Virginia Murru | Una perla nella letteratura del Novecento: Antonia Pozzi

La breve vita di Antonia Pozzi, velata di malinconia e sottile inquietudine, resta avvolta nel mistero di un tormento che l’ha accerch...



La breve vita di Antonia Pozzi, velata di malinconia e sottile inquietudine, resta avvolta nel mistero di un tormento che l’ha accerchiata, proiettata nei meandri di un ‘male di vivere’ ineluttabile, fino a condurla alla desolazione di una scelta estrema, una fine tragica, che l’ha per sempre allontanata dalle controverse scene della sua travagliata esistenza. Aveva soltanto 26 anni, Antonia, quando concluse che il mondo non aveva più niente da offrirle; ma alle spalle si lasciava una vita intensissima, esaltata da un animo estremamente sensibile, che sapeva captare con i suoi potenti ‘sensori’, ogni messaggio di luce e oscurità che provenisse dalle esperienze del quotidiano. La poesia, tumulto intimo che le apriva vastissimi orizzonti davanti allo sguardo attento e fisso oltre la superficie delle cose, era il suo rifugio e il luogo dell’anima prediletto, nel quale amava riversare ogni impulso diretto di una coscienza che manifestò fin da giovanissima, gli umori vivaci di un’intelligenza non comune.

Proveniva da una famiglia dell’alta borghesia milanese, l’agiatezza aveva peraltro radici profonde, tutti i suoi avi erano persone colte e facoltose, e in questo clima già favorevole trovò la via più naturale per la sua formazione, in gran parte dedita agli studi e alla ricerca, alla scoperta dei grandi valori culturali legati al suo tempo e al passato. Aveva seguito studi classici, frequentando ginnasio e liceo in un istituto superiore della città, seguita da insegnanti che avevano stimolato le sue innate inclinazioni verso la letteratura, incentivato la curiosità e la passione per la cultura, la filologia e l’estetica, canali privilegiati che le permisero di conseguire, ancora giovanissima, e col massimo dei voti, la laurea in Lettere e Filosofia. Aveva 23 anni, e un grande desiderio di scoprire i lati più inediti dell’umanità, aprire nuove prospettive davanti a sé, raggiungere l’essenza delle cose con lo speciale scandaglio di un intuito sopraffino. Sempre accompagnata da uno stato malinconico, che le camminava a fianco come un’ombra discreta;   più acuto si rivelava il suo sentire, più fatale il suo presentire. Prerogative personali che rendevano peculiari gli stati d’animo, lo proiettavano verso la profondità dell’essere e della natura che le stava intorno, che lei cercava quasi spasmodicamente, fino alle  verità più recondite, allontanandosi anche per mesi dall’accogliente e sontuosa casa milanese, per vivere in un luogo di soggiorno montano, ai piedi delle Alpi; questo piccolo centro era Pasturo, citato anche dal Manzoni ne ‘I promessi sposi’. Cercava con tutte le sue forze una simbiosi con la montagna, ne trasponeva lo spirito in versi bellissimi, ai quali affidava tutti gli spasimi dei suoi conflitti più intimi, mentre la vita, lentamente, diventava una rima aliena, non in armonia con quel subbuglio interiore che l’affliggeva senza scampo. Il suo era un istinto acuto che apriva tunnel misteriosi anche davanti alla gente e al mondo che le stava intorno, non le permetteva di soffermarsi nei  prospetti di un lungo disegno di vita, e di progetti che delineassero una linea sicura per l’avvenire: era un procedere legato all’evasione, alla fuga.

Naufraghi sugli scogli,
ognuno narra
a sè solo – la storia
di una dolce casa
perduta,
sè solo ascolta
parlare forte
sul deserto pianto
del mare –

Triste orto abbandonato l’anima
si cinge di selvagge siepi
di amori:
morire è questo
ricoprirsi di rovi
nati in noi.

Antonia percepiva tutto ciò che alla gente comune passava accanto come aria informe, davanti a lei fluttuavano onde di sensazioni che rendevano eclettico e fertilissimo il pensiero, e tutto questo con naturalezza estrema. Anche l’impulso di cercare nella natura un’interlocutrice che mediasse tra il suo male sottile e il desiderio di luce, era un indice di quel tentativo vano di riportare equilibrio tra i pilastri fondanti di un’esistenza che aveva necessità di un assetto più solido, certezze che le permettessero di lasciare quel suo andare nel sottosuolo. Solo la Poesia, dopo il liceo, diventò ragione di vita, le permise di unire gli strati mobili e precari del suo modo d’essere, non fu ponte di transito per oltrepassare il confine di quel malessere divorante, ma comunque ‘riparo sotto roccia’, confidente sicura e consolante, acqua trasparente che portava sempre in altre sponde la sublimazione di un procedere senza ritorno; paradosso tra l’aspirazione alla normalità e l’arresa davanti al senso del nulla che incombeva.

Neppure l’amore, quello vero e autentico, incontrato al liceo,  via non convenzionale, certo non affine alle aspettative della casa austera e piena di rigore borghese dalla quale proveniva, aveva dato un senso alla sua esistenza. O forse glielo aveva dato in maniera così netta e profonda, da lasciare tutto il resto in penombra, privo di attrattive. Un amore sfortunato, nato a scuola, nell’esiguo spazio che separa la cattedra dai banchi. E non era preparata, forse, ad una sfida così potente e travolgente; ad un sentimento che s’impose con  irruenza, e di lei si prese anche la ragione. Fu pertanto un amore contrastato dalla famiglia, in particolare dal padre, che non mostrò mai disponibilità o comprensione verso la felicità di Antonia, e che di tutto fece per allontanarla da quel professore di Greco giudicato scellerato, ma affascinante agli occhi di lei, semplicemente perché rappresentava i grandi valori nei quali credeva. Totale affinità e simbiosi tra loro, tali da aprire brecce davanti all’impossibile, far scorrere binari d’intesa anche nell’aria che respiravano quando erano lontani. Un Amore speciale, che insidiava tutti i cliché delle convenzioni nelle quali la poetessa viveva, e ai quali suo malgrado era affettivamente legata, dato che non ebbe mai il coraggio di recidere quelle redini e di fare una scelta determinante e chiara, che la realizzasse davvero dando un senso compiuto alla sua esistenza. Antonia non aveva forse una personalità incline agli strappi, quelli che pongono fine al tormento e alle insicurezze, e che sono talvolta gli alleati più fedeli della felicità alla quale si aspira. E’ probabile che lei stessa, comprendendo gli opportunismi della sua famiglia, che in fin dei conti condannavano l’amore per il professore di greco, lo immolavano senza remore né scrupoli alla dignità della loro condizione, abbia cercato di dimenticare. Ma in realtà questi tentativi consci o inconsci non riuscirono a portare serenità nella sua esistenza, si traspose come uno spettro in altre inutili esperienze, le visse accanto come un sogno mancato, le chiese conto di ogni strategia volta a inventare un cielo nuovo davanti a sé, attraverso lontananze che in fondo,  viaggiavano con lei, portando fin nelle ossa quelle emozioni represse.

Scelte fatali, che rimandano ad un’altra sfortunata poetessa americana, Sylvia Plath, non a caso anche lei, morta suicida in giovane età, e a loro, come un’irreale cordata, si unisce Anne Saxton, anch’essa poetessa, anch’essa morta suicida in giovane età.

Difficile dire che quel sentimento contrastato, causa di tanto dolore per Antonia Pozzi, sia stato la causa ‘scatenante’ della tragica fine, vi era un substrato psicologico di fondo che la rendevano affine alle inconsistenze e insidie del vissuto. In definitiva tutti questi processi avvenivano in uno scenario intimo vulnerabile ed esposto ai cataclismi della sorte. Aveva solo gli scarponi di montagna che le permettevano di allontanarsi dai rituali della sua vita borghese, per cercare le ragioni ultime delle cose, tra i crinali innevati del mondo che tanto amava, la montagna. Dialogava con una natura che sapeva rispondere soltanto con la sua bellezza e il suo fascino, ma che nonostante queste incommensurabili grandezze, non coprivano il freddo e la desolazione che aveva nel cuore.

La poesia veicolava i suoi stati d’animo, nulla celava dei suoi umori e dell’anima fradicia di dolore, tutto portava a valle, e convogliava nella diga della parola, della quale lei, pur giovanissima, era maestra. La poesia l’avvolgeva come una coperta calda e rassicurante, era un’interlocutrice che sapeva sollevarla dal suolo e portarla in alto, più in alto delle vette che lei raggiungeva e talvolta scalava, amante com’era dell’ambiente alpestre nel quale trascorreva lunghi periodi di tempo, quasi in assoluta solitudine.  Dialogico era quel silenzio, sapeva cogliere le voci nascoste dei misteri che attraversano le cose in apparenza inanimate, il suo pensiero era un potentissimo scandaglio,  che amava andarsene per i fatti suoi. In fondo Antonia Pozzi aveva uno spirito libero, anche se le mancava l’intraprendenza e il coraggio per una totale affermazione del  proprio sé. E’ stata una voce autorevole della letteratura del Novecento, i suoi versi non sono linee trasversali o sotto traccia di un animo triste, immalinconito dalle amare vicissitudini del proprio vissuto, ma linee chiare di un talento nato, vissuto e alimentato dalle attitudini di una mente vocata verso questo tipo di Arte. E’ evidente la spontaneità espressiva e semantica del suo comporre, frutto di una ricerca interiore che ha seguito un preciso impulso naturale, e per questo ogni singola composizione esprime il pregio dell’arte autentica. Purtroppo resta il rimpianto della sua precoce scomparsa, di quella sua fretta d’andare, senza svelare esattamente i contorni drammatici di quel congedo inaspettato, che ha lasciato tutti attoniti, compresi i suoi compagni di viaggio nell’arte del comporre in versi, Vittorio Sereni, per esempio, che conobbe durante gli anni degli studi universitari,  la stimò e le fu amico in momenti difficili.

Antonia ci ha lasciato una preziosa eredità di testi poetici e scritti di carattere personale, che il padre tentò perfino di contraffare dopo la sua scomparsa, ma le cui copie autentiche furono poi recuperate anche grazie agli studi universitari di una religiosa che scrisse la tesi proprio sulla poetessa, ed ebbe accesso a tutte le carte conservate nelle biblioteche milanesi. Mi piace chiudere le personali riflessioni su questo genio poco conosciuto della poesia italiana, con le sue parole emblematiche, tratte dal  folto epistolario:

“La poesia ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci romba nell’anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell’arte, così come sfociano i fiumi nella vastità celeste del mare. La poesia è una catarsi del dolore, come l’immensità della morte è una catarsi di vita. Quando tutto, ove siamo, è buio ed ogni cosa duole e l’anima penosamente sfiorisce, allora veramente ci sembra che ci sia donato da Dio chi sa sciogliere in canto il nodo delle lacrime e sa dire quello che a noi grida, imprigionato, nel cuore...”





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