Pier Paolo Pasolini | Lettera a Sandro Penna

  [Roma, febbraio 1970] Caro Sandro, non è forse giusto ch'io dica a te cose che riguardano te, e che ti dipingono con tanto amore. Io h...

 



[Roma, febbraio 1970]


Caro Sandro,


non è forse giusto ch'io dica a te cose che riguardano te, e che ti dipingono con tanto amore. Io ho un culto di te. E, come tutti i culti, mi dà il rimorso di non essere così forte e fedele da praticarlo degnamente. Ciò lo dico come se ambedue fossimo morti, e la vita non ci toccasse dunque più con la sua miseria, che giorno per giorno, ora per ora, contraddice ciò che tu sei e ciò che io penso tu sia. È la vita nella sua totalità, come se noi l'avessimo del tutto adempiuta (e di fatto è quasi così) che ora io guardo. In questa vita tu ti sei tenuto in disparte, a contemplarla, come un animale buono, che qualche volta deve pur nutrirsi, e allora è costretto a predare, non potendo vivere di pura contemplazione, di «gioia e dolore di esserci». Avrai dunque compiuto anche tu i tuoi peccati, e anche la tua coscienza avrà laboriosamente lottato per giustificarsene. E ciò ti avrà reso patetico come il personaggio di una grande opera, che quasi non canta. Questa tenerezza della miseria umana ti circonda come un'aureola terrestre intorno a un capo celeste. Non dico che queste parole ti rappresentino del tutto fedelmente, e che possano prestarsi a qualche equivoco, per un estraneo che legga questa nostra lettera intima: sì, infatti oltre che miseramente patetico, sei anche un po’ buffo. E ciò contraddice alla tua immagine santa che sto delineando. Contraddice, intendo, nei termini usuali con cui si discorre: in realtà tutti i santi sono patetici e buffi. In cosa consiste la tua santità? Nel silenzio con cui hai rinunciato alla vita e al suo godimento così come è inteso nella nostra parte di storia in cui siamo apparsi su questa terra. Ripeto, hai cercato il tuo godimento altrove, in cose considerate da tutti futili, remote, incomprensibili, infantili e sconvenienti. Anche tu sei stato, ripeto, un po’ predone di quella realtà che forse dovrebbe essere unicamente contemplata. Ma è proprio da questi tuoi momenti di peccato in cui sei venuto meno alla regola della rinuncia e della umile, silenziosa, monastica protesta contro il mondo, così sublime e così inaccogliente che tu hai trovato le aspirazioni per la tua poesia. Essa consiste nell'osservazine lieta a priva di ogni speranza delle cose (per te pochissime, anzi forse una sola) che si possono cogliere nel mondo per sopravviverci; ma questa osservazione è compiuta nel silenzio del luego dove non si vive piú ma, appunto, si contempla soltanto. La tua esclusione di te stesso da un mondo che del resto ti escludeva è stata una lunga ascesi, fatta di notti e di giorni, in cui si ride e si piange, come ingenui personaggi di opere romantiche senza né principio né fine, con le loro crocci e le loro delizie: una lunga ascesi in cui, anziché pregare, hai cantato le forme del mondo lontano.  Che ciò abbia fatto di te —oltre che un santo anrechico e un precursore di ogni contestazione passiva e assoluta  forse il più grande e il piú lieto poeta italiano vivente— è un discorso che si svolge su un piano molto più basso di quello di questa lettera incerta e incompleta, che riguarda più la tua poesia vissuta che la tua poesia scritta. È la prima infatti a contare, per chi, appunto perché educato e come tolto a se stesso da un lungo amore per la poesia, riesce a intravedere ciò che vale al di fuori di ogni valore: la santità del nulla.


Tuo,

Pier Paolo.


Da: Pier Paolo Pasolini Lettere 1955-1975 con una cronologia della vita e delle opere. A cura di Nico Naldini, (Einaudi, 1988), pp. 664-665

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