre il rischio che qualcuno mi notasse. Una precauzione insensata, lo riconosco, ma del resto ogni cosa era insensata, Daria Stento, io, la situazione, tutto. L’appostamento durava all’incirca un’ora, il tempo che solitamen- te trascorrevo al Gatsby. Cosa contavo di fare nel caso l’avessi vista sbucare dalla metro ed entrare nel bar? Non sapevo bene. Forse avrei aspettato che uscisse per seguirla. O forse mi sarei limitato a prendere atto che Francesco aveva ragione. Avrei deciso poi. Avrei improvvisato, mi dicevo, nonostante l’improvvisazione fosse quanto di meno indicato per la mancanza di sangue freddo e presenza di spirito che avevo sempre dimostrato nei momenti che contavano. Per quanto, for- se speravo soltanto che non riapparisse, che trascorresse un tempo ragionevole – un mese o due – senza lei nei paraggi, così da riappropriarmi del mio tavolo, dei miei caffè macchia- ti al Gatsby, della mia tranquillità. Se questa era davvero l’intenzione, gli appostamenti la favorirono al meglio. Il tempo passava e di Daria nessuna traccia. Se le cose si fossero limitate a questo, non avrei potuto dirmi più soddisfatto. Mi sentivo già autorizzato a considerare imminente il ritorno al mio tavolo, e non solo: passati i primi giorni di imbarazzo in cui mi sentivo quasi un ladro a nascondermi in quel modo ridicolo, quella nuova routine cominciava perfino a piacermi. Malgrado il freddo e il grigio di quei giorni, anzi forse pure in virtù delle intemperie – eravamo ancora in gennaio –, c’era qualcosa di gratificante nello starmene lì, tutto serio e attento, ingobbito nel mio giaccone, a sorvegliare il viavai del portico. Mi rinvigoriva, mi rimetteva al mondo, mi pareva di riprendere in mano la mia vita, di decidere del mio destino dopo un lungo periodo di inattività. Purtroppo gli eventi non si limitarono a questo. Avevo cominciato a visitare con regolarità, diciamo pure con ossessione, un forum dove si praticava ancora un commercio clandestino di libri. Era stato Francesco a dirmi della sua esistenza e sempre Francesco a fornirmi le credenziali per accedervi. Anche lì inizialmente le cose promettevano pace. Martirio Encantada e il suo libro parevano non esistere. Mi arrischiai anche a interpellare in via privata un paio di utenti tra i più attivi, ricevendo risposte identiche: mai sentito nominare. In effetti, a ben guardare, la vera buona notizia avrebbe dovuto essere di tenore opposto, giacché se Daria si era inventata tutto, come sembrava, se ne doveva concludere che avesse un suo piano. Non diedi però un peso particolare a questa contraddizione pur evidente. Mi bastava che lei e il suo fantomatico autore si fossero dileguati con la stessa repentinità con cui avevano sconvolto le mie abitudini. Magari lo aveva davvero un piano – mi dicevo intirizzito da quelle mattine di inverno pregustandomi il calore del Gatsby a cui sarei tornato a breve – ma non doveva essere poi così importante, visto che non stava avendo un seguito. Finché, dopo un mese e mezzo di appostamenti, quando mi ero quasi dimenticato del perché passavo da una colonna all’altra a osservare la gente, ecco comparire nel forum un annuncio: un utente che usava Nadja_84 come nom des affaires metteva in vendita un esemplare «in perfette condizioni, come nuovo, mai letto» del Bianco e il nero di Martirio Encantada. La descrizione era ridotta all’essenziale: quella traduzione italiana fuori commercio e «introvabile» replicava in ogni dettaglio – allestimento, grafica, numero di pagine ecc. – il mitico volume stampato dall’autore a Buenos Aires a sue spese e senza editore. Il prezzo, cento euro. Malgrado non avessi termini di raffronto e parlassimo di un autore ignoto a tutti, era comunque un’inezia per un libro di quella natura. Nadja_84 forniva una foto da cui però non si capiva granché. Un rettangolo nero con gli angoli del lato opposto alla costa arrotondati. Niente titolo, niente nome dell’autore, non uno straccio di niente. Solo quel rettangolo nero. Ingrandendo l’immagine, stabilii che la copertina del libro era rivestita di una similpelle nera che ricordava da vicino i taccuini Moleskine. Per quanto, «da vicino» era un eufemismo: l’oggetto aveva tutta l’aria di un taccuino. Francesco non aveva dubbi in proposito. «È chiaramente un taccuino. Ma non significa niente. Magari il tuo Martirio voleva proprio che il libro venisse scambiato per un Moleskine». Ero perplesso, mi sembrava un’idea bislacca. Certi pretenziosi taccuini erano per i dilettanti e gli scemi. I veri scrittori scrivevano dove capitava, su cartaccia qualunque, i quaderni di scuola. Francesco scoppiò a ridere.

«Come i pittori di un tempo che schizzavano ritratti sulle tovaglie di carta delle osterie? Quanto sei romantico». Non era questione di romanticismo ma di buon gusto, se non di semplice buon senso. E tuttavia anche stavolta finii per ammettere che Francesco non parlava a vanvera. La scelta del Moleskine poteva nascondere un intento satirico, uno sberleffo alla sedicente letteratura che valeva meno della carta su cui era stampata. Un’idea di questo tipo si confaceva pienamente all’uomo che mi era stato delineato da Daria Stento. Senza contare il titolo. Più bianco e nero di così. «Bisogna vedere che intendi per così o meglio cosa intendeva Martirio per bianco» osservò Francesco, lasciandomi interdetto. «Se tanto mi dà tanto, a quella copertina dovrebbe corrispondere un libro vuoto». Nemmeno questa era un’ipotesi campata per aria, ma la giudicai comunque assurda. «Non lo è affatto. Pensaci, uno scrittore che invece di consegnare le parole alla carta, lascia il taccuino in bianco e diffonde la sua opera oralmente tramite ambasciatori, incaricati di far nascere nei lettori un desiderio per un libro che non c’è. Spiegherebbe la comparsa solo apparentemente fortuita di quella ragazza». Daria Stento era dunque un’ambasciatrice di Martirio En- cantada? «Perché no? Forse non direttamente. Forse l’incarico di ambasciatore viene trasferito di persona in persona, come una catena. Forse, come te e prima di te, Daria Stento è stata abbordata da un ambasciatore che le ha parlato di Martirio Encantada facendo nascere in lei il desiderio di leggere Il bianco e il nero, e a quel punto, come te, si è messa alla ricerca del libro finendo per scoprire che si tratta di un taccuino immacolato. Dopodiché non le è rimasto che ripetere il gesto, individuare un lettore da affascinare con la storia di un libro mai scritto». Ma che follia. Domandai a Francesco dove andasse a pescare certe idee. Qual era lo scopo di allestire un’impresa simile? Ma c’era anche qualcos’altro che non mi tornava: chi garantiva a Martirio Encantada che la catena non si spezzasse? Perché mai i lettori ingannati dovevano infliggere ad altri lo stesso tormento e tramutarsi in ambasciatori? «Soltanto entrando in possesso di quel taccuino è possibile avere una risposta definitiva a questa tua domanda. C’è tuttavia una cosa che mi sento di affermare con certezza qua- si assoluta e che viene dalla mia lunga esperienza di libraio, di uomo che ha passato una vita a osservare gente che dopo avere sentito parlare di un titolo non più in commercio, difficile da trovare, non riusciva a pensare ad altro che a quel libro divenuto di colpo così indispensabile da farla ammalare nel senso clinico del termine. Un attimo prima non sapevano neanche che quel libro esistesse, quello dopo pareva ne andasse della loro vita; che non potessero respirare senza. In fondo è stato un bene che i libri siano scomparsi dalla circolazione. Non era forse quella la vera follia?». Restai in silenzio. «Negalo, sei hai coraggio. Tu stesso. Non so quante volte ti ho visto incapricciato di un libro che dovevi assolutamente trovare, a qualsiasi prezzo, malgrado tu sia sempre stato un mezzo morto di fame. Scusami se mi esprimo così, ma è la verità. Dovresti ringraziare di avere trovato uno come me, che non ne ha mai approfittato. Sai quante volte ti ho venduto libri per te indispensabili alla stessa cifra che li avevo pa- gati io? E sai quante volte ti ho sentito dire, di quei libri, che non erano poi questo granché, dopo che ne eri entrato in possesso e li avevi letti?». Non avevo il coraggio di negarlo, in effetti. «Non che ve ne faccia una colpa, a te e agli altri disperati che venivate nel mio negozio. Anch’io devo ringra- ziarvi. Se oggi campo senza problemi e posso permettere a mia figlia di vivere a Londra, lo devo a voialtri». Era questo che Francesco si sentiva di affermare con certezza quasi asso- luta? «Non proprio. È che questa storia, questa possibilità che il libro nero di Martirio Encantada non sia altro che un libro in bianco, mi ha fatto tornare in mente l’incipit di Umiliati e offesi, hai presente? Quel passo in particolare in cui Dostoevskij dice di avere sempre avuto l’abitudine di camminare su e giù per la stanza quando pensava a cosa scrivere?». Non ero sicuro di ricordarlo. «Vedi. Ti vanti di essere un gran lettore, anzi un lettore forte – è così che vi chiamavate tra voi, no? –, ma alla fine chi conosce davvero i libri sono io, che li vendevo soltanto». Gli dissi di non rompere. Andasse al punto piuttosto. «Il punto è che, trovandosi in argomento, il nostro caro Fëdor – o comunque il personaggio che parla per suo conto – osserva come abbia sempre trovato maggior piacere nel pensare alle sue opere, a come sarebbero venute una volta scritte, che non a scriverle in realtà. Sicuro di poter escludere che la cosa dipenda da un problema di pigrizia, la voce di Umiliati e offesi si domanda quale sia la causa. Ora, non essendo scrittore e neppure lettore, lascio ad altri stabilire da cosa possa dipendere un fenomeno di questo tipo, posso però affermare con certezza quasi assoluta che è un modo di essere che accomuna scrittori e lettori, forse è il tratto che più li accomuna, se non l’unico in cui scrittore e lettore diventano un’unica persona, e se osservi la storia del Bianco e il nero in questa prospettiva, l’idea di Martirio Encantada è tutt’altro che folle. Ha una sua logica profonda. Unire lettore e scrittore nel piacere di pensare a un libro che non c’è. Può sembrare un disegno sadico, mi rendo conto, ma riflettici con calma. Non sarebbe forse un dono meraviglioso per voialtri disperati convinti di non poter vivere senza libri? Sarebbe un’opera di bene, altroché!». Ero rimasto senza parole. «Ti torna?». Non sapevo se mi tornava o no, di sicuro era soltanto un’ipotesi e pure molto fantasiosa. «Ovvio che è un’ipotesi ma sarei pronto a scommettere di non sbagliarmi. In ogni caso lo scopriremo presto». Presto? Cosa glielo faceva credere? Per scoprire la verità bisognava che io comprassi quel libro. «Appunto. Vorresti forse dirmi che non conti di comprarlo?». Non ci penso minimamente, risposi. Al che Francesco scoppiò in una nuova risata e mi salutò.


Quarto e ultimo momento.


Scrissi a Nadja_84 quel giorno stesso: ero seriamente interessato all’acquisto e chiedevo indicazioni circa le modalità di pagamento. Il dado era tratto. Passai una notte insonne e al mattino controllai i messaggi. Nessuna risposta. Passai così due ore ad aggiornare la pagina del forum a intervalli di un paio di minuti, se non meno. Solo la necessità di sorvegliare l’ingresso del Gatsby mi distolse dalla ripetizione meccanica di quel gesto. Non so se influì più il freddo umido che fece in quel tetro febbraio o l’agitazione che ormai mi aveva preso, ma fu l’appostamento più penoso della mia esperienza di in- vestigatore improvvisato. Tremai tutto il tempo. Non riuscii a pensare a niente malgrado ci fossero molte cose da valutare. Avevo scritto a Nadja_84 senza davvero pormi il problema di ciò che sarebbe potuto discenderne. Avevo agito con fatalismo, arrendendomi senza discutere all’idea che Francesco si era fatto di me e dell’intera faccenda. Ora però era il caso di cominciare a predisporsi a una minore impulsività. Ora che stavo entrando in possesso del Bianco e il nero era ancora più necessario stabilire come comportarmi qualora Daria fosse comparsa. Ma niente, la testa non voleva pensare. Ogni tanto mi appoggiavo alla pietra della colonna, estraevo il telefono dalla tasca per controllare se Nadja_84 aveva risposto. La mattinata si risolse con un nulla di fatto su entrambi i fronti e lo stesso fu per quelle che seguirono. Non so più quanto andò avanti a quel modo, senza novità di alcun genere, di sicuro almeno una settimana. Tutto lasciava supporre che non avrei più rivisto Daria Stento e non sarei mai entrato in possesso del libro-taccuino di Martirio Encantada. A quanto pareva, l’infallibile Francesco Ponti si era sbagliato una volta tanto e stavo quasi per chiamarlo, per prendermi la mia piccola seppure amara rivincita, quando, per scrupolo più che altro, tornai a scrivere a Nadja_84: forse non aveva ricevuto il mio precedente messaggio, ma ero interessato al volume che aveva messo in vendita e aspettavo lumi sulle modalità di pagamento. La risposta arrivò dopo neanche mezzora e non avrebbe potuto essere più lapidaria: «Le modalità sono indi- cate nell’annuncio. Cordiali saluti». Di cosa stava parlando? Avevo letto l’annuncio decine se non centinaia di volte ed ero più che certo che non vi fosse alcuna indicazione su come pagare. Tornai a leggerlo e mi sembrò di sognare. Effettivamente, in calce all’annuncio e in stampatello, era scritto PAGAMENTO SOLO IN CONTANTI. Com’era possibile? Come avevo potuto non vederlo? Scrissi nuovamente a Nadja_84, mi scusai, confermai il mio interesse per il libro, ero pronto a pagare in contanti e restavo in attesa di sapere quando e dove. Solo dopo avere spedito il messaggio mi resi davvero conto che il pagamento in contanti prevedeva necessariamente un incontro diretto e che il venditore poteva vivere in qualunque par- te del mondo; e infatti, mentre ancora rimuginavo su questo dettaglio per nulla secondario, arrivò un messaggio in cui Nadja_84, con la fredda stringatezza che già la distingueva ai miei occhi, scriveva: «Il libro si trova a Trieste». Nient’altro.

Pure stavolta risposi all’istante, ringraziando, dicendo che vivevo a Roma ma potevo certamente arrivare a Trieste in treno, mi desse solo il tempo di organizzarmi. Dopodiché uscii per il mio turno quotidiano di appostamento. Devo essere pazzo, pensai nascosto dietro una delle mie colonne. Davvero volevo andare fino a Trieste e spendere cento euro per un libro di un autore ignoto, del quale, per giunta, conoscevo una frase appena? Sempre che fosse un libro, poi, e non uno stupido taccuino. Per quanto, che il libro si trovasse a Trieste sembrava escludere che Daria ne fosse la proprietaria e dunque un’ambasciatrice di quella che Francesco definiva un’opera di bene concepita per accomunare scrittori e lettori, opera che si profilava anch’essa come una speculazione tanto fascinosa quanto sbagliata. Stai a vedere che Martirio Encantada esisteva davvero e che Il bianco e il nero era un libro come tutti gli altri e Daria Stento una lettrice che l’aveva scoperto per caso e che, sempre per caso, un giorno si era imbattuta in me. Con tutta la letteratura che mi ero sorbito negli anni, possibile non avessi ancora imparato e accettato che spesso la realtà delle cose è meno arzigogolata dei castelli che ci costruiamo sopra? Tutto considerato non aveva molto senso andare fino a Trieste per comprare un libro che sicuramente non avrebbe cambiato la mia vita. Avevo almeno duemila libri in casa e nessuno aveva un simile potere, nemmeno i più belli. Perché questo avrebbe dovuto essere diverso dagli altri? Solo perché non era mai capitato nel raggio dei miei radar? Del resto, cosa volevo cambiare alla mia età? D’un colpo mi sembrò tutto finito e mi vidi in una luce nuova, probabilmente la più vera, l’unica che mi illuminasse per quello che ero: un vecchio imbecille che per quasi due mesi aveva piantonato un bar non sapendo bene perché. Sentii un freddo tremendo. Perché la primavera tardava tanto ad arrivare? Mi allontanai dalla colonna prima del tempo e cominciai a vagare per la città e al termine di quella passeggiata durata non so quanto rientrai in casa deciso a dare un taglio netto a quella follia. Basta con gli appostamenti, basta pensare a Daria Stento, a Martirio, al suo libro che poteva essere un taccuino, alle congetture di Francesco Ponti. Da domani avrei ripreso a vivere la mia vita di sempre. Mi sarei svegliato, mi sarei preso cura della mia persona come usano fare gli esseri umani, dopodiché sarei uscito per prendere, come mia abitudine, un caffè macchiato al Gatsby, portando nella mia testa qualche pagina da leggere tra me, in modo da non spaventare gli altri avventori e venire invitato a lasciare il locale. Così feci e per rafforzare l’idea che quei quasi due mesi erano stati soltanto una assurda parentesi, prima di uscire mandai a memoria Uno scherzetto di Čechov. La mia vita normale sarebbe dunque ripresa esattamente da dove l’avevo lasciata, allo stesso tavolo, con la stessa lettura interrotta. Mi sentii bene una volta in strada, diretto al mio bar e, sebbene fosse una giornata tutt’altro che luminosa e invitante, mi sembrò di non avvertire più il freddo che mi era penetrato nelle ossa nelle ultime settimane. Entrai nel Gatsby in uno stato prossimo all’euforia e salutai i ragazzi dietro al banco con un calore assolutamente insolito per me e mentre chiedevo scherzando se il mio tavolo era libero, con loro che mi guardavano perplessi, mi infilai sparato nella saletta. Prima ancora di rendermi conto che il posto in cui sempre mi sedevo era occupato, e prima ancora di capire chi si era seduto al mio posto, udii nella testa una voce femminile che mi diceva «Ciao». Davanti a me, al mio tavolo, seduta dove mi sedevo sempre io, Daria Stento naturalmente. Dire che restai di sasso non sarebbe esatto. La sensazione che provai fu più simile allo stordimento che mi aveva preso uscendo dal Gatsby il giorno del nostro prece- dente incontro, dopo averle infradiciato di tè il maglione.

«Stavo leggendo ma siediti pure, non mi dai fastidio» disse sorridendo alla sua maniera. Rimasi in piedi, ça va sans dire.

«Questo tavolo lo considero un po’ una cosa mia ormai, un mio spazio privato, ma condividerlo per un giorno non è un problema, anzi. Con te, poi». Tuo, dissi io a mezza voce, in tono che non era né una constatazione né una domanda, passando anch’io al tu senza quasi rendermene conto. «Beh, non l’ho ancora comprato, ma visto che vengo qui tutti i giorni anche i ragazzi dicono che ormai è il mio tavolo». Tutti i giorni? Vieni qui tutti i giorni? «Alle dieci e mezza, sì. E mi trattengo un paio d’ore. Da quando ci siamo conosciuti avrò saltato due o tre giorni al massimo. Direi che sono diventata una habitué. Avrei giurato che lo fossi anche tu, ma invece no, a quanto pare». No. «Ci eri capitato per caso quindi?». Per caso, sì. «Capisco. Curioso però. Non sai quanto ci avrei scommesso. Mi ero fatta l’idea che tu fossi un abitudinario, uno dalla routine precisa, con i tuoi riti. Perché è un po’ l’idea che mi sono fatta dei lettori in genere. Che andate sempre nello stesso posto, che avete bisogno di una specie di tana per concentrarvi meglio e tenere bene a mente le pagine. Non so perché. In effetti, come sai, sono ancora una principiante e non è che ne conosca chissà quanti, a parte te». E l’ambasciatore, aggiunsi freddo. Lei sembrò cadere dalle nuvole. «Scusa?». La persona che ti ha parlato di Martirio Encantada, intendevo. Lei mi guardò increspando la fronte. Perché qual- cuno te ne avrà parlato di certo. Altrimenti come avresti potuto scoprirlo? «Ah sì, ma non è che me ne abbiano parlato». Mi sembrava di ricordare che qualcuno te ne avesse parlato, però. «Davvero ho detto così?». Annuii. «Mi sarò spiegata male. L’ho scoperto grazie a qualcuno, questo sì, ma senza che lui me ne parlasse e comunque non era certo un ambasciatore. Questo non posso averlo detto di sicuro. Non frequento gente così importante». Fece un breve pausa. Poi, con gli occhi fissi nei miei, sorridendo, aggiunse: «A parte te, ovvio». Indossava lo stesso maglione di quel giorno, soltanto adesso lo avevo notato. «Sì, è proprio lui» disse lei poggiando le mani sul petto, anche lo smalto sulle unghie era lo stesso.

«Mia madre l’ha salvato». Tua madre? «E chi sennò? Io non potrei mai. Non sono brava a trattare i vestiti. Avrei combinato un disastro peggiore. Non sono brava in un sacco di cose, a dire il vero. Ma perché non ti siedi? Non mi dai fastidio, te l’ho detto». Mi tolsi il giaccone e mi sedetti. «Sono contenta di vederti. Cominciavo a temere che non saresti più tornato». C’ero capitato per caso, te l’ho detto. «Già. E però ero convinta del contrario. Sai, per il nome del bar. Mi sembrava così letterario, così adatto a un lettore». Il romanzo non c’entra, dissi; si chiama così per il cappello. «Ah». Sembrava delusa. Guardai ancora il bianco del suo maglione. Le chiesi scusa per quel giorno, per il tè. Scosse la testa, socchiudendo gli occhi, come se quel ricordo la imbarazzasse. «È stata colpa mia, in realtà. Mi sono comportata da stupida. Non so cosa mi abbia preso. Neanche a me piace essere fotografata. Anzi, divento una furia se ci provano senza il mio consenso» disse con le labbra piegate da una smorfia che forse era un mezzo sorriso, gli occhi ancora abbassati. Le dita di una ma- no stringevano forte l’altra, chiusa a pugno. «Ma non pensiamoci più. Fortuna che ho una madre». Vivi con i tuoi? «Una specie». Capisco. «Diciamo di sì, va’». La guardai. «Ti eri fatto un’idea diversa, vero?». Non mi ero fatto nessuna idea.

«Sì, invece. E ti do ragione. Anch’io vorrei farmi un’idea diversa di me. Per questo voglio imparare a leggere. Come te, voglio dire. È difficile, lo so, ma ci riuscirò». È pericoloso, osservai. Un rischio inutile oltretutto. Perché non leggi in casa? Che differenza fa? «Ci sono i miei. Deve essere uno spazio tutto mio e poi non voglio starmene rintanata, chiusa tra quattro mura. Voglio il rischio». Si fermò un istante, come per pensare, e poi disse decisa: «No, fa differenza. Non è la stessa cosa leggere in casa». Lo pensai anch’io. Aveva ragione, non era la stessa cosa. «Che ti eri portato da leggere?». Feci per rispondere. «No, non dirmelo. Mi è venuta un’idea. Che ne dici se leggiamo insieme?». Insieme qui? Ma sei pazza?

«Insieme nel senso che adesso smettiamo di parlare, e io leggo quello che mi sono portata e tu pure». Non avevo mai fatto una cosa simile prima. Lei, intuendo i miei pensieri dalla faccia, mi toccò una mano. «Proviamo almeno. Che ti costa? Non è mica una foto» disse sorridendo. Sorrisi anch’io, dopo non so più quanto tempo. Passammo così la mattinata in un silenzio di tomba, uno di fronte all’altra, muti come certe coppie che si vedono in bar e ristoranti. Solo che noi, anziché guardare il proprio schermo, ci guardavamo negli occhi e leggevamo. Non so dove fosse Daria con la mente, ma mentre leggevo era con me, in un luminoso mezzogiorno d’inverno, con un gelo forte, la neve che scricchiolava. Mi dava il braccio come Nadéžda Petròvna. Ai nostri piedi, una levigata discesa di ghiaccio nella quale il sole si contemplava come in uno specchio. «Scivoliamo giù» supplicavo indicando la piccola slitta foderata con un panno scarlatto accanto a noi. Daria mi guardava incerta, ma alla fine cedeva e noi scivolavamo come un solo proiettile, con l’aria che ci pungeva il viso, e poco prima di arrivare al termine della corsa io, che cingevo la vita di Daria con un braccio, accostavo il mio viso al suo e le sussurravo qualcosa che si confondeva al fischio del vento nelle nostre orecchie. «Per nulla al mondo verrò un’altra volta! Per nulla al mondo!» mi diceva dopo che l’avevo aiutata a rialzarsi. «Per poco non sono morta!» diceva fissandomi negli occhi, cercando di capire se quel che le avevo detto era stato un inganno del vento o lo avevo detto davvero.


Epilogo (o forse un inizio).


Feci un sogno quella notte. Nel sogno, la Nadja_84 dell’annuncio mi scriveva per dirmi che un suo amico sarebbe passato per Roma la settimana prossima. Poteva affidare Il bianco e il nero di Martirio Encantada a lui, in modo che io lo potessi incontrare in un punto della città che risultasse comodo a entrambi e concludere la transazione. Mi trovavo così ad aspettare l’amico di Nadja ai tornelli della stazione di Vittorio Emanuele. Una sagoma scura senza volto mi passava un involto di carta marrone. Io pagavo, me ne andavo con l’involto in mano, premuto contro il petto. Facevo di corsa il sottopasso, salivo le scale e, giunto quasi in cima all’uscita che sbucava sul porticato della piazza, proprio davanti al Gatsby, mi fermavo per appoggiarmi al muro e scartare il pacco. Qui il sogno diventava un tumulto, perché mentre scoprivo che il libro era un taccuino dalle pagine immacolate, esattamente come immaginato da Francesco, sentivo una figura avventarsi su di me gridando qualcosa che non capivo. Nel voltarmi di scatto vedevo l’obiettivo di un telefono puntato contro di me e allontanavo il fotografo con una spinta. E qui vedevo il corpo di Daria scivolare supino a saltelli sulla scala come la slitta del racconto di Čechov. Sentivo il rumore della sua schiena battere sui gradini, un numero infinito di gradini, perché la scala era molto più lunga di com’è in realtà. Era un rumore strano, uno scricchiolio simile a quello di un paio di stivali che avanzano nella neve, e mentre io inseguivo il corpo di Daria, cercando di afferrarlo, di impedire che seguitasse a battere sui gradini, dal fondo nero del sottopasso arrivava l’urlo di un vento gelido che copriva quello che Daria lanciava a occhi sbarrati. Finché tutto finì. Il corpo di Daria era immobile adesso, disteso in maniera scomposta e orribile sul marmo sporco dei gradini, la testa poggiava invece ai piedi delle scale, sulla plastica nera che faceva da pavimento al sottopasso. Io capivo dagli occhi che lei voleva dirmi qualcosa, sicché accostavo l’orecchio alle sue labbra ma la voce era un soffio rauco e indistinguibile che a poco a poco si trasformava nello scricchiolio terribile di poco prima, solo che adesso lo scricchiolio era assordante al punto da svegliarmi in una pozza di sudore e paura. Rimasi seduto sul bordo del letto una buona mezzora, ripensando al sogno, al significato che poteva avere. Sul tappetino dove poggiavano i miei piedi, il telefono. Lo raccolsi, deciso a controllare se ci fosse un messaggio di Nadja_84. La vista dello schermo nero mi frenò e lo rimisi a terra. Andai in bagno, mi feci una doccia e mi vestii. A un tratto, proprio mentre ero sul punto di uscire, mi tornò in mente la frase di Martirio Encantada, quella che mi aveva citato Daria Stento nel giorno del nostro incontro e che cominciava così: «Nascere è una beffa». Ebbi una specie di illuminazione. Ero quasi sicuro che quella frase fosse di Macedonio Fernández. Avevo letto un suo libro parecchio tempo prima, La materia del nulla. Mi voltai verso le pareti della stanza foderate di volumi, con il pensiero di controllare. Ma anche stavolta qualcosa mi fermò. Tornai alla porta e uscii per andare al Gatsby. Non sapevo se vi avrei incontrato Daria, ma probabilmente sì, anche se il giorno prima ci eravamo salutati senza darci un appuntamento. Ancor meno sapevo se avremmo seguitato a leggere insieme e per quanto. Come non sapevo molte altre cose di quanto era accaduto in quelle settimane, quanto ci fosse stato di vero e quanto di immaginato in quel freddo inverno. E in effetti mi stava bene. Non volevo sapere niente se non quel che vedevo in strada quella mattina: che le nuvole si erano dissipate. Era una giornata di sole e l’inverno sarebbe finito.


Da:   Parole ostili 10 racconti a cura di Loredana Lipperini, Editori Laterza, 2018, pp. 5-31


TOMMASO PINCIO, pseudonimo di Marco Colapietro, è nato a Roma nel 1963. Ha esordito come fumettista, ha diretto per dieci anni una galleria d’arte e ha lavorato a New York come assistente di un famoso pittore. Ha pubblicato con minimun fax Lo spazio sfinito (2000, 2010), con Einaudi Un amore dell’altro mondo (2002, 2014), La ragazza che non era lei (2005), Cinacittà (2008) e Il dono di saper vivere (2018), con il Saggiatore Pulp Roma (2012), per Laterza ha pubblicato Hotel a zero stelle (2012), con L’orma editore la raccolta di saggi Scrissi d’arte (2015). Ha lavorato come traduttore, collabora regolarmente alla rivista Rolling Stone e alle pagine culturali de La Repubblica e ll Manifesto, occupandosi perlopiù di letteratura statunitense.


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