Giovanni Bàrberi Squarotti* | Le Odi di Orazio nella traduzione di Cesare Pavese

  1. La versione delle Odi di Orazio costituisce il documento più rilevante e in sé compiuto della prima fase dell’attività di Pavese come...

 



1. La versione delle Odi di Orazio costituisce il documento più rilevante e in sé compiuto della prima fase dell’attività di Pavese come traduttore dei classici – una fase precoce, che si colloca nell’ultimo anno del liceo fra la primavera e la tarda estate del 1926 – e condivide il destino delle traduzioni successive dal greco di essere stata scritta per restare nel cassetto (e dal cassetto è passata nell’Archivio Pavese, in quattro fascicoli segnati AGP.AP.X.20, AGP.AP.X.21, AGP.AP.X.22, AGP.AP.X.23, fino all’uscita nel 2013 dell’edizione da me curata)1. Questo aspetto, e cioè il carattere privato e l’apparente disinteresse dell’autore per la loro pubblicazione, ha sicuramente generato un pregiudizio verso questi lavori e ha portato a classificarli come tirocinio poetico e come esercitazioni poco più che scolastiche propedeutiche all’acquisizione di una base stilistica o di una cultura letteraria tangenziale al nucleo del classicismo pavesiano, identificato convenzionalmente con lo studio del mito sul versante teorico ed etnologico piuttosto che filologico. In sostanza, sono stati considerati in relazione e in subordine all’opera creativa dello scrittore e al suo percorso estetico, ma poco o nulla è stata valutata in sé la qualità della traduzione. Solo di recente, e per le traduzioni della Teogonia di Esiodo, degli inni omerici e del libro XI dell’Odissea realizzate a cavallo fra i Dialoghi con Leucò e l’edizione einaudiana dell’Iliade supervisionata da Pavese, non già per quelle sparse e antologiche risalenti agli anni del confino (1935­36), è stata avanzata l’ipotesi che Pavese «avesse intenzione di dare alle stampe queste opere dopo averle accuratamente rivedute e corrette»2. E solo in questa prospettiva, suffragata dall’evidente corrispondenza con i criteri di «traduzione oggettiva, filologica – interlineare se fosse possibile –» enunciati nella prefazione al volume dell’Iliade insieme con l’esigenza di restituire «un Omero nuovo, cioè il più vicino possibile (salvo i diritti della lettura) all’antico – l’autentico»3, si è iniziato a riconoscere al ciclo di traduzioni del 1947­49 un valore autonomo e originale: in altre parole, a considerarle traduzioni d’autore.

Ma dell’Orazio tradotto negli anni giovanili si può dire lo stesso? A pesare in particolare sulla versione delle Odi è senza dubbio la precocità; e con la precocità (concetto in verità aleatorio, se si pensa che Leopardi fu ancora più precoce e tradusse ventinove odi del primo libro e quindici del secondo all’età di undici anni), il carattere in fondo marginale rispetto agli sviluppi successivi dell’interesse di Pavese per l’antico della scelta di un poeta come Orazio e di un’opera come le Odi, cioè di un poeta e di un’opera che nel Settecento e lungo tutto l’Ottocento, e ancora a ridosso della versione pavesiana, erano stati banco di prova altamente inflazionato per traduttori e versificatori più o meno dotati e versatili4. Tradurre Orazio sembra insomma appartenere a un retaggio canonico e convenzionale che supera di poco i confini della dimensione scolastica. Tradurre i greci, al contrario, risponde all’esigenza di risalire direttamente alle fonti dei concetti e delle notizie che Pavese veniva accumulando attraverso le letture di Frazer, di Kerényi, di Max Müller, della Philippson, di Nietzsche, di Untersteiner. Il che spiega bene la lunga rimozione delle Odi dall’orizzonte della critica pavesiana.

Del resto, è lo stesso Pavese a riconoscere la specifica funzione propedeutica al proprio apprendistato poetico dell’esercizio di traduzione. Particolarmente significativo è un appunto dell’aprile 1926 – dunque perfettamente coevo al lavoro sulle Odi – conservato fra le carte giovanili:

Perché temo tanto la penna e il tavolino? Eppure, e me lo debbo ficcar bene in testa, se voglio riuscire grande, debbo durare a comporre di mio e tradur­ re per almeno sei ore al giorno. Il resto della giornata passarlo studiando o sui libri stampati o nella vita. E, se dopo sei o sette anni non avrò ancora con­ cluso nulla, non l’avrò ancora il diritto di serrarmi torvo nella delusione. Dovrò semplicemente raddopiare [sic] le ore di lavoro. E se neppure dopo altri sei anni di questo nuovo regime avrò concluso nulla non l’avrò ancora quel tal diritto; dovrò quadruplicare le ore di lavoro e finalmente confessarmi d’aver sbagliato mestiere. Insomma, quel diritto che pure tanto mi lusinga la fantasia non l’avrò mai. Mai! Potrò farlo di frodo alla mia ragione il torvo disilluso, ma con piena coscienza mai.5

Che Orazio, e di conserva la classicità latina, abbiano esercitato un’in­ fluenza primaria sulla formazione del giovane Pavese appare evidente, e ciò probabilmente restituisce un’immagine di radicamento nella tradizione dei classici diverso, maggiore e di più antica data rispetto a quanto ci siamo abituati a pensare. Ma non è questo ora il punto. Si tratta invece di valutare in assoluto l’autonomia e la tenuta della traduzione. La quale – ed è la prima osservazione che possiamo fare al riguardo – per certi aspetti si distingue nettamente dalle successive dal greco, per altri viceversa ne anticipa gli orientamenti e gli esiti più caratteristici.

Consideriamo innanzi tutto un elemento macroscopico com’è la scelta della traduzione integrale. Ebbene, si tratta di una caso pressoché unico nel repertorio delle versioni dai classici. Quando più avanti affronterà i greci, Pavese, fatta eccezione per la Teogonia, non sarà mai altrettanto sistematico e procederà tendenzialmente per sondaggi sparsi e frammentari. Rispetto a queste traduzioni, inoltre, quella delle Odi è del tutto esente da un atteggiamento sourcier: non vi troviamo né la ricerca di una letteralità totalizzante né la tensione verso un’idea del valore autentico del testo antico attraverso la trasposizione delle strutture linguistiche dell’originale nella lingua d’arrivo6. E tuttavia il metodo appare già indirizzato verso i princìpi che risultano alla base delle versioni degli autori greci e che saranno dichiarati esplicitamente nella prefazione all’Iliade – «A noi gli svolazzi, gli adattamenti, i travestimenti in un determinato costume e linguaggio poetico, riescono oggi intollerabili»7 –: cioè verso il rinnovamento e lo svecchiamento delle forme convenzionali della traduzione contro un’ancora imperante strumentazione neoclassica.

Il segno più tangibile di questo orientamento è costituito dal ricorso alla prosa. La tradizione con cui si confrontava Pavese nel 1926 era univoca: chi traduceva le Odi lo faceva, per prassi ampiamente sedimentata, in versi, e spesso in versi e in rima, fossero canonici metri italiani applicati arbitrariamente ai Carmina (come le strofette metastasiane usate da Leopardi nel volgarizzamento del 1809 o come gli endecasillabi, settenari od ottonari organizzati in strofe, in sequenze a rima baciata per gli asclepiadei minori, in terza rima ecc., di cui si era servito Tommaso Gargallo senza la minima preoccupazione di rispondenza metrica con l’originale), oppure esperimenti di versificazione “barbara” elaborati nel tentativo di riprodurre fedelmente gli schemi oraziani (come nella versione integrale di Mario Rapisardi pubblicata nel 1897 o come in quella del primo libro curata da Pantaleo Coli nel 1925, passando naturalmente per i raffinati saggi pascoliani raccolti in Traduzioni e riduzioni di cui Vittorio Citti ha fornito recentemente l’edizione critica: cfr. Citti 2010). Per una traduzione in prosa delle Odi – non una traduzione interlineare di uso scolastico o di puro servizio ma una traduzione rivolta a un pubblico di lettori moderni ritenuti generalmente sensibili alla poesia e al pensiero oraziani e non necessariamente cultori della strofa ben tornita – bisogna attendere quella di Ettore Romagnoli del 1933 per la «Collezione Romana» (cui seguì di lì a poco, a partire dal 1935 e con numerose ristampe, quella di Giuseppe Lipparini). Pavese precorre i tempi. E il suo lavoro risalta ancora di più nel panorama circostante, se si considera che per tutta la prima metà del Novecento Orazio continua a essere tradotto prevalentemente in versi. Così per esempio fa il poeta e italianista Francesco Pastonchi nel 1939 con il primo libro delle Odi, in metri barbari; e così, nello stesso anno ma in rima, Guido Vitali. Quando poi le versioni metriche saranno abbandonate, la situazione non cambia di molto e per lo più i versi tradizionali vengono sostituiti dal verso libero, così che sempre di traduzioni poetiche si tratta. Perché in fondo la concezione dominante resta quella sintetizzata da Pastonchi nell’introduzione al suo volume: che la prosa è inadeguata e un testo lirico deve essere reso comunque in una veste lirica, ricorrendo dunque – e magari vendendoli come forma di fedeltà al modello – a quegli strumenti che nel 1950 Pavese chiamerà svolazzi, adattamenti e travestimenti in un determinato costume e linguaggio poetico:

Eppure dare in prosa un poeta, un lirico, è un dissolverlo, un riferir notizia e molto approssimativa del suo contenuto, e pur esso travolto, morto. La qual cosa naturalmente accade traducendo, anche coi mezzi similari, in versi che non riescano se non prosa misurata a sillabe: come s’è visto accadere a tanta brava gente. Bisogna ridar poesia. E allora, messo a tanta impossibilità, non ti resterebbe che un modo: ridarla con la tua anima, cioè rimettere in te quel contenuto, e risentirlo e riesprimerlo, tuo, in libertà, senza più stretture di raffronti e obblighi di parità metrica: un lavoro che gli antichi dissero più giustamente “imitazioni”8.


2. Abbiamo parlato, in rapporto all’evoluzione dell’atteggiamento di Pavese come traduttore dei classici, di elementi di continuità e di discontinuità fra il momento giovanile documentato dalle Odi di Orazio e le fasi successive. Ora, proprio l’uso della prosa può apparire in contrasto con il criterio di resa verso per verso adottato più tardi per le traduzioni omeriche ed esiodee. Ma è un contrasto che non tocca nodi essenziali, e piuttosto bisognerà riflettere sulle conclusioni che il discorso fatto finora permette di avanzare: in primo luogo, che Pavese, come gli è tipico, tende comunque a collocarsi agli antipodi delle poetiche istituzionali; quindi, che il nucleo della prassi e della teoria della traduzione a cui egli arriva alla fine degli anni Quaranta non dipende esclusivamente dalle esperienze accumulate con gli autori della letteratura anglo­americana, ma è già in parte maturato all’altezza della versione delle Odi, almeno per quel che riguarda l’esigenza di rinnovamento del metodo e l’attenzione per la fruizione da parte del lettore moderno – per quanto solo virtuale – di un testo riportato alla sua essenza e libero da incrostazioni retoriche e letterarie che di fatto gli sono estranee e appartengono alla cultura del traduttore. Per i greci l’autenticità s’identifica con la corrispondenza linguistica e sintattica, forse anche per la suggestione archetipica che essi rivestono e per la difficoltà che i testi comportano per il loro scopritore autodidatta; per Orazio sono centrali la chiarezza del messaggio e lo spirito dell’opera. Il ricorso alla prosa riesce da una parte a liberare l’esercizio sul poeta latino dalle sovrastrutture auliche e spesso stranianti di un classicismo ormai superato, dall’altra a guadagnare ampia autonomia di manovra in funzione di una resa fedele e al tempo stesso moderna e originale.

È evidente, per queste ragioni come per la completezza e la sistematicità, che la traduzione delle Odi si solleva al di sopra del livello della semplice esercitazione scolastica; ma ciò non toglie che resti un lavoro a cui non è stata data la mano definitiva, che contiene malintesi, approssimazioni, equivoci e talora brevi lacune. Ovviamente non è questa la misura per valutare l’opera9, tanto più che equivoci e malintesi occasionali non significano ingenuità o sprovvedutezza, né tolgono alcunché alla coerenza complessiva d’impostazione e di stile. E questa coerenza d’impostazione e di metodo si manifesta anzitutto nel modo di procedere. Pavese infatti porta avanti il suo lavoro senza appoggiarsi nemmeno saltuariamente a una traduzione anteriore o a un commento (eccezion fatta per le note d’apparato dell’edizione di cui si serve, la teubneriana di Friedrich Vollmer)10. Certi equivoci, in particolare certi errori nella grafia dei nomi propri e dei toponimi11, se a un commento o a una traduzione fosse stata data anche solo una scorsa, sarebbero stati facilmente evitati. Non sappiamo quale caso o quale particolare affinità abbia spinto Pavese proprio verso Orazio, e potremmo almanaccare infinite congetture tutte tanto suggestive quanto inutili. Di sicuro però deve essere avvenuto in lui qualcosa di simile a ciò che scriveva Herder:

Bei keinem Dichter des Alterthums indess wünscht man sich, wenn man ihn einmal durch einen guten Kommentar oder Lehrer verstehen gelernt, allen Kommentar so gern weg, als bei Horaz. Ohne alle Dilogien Baxters, ohn’ alle Zwischen­ und Einreden seiner Bewunderer und Freunde will man den guten Gesellen, den verständigen, klugen, sittsamen, kunst­ und lehrreichen Liebling der Grazie allein geniessen und gleichsam mit ihm wohnen12.

[Con nessun altro poeta antico, dopo averlo studiato e capito con l’aiuto di un buon commento e di un buon insegnante, viene voglia di sbarazzarsi d’ogni tipo di commento come con Orazio. Senza tutte le dilogie del Baxter, senza tutti i rilievi e le obiezioni dei suoi ammiratori e amici, ci si vuol godere da soli il buon compagno, il comprensivo, intelligente, morigerato favorito delle Grazie, ricco d’arte e di dottrina, e vivere sotto il medesimo tetto.]

Pavese – abbiamo detto – fa tabula rasa dei commenti e dei traduttori. E traduce di getto e per così dire d’istinto. Non che manchino le tracce di una revisione; anzi, le pagine dell’autografo sono fittamente segnate da correzioni, cancellature, inserimenti interlineari, inversioni di parole o di porzioni di testo. Ma è una revisione che avviene seduta stante, passo dopo passo, o meglio ode per ode e in ogni caso prima di affrontare la successiva. Lo dimostrano in particolare i numerosi punti del manoscritto nei quali, dopo la cancellatura di parti anche estese del testo, la redazione sostitutiva è inserita di seguito, senza ripercussioni nell’impaginazione13.

Il sistema delle correzioni, con la fenomenologia redazionale che documenta, resta comunque di fondamentale interesse. La sua analisi mette in rilievo alcune linee di tendenza dalle quali è possibile ricavare una prima idea dello stile della traduzione e del complessivo assetto formale che Pavese intende conferire. Una tipologia quantitativamente rilevante di interventi riguarda l’inversione dell’ordine dei nessi sostantivo­aggettivo: ebbene, l’orientamento prevalente è a passare dalla soluzione più neutra con l’aggettivo posposto a quella stilisticamente più enfatica aggettivo­ sostantivo. C’è poi una serie di passi in cui la revisione appare determinata chiaramente dall’intenzione di sostituire una prima resa estremamente letterale con una seconda vuoi più libera ed evocativa vuoi più mossa ed espressiva:

• carm. 1.14.17­20 (nel ms. alla carta AGP.AP.X.20, 6v) Nuper sollicitum quae mihi taedium, / nunc desiderium curaque non levis, / interfusa nitentis / vites aequora Cycladas: Pavese inizia traducendo il v. 17 «O tu, che poco fa, non molto, mi fosti di fastidio travagliato»; quindi cancella poco fa, trasforma non molto in non fa molto, cancella travagliato e inserisce angustioso nell’interlinea prima di fastidio, arrivando a: «O tu, che, non fa molto, mi fosti angustioso fastidio». Ancora più complesso il sistema di interventi che dànno l’assetto finale alla versione dei vv. 19­20: a partire da «le acque mareggianti frammezzo le Cicladi belle», al aggiunto nell’interlinea a le, inversione di Cicladi e belle, belle cassato e corretto in serene di seguito nella riga, scorrenti nell’interlinea sopra mareggianti non cassato; il fatto che mareggianti non sia cancellato fa pensare che Pavese non fosse arrivato a una scelta definitiva fra le due soluzioni: quella (acque scorrenti frammezzo) più fedele alla lettera del testo oraziano (interfusa aequora) e quella (mareggianti) più aulica e d’impronta poetica (per cui cfr. Dante, Purgatorio XXVIII 74 «per mareggiare intra Sesto e Abido»; Carducci, Levia gravia, Per la rivoluzione di Grecia 12­15 «Deh come lieto tra il Sunio e l’isole / care ad Omero care ad Apolline / l’azzurro Egeo mareggia» e Rime e ritmi, Alla città di Ferrara 42­43 «e candide / tendea al mareggiante Erìdano le braccia»).

• carm. 1.28.32 (AGP.AP.21, 1r) vicesque superbae: da «severo taglione» a «taglione di sprezzo», con evidente forzatura dell’interpretazione, quasi si trattasse di vices superbiae, cioè ‘contrappasso per il disprezzo che mi hai riservato’ (mentre l’espressione equivale più semplicemente a ‘duro, fiero contraccambio’, come nella prima redazione).

• carm. 1.31.20 (AGP.AP.X.21, 1v) nec cithara carentem: da «non priva della cetra» a «non deserta di cetra».

• carm. 2.1.17 (AGP.AP.X.21, 5v) murmure: Pavese lascia aperta l’alternativa fra la soluzione convenzionale (rombo) e quella più ricercata ed espressiva (muggito, scritto nell’interlinea sopra rombo, non cassato); muggito, per indicare un rombo protratto, originato in particolare da strumenti o congegni sonori, ricorre diffusamente nell’opera pavesiana14.

•carm. 2.2.5 (AGP.AP.X.21, 6r) Vivet extento Proculeius aevo: Pavese dapprima traduce alla lettera «vivrà per un tempo molto esteso», quindi cancella sia tempo sia esteso e inserisce nell’interlinea tempo ancora, arrivando a per molto tempo ancora, che in ultimo, e a ragione, corregge cassando ancora.

• carm. 2.15.10­12 (AGP.AP.X.21, 11v) Non ita Romuli / praescriptum et intonsi Catonis / auspiciis veterumque norma: da «Non queste furon le prescrizioni sotto Romolo e sotto Catone, incurante dell’eleganza, né tale fu la norma degli antichi» a «Non tali furono la norma degli antichi e le prescrizioni sotto Romolo e sotto l’incolto Catone».

• carm. 2.16.13­14 (AGP.AP.X.21, 12r) Vivitur parvo bene cui paternum / splendet in mensa tenui salinum: da «Vive con un po’ di bene» a «Vive discretamente con poco» e da «scarsa mensa» (per mensa tenui) a «parca mensa», con trasparente citazione leopardiana.

• carm. 3.6.7­8 (AGP.AP.X.22, 5v) di multa neglecti dederunt / […] mala: da «gli Dei, sentendosi negletti, mandarono molte sciagure» a «molte sciagure mandarono gli Dei, sentendosi negletti».

• carm. 3.17.14­15 (AGP.AP.X.22, 11r­11v) genium […] curabis: da «ossequierai il genio» a «santificherai la giornata», con sovrimpressione di una sfumatura biblico­liturgica che conserva nella traduzione l’implicazione sacrale del nesso latino (genium curare, in senso stretto ‘prendersi cura del proprio demone protettore’, nell’ode ha il significato di ‘rasserenare lo spirito, darsi alla gioia’).


Questi esempi dimostrano che Pavese è perfettamente consapevole che il testo originale ha prerogative stilistiche che lo identificano e che la traduzione deve mettere in opera i procedimenti adeguati affinché tale impronta sia evocata nel testo d’arrivo mediante le risorse e gli strumenti stilistici che la lingua e la tradizione retorico­letteraria di quella lingua consentono, ma in una forma che sia di puro servizio al modello e non alienazione della sua autenticità. Il problema fondamentale è trovare un equilibrio fra due poli: la risonanza e la levatura tecnica e culturale dell’architettura lirica da una parte, l’ironia oraziana e la mediocritas epicurea dall’altra.

Sul primo versante viene messa a frutto una serie di risorse che rispondono in primo luogo alla ricerca di effetti anticheggianti e hanno la funzione di conferire al testo una patina per così dire archeologica: si tratta delle non rare occorrenze di calchi diretti di parole latine15 e dell’uso di grafie conservative e latineggianti (tipico, per esempio, in Pascoli: dai Poemi conviviali alle traduzioni alle prose critiche) per i nomi propri e i nomi geografici (Vergilio, Cipri, Treicio per Tracio, Capitolio per Campidoglio, Tiburno per Tivoli)16. E sono da ricondurre allo stesso àmbito le occasionali traduzioni etimologiche17 accanto a quelle finemente interpretative18, dirette le une e le altre a enfatizzare nella resa italiana potenzialità espressive ed evocative intuite o avvertite come implicite nel latino. Ma l’impronta più netta nel senso della levatura letteraria e della patina colta e aulica è conferita alla traduzione dall’intertestualità, in particolare dal ricorso a epiteti, formule o espressioni illustri e ricercate19 (adunatore di nembi, schifo nel senso di ‘imbarcazione’, ira funesta, menare vampo, parare riferito a Ermes Psicopompo in carm. 1.10.18, scherzevoli detto di edere che in Orazio sono lascivae), tendenzialmente in studiato conflitto con il tenore prosastico della versione, e dalla libertà che Pavese si riserva nel contaminare il testo con riecheggiamenti e citazioni che coprono l’arco più ampio ed eterogeneo della tradizione letteraria: da «Dirò d’Alcide» in 1.12.25 = Barberi Squarotti 2013 21 per Dicam et Alciden, che richiama l’ariostesco «Dirò d’Orlando» (Orlando furioso I 2, 1), alla già citata «parca mensa» di 2.16.14, cui fa eco l’altrettanto leopardiano «zappatore» (per fossor) di 3.18.15 = Barberi Squarotti 2013 139, passando per altre sintomatiche allusioni, come le «lacrime furtive» di 1.13.6­7 = Barberi Squarotti 2013 25, che condensano umor et in genas / furtim labitur strizzando l’occhio a Donizetti e alla furtiva lagrima dell’Elisir d’amore; o come il calco delle anafore del sonetto 145 del Canzoniere di Petrarca («Ponmi ove ’l sole occide i fiori et l’erba, / o dove vince lui il ghiaccio et la neve; / ponmi ov’è ’l carro suo temprato et leve, /

[…] ponmi in humil fortuna, od in superba, / […] ponmi con fama oscura, o con illustre: / sarò qual fui, vivrò com’io son visso, / continuando il mio sospir trilustre») – calco quanto mai calzante dal momento che l’intero sonetto è una variazione del luogo oraziano – nella versione di 1.22.17­24 = Bàrberi Squarotti 2013 37 (Pone me pigris ubi nulla campis / arbor aestiva recreatur aura, / […] pone sub curru nimium propinqui / solis in terra domi-bus negata: / dulce ridentem Lalagen amabo, / dulce loquentem > «Ponmi pure in quei campi inoperosi dove nessun albero si rianima a una brezza estiva, […]; ponmi in quelle terre inabitabili perché troppo vicine al carro del Sole: io amerò Lalage dal dolce riso e dalla dolce parola»); come la biblica «potenza del suo braccio» evocata dal Magnificat nella traduzione del Carme secolare (v. 53, cfr. Bàrberi Squarotti 2013 61) per consacrare la potenza di Roma; o ancora come la geniale trasformazione in un «trionfo sui tiranni» del trionfo sui Giganti (giganteo triumpho) di Giove in 3.1.7 (= Bàrberi Squarotti 2013 101), che con un tratto di penna, in tempi di funeste nostalgie romane e celebrazioni augustee, sottrae Orazio alle strumentalizzazioni della propaganda e cancella le riserve secolari sul suo troppo acquiescente collateralismo al potere e all’ideologia del principato.

È tuttavia sul secondo versante che la traduzione ottiene i risultati più interessanti e maturano effettivamente l’attualizzazione e lo svecchiamento di Orazio in senso anticlassicistico. Il mezzo usato è principalmente quello dell’accentuazione dell’evidenza realistica e dell’incremento della coloritura espressiva attraverso l’introduzione di modi idiomatici e forme colloquiali, dimesse o gergali, ed è singolare che buona parte di queste risorse corrispondano a quelle che più tardi metterà in opera Romagnoli nella sua versione (applicandole peraltro soprattutto all’Orazio satirico)20. Il gioco è facile – e gli effetti particolarmente icastici – quando il discorso tende allo scherzo o prende la forma del parlato e oggetto sono situazioni anche banalmente quotidiane. Si pensi alla censuratissima ode a Lidia invecchiata (1.25), la quale senza eufemismi, con un’interpretazione di levis anus (vv. 9­10) tanto esplicita quanto illuminante21, è dipinta per quello che è diventata, una prostituta da angiporti:



Parcius iunctas quatiunt fenestras
iactibus crebris iuvenes protervi
nec tibi somnos adimunt amatque
ianua limen

quae prius multum facilis movebat
cardines. Audis minus et minus iam:
«Me tuo longas pereunte noctes,
Lydia, dormis?»

Invicem moechos anus arrogantis
flebis in solo levis angiportu
Thracio bacchante magis sub inter­
lunia vento,

cum tibi flagrans amor et libido,
quae solet matres furiare equorum,
saeviet circa iecur ulcerosum
non sine questu,

laeta quod pubes hedera virenti
gaudeat pulla magis atque myrto,
aridas frondes hiemis sodali
dedicet Euro.


Più di rado i giovanotti audaci vengono a batterti di molti colpi le finestre serrate: essi non ti rompono più i sonni e la porta che prima si muoveva di continuo sui cardini agevoli ora s’è innamorata della soglia. Odi sempre <più> di rado ormai dirti: «Lidia, le lunghe notti, mentr’io muoio per te, dormi tu?»

Verrà il tempo che, vecchia da pochi soldi, rimpiangerai i tuoi protervi amanti in un angiporto solitario più rumoroso del vento Tracio durante l’interlunio. Allora l’amore ardente e la libidine, che suole infuriare le cavalle, t’infierirà intorno al fegato piagato. E ancora, ti lamenterai che i giovani lieti godano del mirto e dell’edera pallida più che della scura, e che donino all’Euro, compagno dell’inverno, le foglie disseccate22.

O si prenda l’esempio fornito dall’ode d’esecrazione contro la moglie di Ibico (3.15), in particolare per l’apertura e la chiusa e per l’immagine della capra selvatica nella resa della similitudine del v. 12, che costituisce un intervento originale di Pavese – un intervento che potremmo benissimo ascrivere al Pavese più maturo – ed esprime la pulsione naturale dell’eros molto più densamente della convenzionale capretta che incontriamo altrove23:


Uxor pauperis Ibyci,
tandem nequitiae fige modum tuae
famosisque laboribus;
maturo propior desine funeri

inter ludere virgines
et stellis nebulam spargere candidis.
Non, siquid Pholoen, satis
et te, Chlori, decet: filia rectius

expugnat iuvenum domos,
pulso Thyias uti concita tympano.
Illam cogit amor Nothi
lascivae similem ludere capreae,

te lanae prope nobilem
tonsae Luceriam, non citharae decent
nec flos purpureus rosae
nec poti, vetulam, faece tenus cadi.


O moglie di quel povero Ibico, piantala lì una buona volta colla tua dissolutezza e colle tue opere infami; finiscila, tu, che ormai sei vicina anzichenò a decrepita morte, di pazzeggiare tra le giovani e di cospargere le nubi di stelle lucenti.

Se lo è ancora a Foloe, a te non è più lecito, mia Clori: una figliuola è più nel retto di te, quando vince le dimore dei giovani, simile a Tiade eccitata dal battito del timpano. Colei è spinta dal suo amore per Noto a scherzare come una lasciva capra selvatica: a te s’affanno le lane tosate presso la famosa Luceria, e non le cetre, non il fiore vermiglio della rosa, non il bere, o vecchiaccia, fin’alla feccia della coppa24.

Ma in casi come questi per l’appunto il gioco è facile. Ce ne sono altri in cui la ricerca di espressività non ha nulla a che fare con la caricatura, con il comico o con il giambo e riproduce sfumature d’intonazione e chiaroscuri potenzialmente parodici. Nell’ode a Virgilio, invitato a bere del buon vino di Cales, la dodicesima del libro IV, accanto a scelte lessicali di maggiore dignità («cricchian», «vasello», «novelle speranze») riservate alla prima parte paesaggistica e descrittiva, Pavese inventa formule del tipo «se desideri proprio di ber del vino di quel torchiato a Cale» o «io non intendo di innaffiarti col vino a gratis, come la mia fosse la casa d’un riccone», che assimilano la traduzione al tono scherzoso e colloquiale dell’originale con una ricchezza che né la pura fedeltà letterale né il paludamento lirico avrebbero mai consentito:


Iam veris comites, quae mare temperant,
inpellunt animae lintea Thraciae,
iam nec prata rigent, nec fluvii strepunt
hiberna nive turgidi.
[…]
Adduxere sitim tempora, Vergili:
sed pressum Calibus ducere Liberum
si gestis, iuvenum nobilium cliens,
nardo vina merebere.

Nardi parvus onyx eliciet cadum,
qui nunc Sulpiciis adcubat horreis,
spes donare novas largus amaraque
curarum eluere efficax.

Ad quae si properas gaudia, cum tua
velox merce veni: non ego te meis
inmunem meditor tinguere poculis,
plena dives ut in domo.

Verum pone moras et studium lucri
nigrorumque memor, dum licet, ignium
misce stultitiam consiliis brevem:
dulce est desipere in loco.


Già i venti di Tracia compagni della primavera, e mitigatori del mare, spingono innanzi le vele, già il gelo è sparito dai prati e i fiumi non cricchian più colmi di neve invernale. […] La stagione porta la sete, o Vergilio, ma se desideri proprio di ber del vino di quel torchiato a Cale, tu che frequenti i giovani più nobili, devi pagarlo con del nardo. Un piccolo vasello di nardo farà saltar fuori il fiasco che ora sta nei magazzini di Sulpizio, generoso a infondere novelle speranze e efficace a lavare ogni amarezza. Ché se ti affretti a questi piaceri, corri veloce colla tua merce: io non intendo di innaffiarti col vino a gratis, come la mia fosse la casa d’un riccone. Ma però tronca ogni indugio e lascia lì di cercar guadagni e ricordandoti, fin che sei ancora in tempo, delle fosche fiamme, mescola un po’ di pazzia ai ragionamenti: è dolce a tempo e luogo25.

E quando il tema è la riflessione esistenziale, come nella celebre ode a Leuconoe (1.11) l’understatement stilistico la cala in una realtà quotidiana che chiunque può sperimentare, non leggendo i poeti o i traduttori laureati (almeno non quelli degli anni intorno alle versione pavesiana), ma ascoltando un amico un po’ disincantato che la sa lunga sulla vita:

Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios tentaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati. Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam, quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare Tyrrhenum: sapias, vina liques et spatio brevi spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida aetas: carpe diem quam minimum credula postero.

O Leuconoe, tu non ti darai d’attorno per sapere, ciò che non è lecito, qual fine gli dei abbiano destinato a te, a me; e neppure almanaccherai calcoli Babilonesi. Come è meglio, invece, prendersela in santa pace, qualunque cosa avvenga, o che Giove ci conceda ancora molti inverni o che sia l’ultimo questo che spinge ora il mar Tirreno a infrangersi sulle scogliere tutte ròse.

Fa’ senno, mesciti vino e, poiché la vita è breve, tarpa le ali a ogni lunga speranza. Anche mentre stiam qui a parlare, sarà fuggito il tempo avaro: goditi l’istante e non creder per nulla al futuro26.

Non andar cercando, ché non è lecito saperlo, quale fine, o Leuconoe, abbiano prestabilito i Numi per me e per te, e non consultare le cabale di Babilonia. Quanto meglio, checché ci debba capitare, sopportarlo in pace, sia che Giove ci conceda ancora molti inverni, sia che per noi l’ultimo sia questo che spinge il mare Tirreno ad infrangersi contro le scogliere. Fa’ senno, mesci vino, e se la speranza ti riesce troppo lunga, tagliane un tratto, ché la vita è breve. Noi cianciamo, e il tempo invido fugge: approfitta dell’oggi, e del dimani fidati meno che puoi27.

Non star a cercare, proprio tu, o Leucònoe (non è lecito saperlo), qual fine a me, qual fine a te abbian dato gli dèi; e non consultare le cabale babilonesi! Quanto è meglio, checché debba accadere, rassegnarsi! Sia che Giove ci conceda molti inverni ancora, o sia l’ultimo questo, che ora infrange alle opposte scogliere il mare Tirreno, metti giudizio: purga i vini, e, in sì breve vita, taglia via una troppo lunga speranza. Mentre parliamo, ecco, il tempo invidioso sarà già fuggito; cogli l’ora che passa, e fida il meno che puoi sul domani28.

Qual fine assegnarono a me gli iddii, quale a te, Leucònoe, non indagar (vietato il saperlo) né tentar calcoli babilonesi. Assai meglio quello che avvenga accogliere. Se molti concedati inverni Giove, o sia questo l’ultimo

che contro bastïon di scogli corrosi a infrangersi scaglia
le Tirrene onde, bada che i vini sien limpidi, e accorcia
lunga speranza in breve spazio. Noi parliamo e intanto invida
l’età è fuggita. Cogli l’ora: e del poi fìdati al minimo29.


* Dipartimento di Studi Umanistici
   Università degli Studi di Torino




1.- Cfr. Bàrberi Squarotti 2013; per la datazione della traduzione si vedano in partic. le pp. VI­VII.

2.- Cavallini 2012 67.

3.- Pavese 1991 IX­XI.

4.- Manca in effetti una storia della tradizione italiana delle versioni da Orazio; notizie essenziali (a parte quelle offerte sparsamente dal vol. III dell’Enciclopedia oraziana) si possono tuttavia ricavare da Santucci 1993; Cerruti 1993; Chiarini 1994; Coccia 1994; Di Pilla 1996 17­28; Iurilli 2004. Per una panoramica sul Novecento si veda ora Baldo 2015 (che cita la versione pavesiana delle Odi come anticipatrice della tendenza allo svecchiamento dell’Orazio italiano che caratterizza le traduzioni novecentesche: cfr. ivi, 38).

5.- AGP.AP.X.13 cc. 1r­1v.

6.- Si veda in merito, con partic. riferimento alle versioni omeriche degli anni Quaranta, De Balsi 2014 122­23; per un quadro generale su Pavese traduttore dal greco è ora fondamentale Cavallini 2015 5­38 (dove questo aspetto è ampiamente messo in rilievo).

7.- Pavese 1991 X.

8.- Pastonchi 1939 XXXIII.

9.- Ma a nessuno si può impedire di farlo, e di condannare su questa base la tradu­ zione di Pavese: del resto, chacun à son goût. Condannarne di conserva anche l’edizione (cfr. Franco 2013 485 «nel complesso queste traduzioni giovanili non paiono memorabili, e probabilmente non avrebbero meritato le sedule cure editoriali: sicché sul punto chi scrive si sente autorizzato a far proprio un motto oraziano: quaerere distuli») non ha invece molto senso, perché significa perdere completamente di vista il valore essenziale – filologico e storico­letterario – del documento: come dire che la pubblicazione di poche sillabe da un frammento di papiro non aggiunge nulla alla poesia di Saffo sul piano estetico e dunque è superflua. Quanto alla qualità della versione, solo un’analisi attenta alle intenzioni dell’autore e allargata al contesto letterario e culturale potrà verificarne la portata.

10.- Vollmer 1912; per l’identificazione del testo di riferimento si veda Bàrberi Squarotti 2013 IX­X.

11.- Bàrberi Squarotti 2013 47 «Paneto» per Panezio (= carm. 1.29.14 Panaeti); ivi, 69 «Delio» per Dellio (= carm. 2.3.4 Delli); ivi, 99 «i Getuli Sirti» per le Sirti getule, cioè africane (= carm. 2.20.15 Syrtisque Gaetulas); ivi, 137 «Lamio» e «Lamii» per Lamio e Lamia (= carm. 3.17.1­2 ab Lamo […] Lamias); ivi, 173 «gli Echioni Tebani» per la Tebe di Echione (= carm. 4.4.63 Echioniaeve Thebae).

12.- Herder 1803 62.

13.- Si veda Bàrberi Squarotti 2013 X.

14.- Cfr. Pavese 1960 426 «c’era un grosso caffè di sobborgo che raccoglieva passanti intorno al muggito della sua radio» (Vespa); ivi, 441 «Si sentiva soltanto il muggito della fiamma dai fienili» (Feria d’agosto, Il mare); Pavese 1962 30 «Questi poveri ottoni son troppo sovente ammaccati: / contadine le mani che stringono i tasti, / e le fronti, caparbie, che guardano appena da terra. / Miserabile sangue fiaccato, estenuato / dalle troppe fatiche, si sente muggire / nelle note» (Lavorare stanca, Fumatori di carta).

15.- Arci per arces ‘rocche’ (carm. 1.2.3), caterve per catervas (1.8.16), pulvinare per pulvinar (1.37.3), trattare per tractare ‘maneggiare’ (1.37.27), inferie per infe-rias (2.1.28), Tiadi per Thyiadas ‘baccanti’ (2.19.9, e cfr. 3.15.10), costo per costum ‘unguento’ (3.1.44), cornice per cornicis ‘cornacchia’ (4.13.25), nonché i grecismi cheli per testudo ‘lira’ (1.32.14) e faselo per phaselon (3.2.29), questi ultimi con precedenti significativi nella Laus vitae di d’Annunzio (IX 594­97 «Al Cintio lungescagliante / ond’ebbi la verga trifoglia, / cui diedi la cheli soave, mi strinsi con patto fraterno»; X 7 «come fasèlo o liburna»; per faselo cfr. anche Carducci, Odi barbare, Sirmione 27­28 «legato giù a’ nitidi sassi / il fasèlo bitinico»).

16.- In corrispondenza di carm. 1.7.13 l’autografo, carta 3v di AGP.AP.X.20, documenta la correzione in Tiburno dell’iniziale Tivoli: il che dimostra come meglio non si potrebbe che la traslitterazione del nome latino dipende da una strategia precisa e consapevole del traduttore.

17.- carm. 2.2.18­19 = Bàrberi Squarotti 2013 67 dissidens plebi […] Virtus > «La Virtù, che siede in disparte dal volgo» (traduzione basata sul significato concreto di dissideo, che risulta particolarmente pregnante sia in considerazione dell’uso romano per cui a teatro sedevano vicine persone della medesima condizione sia in rapporto ad analoghe espressioni oraziane: in epist. 1.5.14 di chi vive da taccagno Orazio dice che adsidet insano, ossia ‘siede accanto a un pazzo’: in altre parole è pazzo pure lui); 2.8.21 = Bàrberi Squarotti 2013 79 Te suis matres metuont iuvencis «Te le madri temono per i loro giovenchi» (iuvenci sta per ‘cuccioli, figli’: il calco mira a conservare nella traduzione l’ironia e la carica espressiva dell’originale»); 2.15.14­16 = Bàrberi Squarotti 2013 89 nulla […] opacam / porticus excipiebat arcton > «Nessun portico […] volgeva ad accogliere le tenebre della notte» (letterale e allo stesso tempo interpretativa la resa mediante volgeva ad accogliere di excipiebat, che probabilmente allude all’orientamento del portico nell’architettura degli edifici).

18.- carm. 2.6.5­8 = Bàrberi Squarotti 2013 75 Tibur Argeo positum colono / sit meae sedes utinam senectae, / sit modus lasso maris et viarum / militiaeque > «volesse Dio che Tivoli, fondata da quel colono argivo, fosse l’asilo della mia vecchiaia, un recinto a me, che son così stanco del mare, dei viaggi e della milizia» (recinto per modus è un’evidente forzatura, intesa a prefigurare la dimensione georgica che domina i vv. ss. dell’ode); 3.4.79­80 = Bàrberi Squarotti 2013 113 amatorem […] Pirithoum > «l’impuro Piritoo» (impuro rende esplicita l’ironica allusione oraziana alla natura della colpa di Piritoo, che come quella di Orione e quella di Tizio, nominanti in precedenza ed entrambi attentatori della verginità di Diana, consiste in uno sfrenato desiderio sessuale rivolto verso una dea); 4.15.26 = Bàrberi Squarotti 2013 197 inter iocosi munera Liberi > «tra gli allegri doni di Bacco» (interpreta acutamente come ipallage il sintagma; lo stesso più avanti, vv. 30­31 almae / progeniem Veneris > «la discendenza gloriosa di Venere»). 

19.- Forme analoghe si ritroveranno in Romagnoli, come rileva Serianni 2012 450­ 51, ma senza l’ironia letteraria che caratterizza a tratti, su questo versante, la versione pavesiana.

20.- Si veda Serianni 2012 644­48.

21.- Ben più pregnante e “moderna” delle soluzioni (oltretutto chiaramente interdipendenti) che troviamo nelle traduzioni in prosa che appariranno negli anni Trenta: cfr. Romagnoli 1933 129 «Vecchia, spregiata, implorerai a tua volta i drudi nel deserto chiassuolo, al novilunio, mentre il vento di Tracia infuria più che mai sotto i portici, | quando il bollor d’amore e la lussuria che manda in foia le cavalle t’imperverserà intorno al fegato ulcerato»; Lipparini 1947 52 «A tua volta, fatta vecchia, piangerai spregiata i drudi arroganti, nel chiassuolo solitario, mentre il vento di Tracia infurierà più che mai nel novilunio, allorché l’amoroso ardore e la lussuria, che suole mettere in furia le madri dei cavalli, t’inferocirà intorno al fegato esulcerato».

22.- Bàrberi Squarotti 2013 41.

23.- Romagnoli 1931 111 «lei la passione per Noto costringe a folleggiare come lasciva capretta»; Lipparini 19461 48 «Lei sforza l’amore per Noto a folleggiare simile a capretta lasciva».

24.- Bàrberi Squarotti 2013 133­35.

25.- Bàrberi Squarotti 2013 189. Anche in questo caso è utile un confronto con le altre traduzioni in prosa che seguono quella di Pavese, senza dubbio più ingessate: Romagnoli 1931 265­67 «[…] La stagione, o Virgilio, riadduce la sete; ma se tu hai proprio voglia di gustare vino pigiato a Calvi, o diletto della nobile gioventù, devi col nardo guadagnarti il vino: | una fialetta di nardo farà saltar fuori un caratello che dorme adesso nelle cantine di Sulpicio, ben generoso nell’ispirare grandi speranze, ben efficace per dissipare le amare ambasce. | E se tu aspiri a tanto gaudio, vieni, svelto, con la tua merce: non è mia intenzione annaffiarti coi miei calici senza un tuo contributo, come un riccone in una casa piena d’ogni ben di Dio […]»; Lipparini 19462 45 «[…] La stagione riporta la sete, o Virgilio; ma se hai voglia di sorseggiare l’uva pigiata a Cales, tu, frequentatore di nobili giovani, ti dovrai guadagnare il vino con l’unguento. Un vasetto d’onice, così piccino, farà saltar fuori un’anfora, che ora giace appoggiata nei magazzini di Sulpicio, larga a donare nuove speranze, ed efficace a scioglier l’amarezza degli affanni. Se dunque aneli a queste gioie, vieni alla svelta con la tua merce: non certo io penso di bagnarti gratis coi miei bicchieri, come un ricco in una casa ricolma […]».

26.- Bàrberi Squarotti 2013 19.

27.- Romagnoli 1933 60­61.

28.- Lipparini 1947 41.

29.- Pastonchi 1939 53.


Bibliografia


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Cavallini 2012 = E. Cavallini, «L’Inno Omerico a Dioniso nella traduzione di Pavese», Pavese, un greco del nostro tempo. Dodicesima rassegna di saggi internazionali di critica pavesiana, a c. di A. Catalfamo, Catania, CUECM, 2012, 65­82.

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Romagnoli 1933 = Orazio, Le odi, Versione di Ettore Romagnoli, I, Villasanta, Società Anonima Notari, 1933.

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Serianni 2012 = L. Serianni, «Ettore Romagnoli latinista», Venuste noster. Scritti offerti a Leopoldo Gamberale, a c. di M. Passalacqua, M. De Nonno, A.M. Morelli, con la collaborazione di Claudio Giammona, Hildesheim­Zürich­New York, Olms, 2012, 639­54.

Vollmer 1912 = Q. Horati Flacci Carmina, recensuit F. Vollmer, Editio maior iterata et correcta, Lipsiae, In aedibus B. G. Teubneri, 1912.


Da: Scrittori che traducono scrittori. Traduzioni ‘d’autore’ da classici latini e greci nella letteratura italiana del Novecento a cura di Eleonora Cavallini, Edizioni dell’Orso (Alessandria 2017), pp. 15-32.



GIOVANNI BÀRBERI SQUAROTTI Professore associato di Letteratura italiana, dal 2001 al 2008 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria; dal I novembre 2008 in servizio presso l’Università di Torino, Dipartimento di Studi Umanistici.Membro della Commissione per l’Edizione Nazionale delle Opere di Giovanni Pascoli (2015-). Presidente della Commissione per l’Edizione Nazionale delle Opere di Giovanni Pascoli (2018-). Membro del Consiglio Direttivo dell’Associazione degli Italianisti-ADI (2014-). Coordinatore della Sezione di Italianistica del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Torino (2012-2018). Membro del collegio del Dottorato in Scienze Storiche, Archeologiche e Filologiche dell’Università di Messina (2016-); precedentemente è stato membro del collegio del Dottorato in Culture Classiche e Moderne dell’Università di Torino (2011-2013) e del collegio del Dottorato di ricerca in Scienze letterarie, retorica e tecniche dell’interpretazione del Dipartimento di Filologia dell’Università della Calabria e della Scuola Dottorale Internazionale di Studi Umanistici dell’Università della Calabria (2001-2010). Ha conseguito la maturità presso il Liceo Classico «Massimo d’Azeglio» di Torino nel 1986 e si è laureato (con 110/110 e lode) in Letteratura greca nel 1992 presso l’Università di Torino. Dal 1992 al 1999 ha collaborato alla redazione del «Grande Dizionario della Lingua Italiana» di Salvatore Battaglia della UTET. Nel 1993 è stato redattore del «Grande Dizionario Italiano» diretto da Tullio de Mauro (Torino 1999). Nel giugno 1998 ha conseguito il titolo di dottore di ricerca di ricerca in Storia e tradizione dei testi letterari presso l’Università di Roma 3. Negli anni 1998-2001 ha svolto come borsista e poi come assegnista di ricerca attività di ricerca e di didattica presso l’Università di Calabria e presso l’Università di Torino. Nel 2000 ha vinto il concorso ordinario per la scuola secondaria, classe A050. Concentra le sue ricerche sulle poetiche del classicismo e sui rapporti fra letterature antiche e letteratura italiana, con particolare attenzione a Dante, Petrarca, la letteratura fiorentina dell’età medicea, Carducci, Pascoli e il classicismo di fine Ottocento. Ha studiato il tema della caccia nella letteratura («Selvaggia dilettanza». La caccia nella letteratura italiana dalle origini a Marino, Venezia 2000; La caccia nella letteratura della corte sabauda, Torino 2010) e le presenze del mito di Diana (Diana, in Il mito nella letteratura italiana, Opera diretta da P. Gibellini, vol. V/2, Percorsi. L’avventura dei personaggi, a cura di A. Cinquegrani, Brescia 2009). Ha pubblicato edizioni commentate di opere di autori greci e umanisti (Euripide, Erasmo da Rotterdam) e ha curato il commento a Poemi conviviali, Poemi italici, Canzoni di Re Enzio, Poemi del Risorgimento, Inno a Roma, Inno a Torino di Giovanni Pascoli (Torino, UTET, 2009).  Fra le pubblicazioni più recenti, l’edizione critica della traduzione delle Odi di Orazio realizzata da Cesare Pavese (Firenze, Olschki, 2013), sulla base del manoscritto conservato presso il Centro Studi «Guido Gozzano-Cesare Pavese» dell’Università di Torino, e il volume L’intenzion de l’arte. Studi su Dante (Milano, Franco Angeli, 2014). Nell’àmbito dell’Edizione Nazionale delle Opere di Giovanni Pascoli sta curando l’edizione dei Poemi del Risorgimento.

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