Gian Mario Villalta | Alcune poesie
Foto di Dino Ignani La casa vecchia La gru andava via con un giro lento dietro i nocciòli. Era settembre. La casa...
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Foto di Dino Ignani |
La casa vecchia
La gru andava via con un giro lento dietro i nocciòli.
Era settembre. La casa era quasi finita
e sarebbe rimasta così per sempre,
con i ferri ricurvi in terrazza,
la malta grezza ai lati della scala.
Il rampicante rischiara la parete,
ricopre il muro, la rete dell’orto.
Lo zio era un ragazzo quando è morto.
Poi altre estati calcinarono le vertebre,
inverni gelarono i nervi del grande corpo contorto
di lobie, stalle, tettoie.
Le automobili dalla statale
proiettano a lampi sopra il letto
il negativo delle persiane
prima di addormentarmi.
Inizio sempre da qui, lo sguardo fisso
nel buio: ricostruisco la casa vecchia.
E mi inabisso
con i visi e le mani che si pensano,
proprio quando è il momento di riunire
tutti in cucina, con le voci che feriscono
per proteggere, mentono per salvare.
Da madre a figlio
Le palpebre chiuse, piano, senza stringerle,
che si perda la memoria della luce.
Adesso apri e non guardare niente.
Lentamente trova l’ombra (ce n’è sempre),
trova una linea, un contorno sullo sfondo.
Adesso guardati le mani. Se le vedi,
calcola la distanza che separa
la loro forma dalle sagome più scure:
ora trasforma il vuoto in volume.
Avrei voluto insegnarti un bene grande,
l’acqua che nasce, le nuvole selvagge
sopra i campi profumati dai sambuchi.
Avrei voluto il tempo di conoscere
il mio cuore che ti aiutava a crescere.
Ma non c’è tempo. Lentamente, trova l’ombra,
trova una linea, trasforma in orizzonte
la distanza tra un’ombra nera e il fondo.
Posso insegnarti a vedere al buio.
Non c’è mai tempo, prova adesso, prova.
Generazioni
La pressione dell’erba nuova aggruma il verde
a un centimetro dal suolo, in sospensione.
Così le parole di chi si innamora
formano un nuovo colore
sul parlare comune, delimitano appezzamenti del sentire,
contendono alle frasi il nutrimento.
Così si forma la lingua famigliare,
così cresce e diventa quotidiana
la lingua propria del sentimento
di quegli unici corpi, di quei muri,
quella scansione condivisa del tempo.
La lingua che i figli falciano e disseccano
crescendo, disperdono di nuovo per distrazione,
per la pressione del desiderio, per amore.
Stazione di servizio
Affanno nel fogliame, nell’attesa
della prima sgrondata di piovasco.
Tu che sei sceso dall’auto per pagare
annusi l’aria, alzi il bavero, ti guardi
nella vetrata mentre ti avvicini.
La bandiera tentenna nei tiranti.
Tu alla colonna della benzina
con la faccia controvento di trequarti.
L’uomo prende la carta, l’erba alta
preme sul cartellone con un paesaggio
appoggiato tra il marciapiede e il muro.
Tu e le tue dita che perdono lo schema
delle cifre da imprimere sulla tastiera.
Quando riparti (hai pagato, confuso
– dopo altri due tentativi – in contanti)
l’uomo è rimasto immobile a guardarti
come avresti ripreso la strada con quel sorriso.
Vero viso
Un viso, nell’opera degli anni, quando si compie?
Uscendo dall’adolescenza, quando pare fermarsi
per la prima volta, dopo tante prove e i tentativi
di assomigliare a un parente, o a un amico, falliti?
Oppure quando passati i quaranta anni,
nel peso delle palpebre, nell’esimersi delle labbra,
nella tensione delle narici, il carattere,
le manie, vengono fuori, i vizi, la memoria
che adesso occupa il suo presente?
O quando, prima della devastazione, vi si imprime
l’ultima forma, semplice, riassumibile in poche linee
essenziali, l’effigie, la caricatura?
Sera
La luce si alza verso il cielo sopra le luci
e il buio dolce degli edifici
abbraccia a lungo lo sguardo.
La luce si alza con un respiro
e promette a tutti un segreto, quiete profonda, pianto.
Passano una sull’altra
facce nelle auto che incroci,
le guardi, a cosa appartieni questa sera, a chi parli?
La lingua perduta degli stormi
che alti si adunano nella luce.
La lingua dei perduti per una parola non detta,
per una parola distorta pervenuta all’orecchio.
Per una volta non sia la ragione o la colpa,
chiama tu, pronuncia le parole che più non hai detto.
Non c’è vergogna se trovi nel cielo di questa sera
fiducia in qualcosa che non conosci,
e non la vita che si sogna,
ma qualcosa di tuo nella vita che vedi.
Adesso componi il numero, adesso chiedi.
Dreiländereck 2012
I
Oggi, che mi guardi poco
da stamattina e io sono troppo docile,
anche adesso, quando a voce bassa
tento il freddo, attento a non offendere
il vetro che protegge le domande,
siamo tornati al Trilande domenicale
perché fa bene camminare all‟aperto.
Poi l‟ossigeno, le foglie, le altre volte
che siamo stati qui. Un po‟ di sole,
che scioglie il gelo in superficie e nelle frasi
inevitabile un più acuto allarme: più scivoloso
si fa lo strato di ghiaccio sotto il sorriso.
Ma via, dove vuoi correre? Torniamo
a mettere un piede davanti all‟altro
indecisi, dove abbandona il sentiero
le bandierine e l’incertezza, di nuovo, abbonda.
Poi farà buio. Resterà,
di questo giorno opaco come oro,
il silenzio inoltrato
in un ottobre storto, che sfinisce
ogni cedere – mi ritorce più crudo
il mio cinismo, e non mi crede.
Telepatia
I.
Uno stormo di istanti, per sempre
curvò nella luce dell‟una, innalzò il respiro
con tutte le radici.
Sarebbe un modo di dirlo.
Un altro è che avvenne,
lasciò una scia attraversò
senza ferita, senza cicatrice
fu giorno per notte per sempre:
divise il sangue, smise di essere
di qualcuno, e pensammo il nome detto
nostro una volta per tutte.
Prima persona plurale,
modo incondizionato,
tempo perfetto.
II.
Quando ti penso, perché
so che un esistere vero
è dove mi porta a te,
a me ti porta, il pensiero?
Pure se nulla afferro, nulla è,
cosa tra cose, corpo tra corpi, perché
occupi spazio, profumi, sei causa
di decisioni, e rinunce: lo sai che non posso
chiedere, né avere altra risposta – eppure
sei tu che parli, fai l‟amore
e la morte?
III.
Dico che ti penso.
Penso che sia il pensiero
di te, che io invento
nella mia mente,
che sono io, cioè, a trovarti
in me stesso e a portarti in un luogo
e in un tempo, perderti di nuovo.
Ma sei tu che mi pensi, forse,
perché sei tu che vieni
e il pensiero che ti porta è già te:
quell‟io che ti pensa, può essere che sei tu
che lo crei?
So che esisto fuori di me.
Le prove? Lasciamo perdere.
Ma so che persiste
l‟irrevocabile.
Forse l‟oscuro di ciò che chiamiamo
essere è appartenere
agli altri, a molto altro (anche luoghi, date, vuoti
di noi stessi) e non sapere dove
stiamo ancora insieme, dove siamo altri, o gli stessi.
IV.
Il pensiero di te, che ha origine
in me stesso, viene da altrove,
suppongo, e lontano, per questo mi chiama,
o è come se lo facesse,
e spesso sorprende la mente
intenta al lavoro, alla guida, a se stessa
nel riflesso che rigira il presente.
Rigira l‟origine, il pensiero,
e quando arriva ci trova già
rivoltati verso il futuro, in fuga
da noi stessi, pieni di desiderio
di essere stati: “Celeste
è questa…” …facoltà, che hanno gli umani
di rivivere rimorire
lontani, celeste…
è il colore del cielo,
a volte, quel colore inventato da noi
umani, forse da uno rimasto solo
e nel pensiero vicino all‟amore
come vicino all‟amore nessuno.
Visita
Le mani strette sopra la tavola
fa silenzio la testa sul bicchiere, aspettando,
ma non qualcuno, non me.
Io ho sulle spalle ancora le montagne,
le alte montagne di neve risplendono
dentro la stanza chiamano luce, luce e lui
attento a non versare,
sbaglia il mio nome dolcemente,
parla con mio fratello morto.
Gli accarezzo la testa, li lascio stare
tranquilli mentre continua a parlare.
Porto il pane al suo posto, il piatto nel lavello,
ripiego il giornale vecchio.
Dovrebbe il tempo adesso aprirsi
per le montagne così presenti,
sentisse anche lui chiamare la luce
delle montagne lontane
e i capelli risplendere freschi,
parlasse anche a me, ma non quello di adesso,
a me quando ero un bambino
pieno di luce sulle sue spalle.
Natura
La forza che spacca il tempo dentro il legno
e trascina le pietre nel mese di marzo
a valle dei torrenti, l’accanimento della materia
alla rovina, a rinascere, lo sforzo della mente
per figurarsi la pioggia innumerevole,
per arginare i silenzi, dove cede
a un limite breve, a un’ombra, dove diventa
nostra, e subito felicità, subito angoscia?
GIAN MARIO VILLALTA, e’ nato nel 1959 a Visinale di Pasiano (PN). Diplomato presso il Liceo scientifico di Pordenone, si è laureato in Lettere a Bologna, con una tesi sulla retorica del testo letterario e filosofico. Insegna in un liceo ed è direttore artistico del festival Pordenonelegge. ha esordito come poeta, presentato da Antonio Porta su 'Alfabeta' nel 1986, pubblicando in seguito diversi libri di poesia tra cui: Altro che storie! (Campanotto, 1988), L’erba in tasca (Scheiwiller, Milano 1992), Nel buio degli alberi (La barca di Babele, Circolo Culturale di Meduno 2001), Vose de Vose - voce di voci (Campanotto, 1995 e 2009), Vedere al buio (sassella, 2007), Vanità della mente (Mondadori, 2011, Premio Viareggio). Numerosi gli studi e gli interventi critici su rivista e in volume, tra cui i saggi La costanza del vocativo. Lettura della "trilogia" di Andrea Zanzotto (Guerini e Associati, 1992), Il respiro e lo sguardo. Un racconto della poesia italiana contemporanea (Rizzoli, 2005), e ha curato i volumi: Andrea Zanzotto, Scritti sulla letteratura (Mondatori, 2001) e, con Stefano Dal Bianco, ha curato il Meridiano Le poesie e prose scelte di Andrea Zanzotto. I suoi libri di narrativa: Un dolore riconoscente (Transeuropa, 2000), Tuo figlio (Mondatori, 2004), Vita della mia vita (Mondatori, 2006) e Alla fine di un’infanzia felice (Mondatori, 2013).