Dr. Salama Abdel Moneim Eid Mohammed* | Le fiabe di Giambattista Basile tra l'origine orientale e l'invenzione artistica: La gatta Cenerentola e Vardiello in esame

  Introduzione        Ci sono motivi fondamentali che mi hanno motivato a scegliere lo scrittore napoletano Giambattista Basile (15 febbraio...

 


Introduzione

      

Ci sono motivi fondamentali che mi hanno motivato a scegliere lo scrittore napoletano Giambattista Basile (15 febbraio 1566 – 23 febbraio 1632) come oggetto di studio qui: per primo lui è uno degli scrittori rimasti per molti anni in oblio non meritato, ma anche per la sua peculiarità da scrittore di dialetto napoletano, e alla fine per la genesi della sua opera che fa parte di una tradizione fiabesca mediterranea che, a mio avviso, è reciproca tra le diverse sponde del mare nostrum.

Il corpus scelto qui per lo studio consiste in due fiabe che trovo significative come testimonianze del suo genio letterario e nello stesso  tempo dell'influsso mediterraneo del genere da lui preferito nelle sue opere. Queste due fiabe fanno parte di una raccolta splendida di cinquanta fiabe popolari, registrate fedelmente dalla vivace voce del novellatore tradizionale:1  «La gatta Cenerentola'» di Basile, che rappresenta la fiaba madre di tutte le altre Cenerentole del mondo, ed è raccontata nella prima giornata, mentre Vardiello la seconda fiaba da me scelta, è la quarta, raccontata nella stessa giornata della sua opera maggiore 'Lo Cunto de' li Cunti' o Il Pentamerone, scritta in napoletano e pubblicata postuma tra il 1634 e il 1636.

La particolarità di Basile consiste nell'uso del napoletano nello stesso tempo in cui il fiorentino s'affermava sempre più come lingua  ufficiale: una scelta che anche se considerata a suo tempo sbagliata, va  spiegata dall'amicizia con il poeta Giulio Cesare Cortese che influenzò  molto la personalità letteraria di Basile; il grande poeta fu, infatti, il primo letterato ad usare il dialetto napoletano per scrivere poesie. Quel dialetto che, secondo Benedetto Croce, «'adoperato fino allora solamente da verseggiatori plebei di storie, canzoni e contrasti, alcuni dei quali non privi certamente di lampi d'ingegno com'è il cantastorie noto col nome Velardiniello».2

Del rapporto di Basile con il dialetto scrive Croce che egli: «Si sentì a suo agio in quel patrio dialetto che non gli imponeva obblighi letterari e non gli dava suggestione, e gli permetteva di effondere quel che chiudeva in petto, troppo bassa materia forse per le forme dell'aulica letteratura, riserbata da lui alle odi degli eroi, ossia dei viceré e dei principi e duchi».3

Basile, che fu considerato da alcuni critici il padre della letteratura napoletana, rappresenta, secondo Calvino, un caso letterario  particolare non solo per la scelta del dialetto, ma per la scelta delle fiabe «de 'Peccerille» per le sue acrobazie di stilista barocco-dialettale, dandoci il suo libro «Il Pentamerone» che è il sogno di un deforme Shakespeare.4

Lo scopo di questa opera in dialetto fu di mettere in pratica gli artifici del gusto del suo tempo, mettendo in derisione le bizzarre metafore allora correnti. Perciò Vittorio Imbriani sostenne, nel suo articolo intitolato «Il Gran Basile», pubblicato in luglio del 1875 sul Giornale Napoletano, che «C'è la voce del popolo nel suo libro, e c'è il letterato seicento con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, dei quali ultimi farsi beffe egli stesso. Ed a fare questo, gli giovò moltissimo e l'aver vissuto nel seicento, e l'aver adoperato il dialetto napoletano».5

Per la fortuna dell'opera di Basile si ricorda che verso la fine della prima metà dell'Ottocento Liebrecht la tradusse in tedesco e la sua traduzione venne stampata tante volte. Poi apparse la traduzione inglese di Burton. Indì Benedetto Croce pensò, come assicurò lui stesso, di far 

entrare l'opera dimenticata di Basile nella letteratura italiana e di ridare all'Italia il suo gran libro di fiabe, così la sua traduzione del Pentamerone fu compiuta il 1925. Croce stesso ha scritto: «mi sono studiato di lasciare al libro, non solo tutti i suoi ornati barocchi, ma anche un certo sapore napoletano».6

La bella traduzione del libro ha spinto Italo Calvino a definirlo l'opera di Basile-Croce. Egli ha aggiunto che gli studi che la versione di Benedetto Croce contiene si considerano elementi-basi per poter capire e parlare di quest'opera.


La presenza del Pentamerone in Europa

      

Il libro di Basile fu fonte d'ispirazione per gli scrittori di fiabe prima e dopo la traduzione di Croce in molti paesi europei. In Francia, sostiene Calvino, «Charles Perrault aveva inventato un genere letterario, e finalmente ricercato sulla carta un prezioso equivalente di quella semplicità di tono popolare in cui la fiaba s'era tramandata di bocca in bocca fin allora».7 È noto che Charles Perrault, nato a Parigi il 12 gennaio 1628, pubblicò nel 1680 i Racconti di Mamma oca con cui  ha offerto undici favole indimenticabili tra cui: Cappuccetto rosso, Barba blù, La bella addormentata, Pollicino, Cenerentola e Il gatto con gli stivali. In questa raccolta ha ripreso racconti dall'opera di Basile arricchendone alcuni con delle invenzioni come le scarpette di cristallo nella fiaba di Cenerentola.

Da parte sua Nicoletta Morra sostiene che «i rapporti che legano Basile e Perrault sono, infatti, tuttora oggetto d'indagine. Esiste un  profondo legame tra i due autori costituito dalla stupefacente somiglianza di alcuni racconti. Non esistono testimonianze storiche precise di un possibile contatto tra i due, ma gli indizi che ci portano a  questa conclusione sono numerosi».8 Lo stesso critico sottolinea ancora che esistono dirette concordanze tra le loro novelle, basandosi su quello che ha scritto François Génin nel suo articolo intitolato Les Contes de Perrault, pubblicato nella rivista L’illustration primo marzo 1856, in cui non esclude che «il novellista francese avrebbe attinto a piene mani dall’opera di Basile».

Da Morra sappiamo anche che il critico francese Marc Soriano, nel suo Les contes de Perrault: culture savante et traditions populaires, afferma che uno dei fratelli di Perrault, che si chiamava Pierre, conosceva l'italiano e aveva la capacità di tradurre opere scritte in vari dialetti italiani; perciò non si esclude che lui abbia letto l'opera di Basile a suo fratello. 9

Nella seconda metà del Settecento, a Francoforte, in Germania, nacquero i fratelli Grimm, Jacobo e Wilhelm, i quali, nel 1812, diedero  alla stampa la loro edizione della loro raccolta di fiabe ispirate dal patrimonio folcloristico tedesco, dandole il titolo: Kinder und Hausmärchen. Con le loro 200 fiabe, uscite in due volumi, i fratelli Grimm diedero all' Europa la più grande raccolta di fiabe, definita dall’l'autore ottocentesco Goethe Werther «un'opera scritta per far felici i bambini».10 Nelle note alle loro fiabe per bambini e per famiglie i fratelli Grimm parlarono della raccolta di Giambattista Basile definendola la migliore e la più ricca che sia mai stata in qualunque paese.11


Le fonti d'ispirazione di Basile

      

Ci risulta ben chiaro che Basile influì tanti autori che vengono dopo di lui, ma questo non nega il fatto che lui stesso è stato influenzato  da altri che sono venuti prima di lui, per primo Boccaccio, che secondo lo stesso Morra delinea che il modello a cui rimanda quest'opera  basiliana è senz'altro Il Decamerone e che ci sono elementi tramandati direttamente dalla tradizione popolare di racconti del focolare.12

Sui punti di convergenza tra Il Decamerone e Il Pentamerone Davide Cornieri sottolinea che «sono comuni alle due opere la distibuzione dei racconti in giornate. [...] la finzione della compagnia di narratori in luogo eletto e separato, l'introduzione di poesia a conclusione delle giornate».13 Sulle orme del Decamerone quindi che Basile scrisse la sua opera, ma certamente era diversa in quanto era la prima raccolta di fiabe interamente delle fate14.

Basile riuscì a scegliere una fiaba-cornice in cui la forza della magia muove gli avvenimenti. La cornice è legata alle fiabe da un rapporto necessario perché documenta il clima e la tradizione da cui nascono, nonché il gusto del popolo a cui si rivolgono queste fiabe. Egli comincia la narrazione nell'introduzione alla prima giornata con lunga descrizione della storia del re di Valle Pelosa e sua figlia Zoza, la figlia unica del re, che era sempre triste e non rideva mai. Perciò il padre cercò di toglierle la malinconia, e fece tutto il possibile per renderla contenta: Un giorno fu l'incontro mitologico di Zoza con una vecchia che s'arrabbiò per la sua risata così che la maledisse augurandole di non trovare marito se non il principe di Camporotondo che era uno splendido uomo di nome Tadeo, che giaceva addormentato in una tomba fuori dalla città, sotto l’effetto di un incantesimo, fattogli da una fata. Lì, sulla lapide sepolcrale, era scritto: «qualsivoglia donna colmerà di pianto in tre giorni un'anfora, che si vede colà appesa a un uncino, lo farà risuscitare e lo prenderà per marito».15 Zoza riuscì a riempire il recipiente con le sue lacrime e quando mancavano due dita s'addormentò e perse il recipiente. Lo prese una schiava, la quale il principe sposò, credendo che fosse lei che lo svegliò. Con l'aiuto di tre fate sorelle, che diedero a Zoza una noce, una castagna e una nocciola fornite di arti magiche, ella riuscì ad avere un lieto fine, quando, alla fine, aprì la nocciola, di cui uscì una bambola magica a cui pregò di far nascere nel cuore della schiava la voglia di sentire racconti.

Qui si presentò il momento più rilevante della cornice dell'opera di Basile. Questo fu il prodromo dell'intenzione dell'autore di scrivere un'opera di racconti popolari ossia fiabe. E di seguito la scelta di dieci vecchiette con difetti fisici per narrare racconti per cinque giorni: ogni giorno ognuna narrava un racconto. Fu il tempo della fine con la cinquantesima fiaba, la principessa Zoza si sostituì ad alcune di queste narratrici e svelò la verità al principe.

È ben chiaro che Il Decamerone fu fonte d'ispirazione per Basile, il quale disegnò la cornice e la struttura della sua opera, in modo identico a quelle dell'opera di Boccaccio che a sua volta s'influenzò della cornice racconto dei racconti de Le Mille e Una notte16.

Infatti, la cornice, che ha una funzione essenziale, fu una invenzione tipica nella novellistica orientale e araba e si vede palesemente in opere illustri che rappresentano antecedenti del «Decamerone» e del «Pentamerone», come «Le Mille e una notte» e «Kalila wa Dimnah» in cui notiamo che la cornice esteriore è presente fortemente e rappresenta un preludio necessario, documentando la natura della civiltà e il gusto da cui nascono e a cui sono rivolte le novelle narrate.


L'origine orientale di Cenerentola


È vero che le fiabe hanno le gambe lunghe, sono poliglotte e valicano tutti i confini e sormontano tutte le montagne, si spostano da un paese a un altro, da una cultura a un'altra, da un contesto a un altro, contaminando e contaminandosi con le storie e le culture del posto in cui arrivano.

Facendo la ricerca abbiamo trovato che cronologicamente la prima apparizione europea della storia di Cenerentola fu nell'opera di Giambattista Basile, nella quale si trova la prima traccia, di elementi della leggenda egiziana della ragazza Rodopi, che Erodoto trasmise interamente parlando dell'origine della schiava greca e come divenne regina d'Egitto.

A questo proposito tanti studiosi fra cui l'egiziano Sayed Karim nel suo libro Lo scriba egizio17 assicura l'origine egiziana delle versioni di Cenerentola e sottolinea che il manoscritto originale della leggenda è conservato nel museo britannico. Così fa anche Joshua. J. Mark nel suo lungo saggio «The Egyptian Cinderella Story Debunke» pubblicato in ancient history encyclopedia, nel marzo 2017, ma ci aggiunge anche un'altra fonte cinese.

Però egli ritorna a sottolineare la priorità di Basile in Europa scrivendo che «the story was re-worked in the 17th century CE in Italy, prior to Perrault's version, by the poet Giambattista Basile (1566-1632 CE). The posthumous publication of Basile's now famous children's book, Il Pentamerone, in 1634 CE included the story La Gatta Cenerentola (The Cat Cinderella) which is recognized as the first European appearance of the story in print although, like Basile's other tales, it was already known in Italy. The story was afterwards re-worked and published in other forms in Germany, Russia, and other countries writing on the Cinderella tale».18.

Erodoto non parla di Rodopi come autore ma come storico, quindi la sua storia dovrebbe essere una leggenda. Nei dizionari e nelle enciclopedie, leggiamo che le leggende possono essere di personaggi che sono esistiti storicamente poi vengono tessute intorno a loro delle storie che non hanno a che vedere con la realtà.

Erodoto, il padre della storia, cominciò la sua storia confutando la credenza sbagliata di alcuni greci che avrebbero attribuito a Rodopi la costruzione della piccola piramide di Micerino19. Egli assicurò che Rodopi visse nel periodo di Amasi,20 che secondo Erodoto fu il vero protagonista della fiaba. Assicurò inoltre che Rodopi era d'origine tracia, era schiava d'Iadmone, era compagna di schiavitù dello scrittore famoso greco e il grande favolista Esopo. Appena liberata dalla schiavitù, per opera di un uomo di Mitilene Carasso, fratello di Saffo, la poetessa, Rodopi giunse in Egitto.21

Anche Strabo, nella sua geografia nel libro XVII, nel primo secolo d.c, citò la storia di Rodopi assicurando la sua origine come schiava greca per cui fu costruita la terza piramide di Micerino, la quale fu chiamata «tomba della cortigiana», poi delineò i dettagli della sua storia fiabesca e sottolineò come Rodopi diventò moglie del faraone. Egli scrisse: They tell the fabulous story that, when she was bathing, an eagle snatched one of her sandals from her maid and carried it to Memphis; and while the king was administering justice in the open air, the eagle, when it arrived above his head, flung the sandal into his lap; and the king, stirred both by the beautiful shape of the sandal and by the strangeness of the occurrence, sent men in all directions into the country in quest of the woman who wore the sandal; and when she was found in the city of Naucratis, she was brought up to Memphis, became the wife of the king, and when she died was honored with the above-mentioned tomb

«Claudio Eliano, che visse a Roma tra il II ed il III secolo d.c e che preferì usare la lingua greca, a sua volta, ricordò anche lui la storia della cortigiana egiziana Rodopi nel suo libro Storie varie22 che Claudio Bevegni ha tradotto in italiano nel 1996. Nel risvolto della traduzione ha scritto Nietzsche:'' questa opera di Eliano ci dà il senso preciso, e prezioso, del fatto che il passato è innanzitutto qualcosa che si è inabissato, qualcosa di assente che può tornare davanti ai nostri occhi grazie al caso fortuito che ha permesso di sopravvivere a una colonna – o a un aneddoto. Di tutto il passato si può dire che è come il sandalo sublime della cortigiana Rodopi, caduto dal cielo. Qui c'è un prodromo della presenza di una storia importante avvenuta molti secoli fa».

Nel brano 33 del libro XIII leggiamo la traduzione italiana della storia di Rodopi scritta da Claudio Eliano: «Racconta una tradizione egizia che Rodopi era una cortigiana di straordinaria bellezza. Un giorno, mentre faceva il bagno, la Fortuna (che suole realizzare ciò che nessuno immagina e si aspetta) compì a suo svantaggio un fatto destinato a premiare non l'intelligenza ma la bellezza. Rodopi, dunque, faceva il bagno e le ancelle le custodivano le vesti, quando un'aquila, scesa in picchiata, le rubò un sandalo e volò via: lo portò a Menfi, dove Psammitico stava amministrando la giustizia, e glielo lasciò cadere in grembo. Psammitico, meravigliato per le armoniose proporzioni del sandalo e la grazia della sua fattura e per il comportamento dell'aquila, diede ordine di ricercare per tutto l'Egitto la donna a cui apparteneva quel calzare: e quando la trovò, la prese in moglie».

Eliano riportò gli stessi dettagli riportati da Strabo ma è ben notevole che tutti e tre (Erodoto, Strabo e Eliano) non erano d'accordo sull'identità del faraone protagonista della leggenda; Erodoto assicurò che fu Amasi, Strabo lo considerò Micerino il costruttore della piccola piramide e Eliano sostenne che fu Psammitico senza determinare quale faraone di questa dinastia (la XXVI dinastia) sotto il regno della quale governarono tredici Faraoni con lo stesso pseudonimo.

Da quanto è citato si nota che il periodo in cui visse Rodopi è indeterminato, però non vuol dire che tutta la storia di Rodopi sia inventata, assolutamente no, come abbiamo già accennato alla presenza del papiro conservato nel museo britannico, che contiene i dettagli di questa storia.

Assicurando che il faraone che sposò Rodopi fu Amasi leggiamo che '' Amasis II in Occidente concluse un trattato di alleanza con Cirene, e sottomise alcune città dell’isola di Cipro. (Erodoto II 178). Si sposò con una dama di nome Laodice originaria di Cirene (colonia greca in Libia orientale)23.

Erodoto trasmise la storia di questa giovane che si chiamò anche Etera che vuol dire l'accompagnatrice, in un altro termine la prostituta, però prostituta di alto livello e per la cultura greca la chiamavano Etera, poi la cortigiana.

Strabo e Eliano elaborarono la storia sottolineando che la bella ragazza Rodopi, a causa della sua bellezza, fu sempre oggetto di gelosia di tutte le ragazze che erano con lei, le quali cercavano di allontanarla dal faraone. Fu il destino che l'aiutò a conquistare il cuore del faraone.

Non si esclude assolutamente che Basile quando scrisse la sua fiaba ''la gatta Cenerentola'', come delineeremo dopo, attinse i presupposti essenziali dalla storia di Rodopi, soprattutto era facile per lui avere conoscenza di questa storia famosa nella tradizione scritta e quella popolare. Di seguito il francese Charles Perrault ed i tedeschi, i fratelli Grimm, i quali, come abbiamo già sottolineato, s'influenzarono del napoletano Basile, scrissero: il primo «Cendrillon» cioé «Cenerentola» o la pianellina di vetro ed i Grimm nel 1812 Aschenputtel cioè «Cenerentola».

Per la prima volta i lettori europei lessero la fiaba di ''Cenerentola'' fu quella, la versione di Charles Perrault scritta nel 1680 in francese essendo l'opera di Basile circolata soltanto tra le poche persone che conoscevano bene il napoletano. A causa di questa prima apparizione della versione francese, si diffuse in modo sbagliato, che il sandalo originale di Cenerentola era di vetro. Ma fu un errore di traduttore che invece di tradurre la ''pelliccia'', la materia con cui fu rivestita la pantofola, con l'equivalente francese''vaire'' l'ha trasposta con ''verre'' che vuol dire ''vetro''24. Rimase lo sbaglio, che assunse, col tempo la sua presenza, nelle diverse versioni ispirate da Charles Perrault, come se fosse vero che la scarpetta, l'elemento essenziale nella fiaba, fu di cristallo.

Attraverso lo spazio e il tempo la fiaba va modificando e arricchendosi di elementi nuovi, rinunciando ad altri.


La gatta Cenerentola e l'invenzione di Basile


La gatta Cenerentola di Basile racconta la storia di una giovane bellissima si chiama Zezolla, la protagonista che era orfana di madre e soffriva di certe prepotenze della prima matrigna che suo padre, il principe, ha sposato.

Così è la situazione iniziale della fiaba in cui Basile fa il lettore sentire che la protagonista sia vittima del destino poiché ha perso la madre ed ha una matrigna che la tratta male. Così leggiamo: «essendosi il padre riammogliato di fresco e avendo preso una rabbiosa, malvagia e indiavolata femmina, questa maledetta cominciò ad avere in odio la figliastra, facendole cere brusche, occhiate di cipiglio, da darle il soprassalto per visti torti, la paura».25

Basile narra la sua fiaba, che sarà di una certa lunghezza, senza determinare né l'ambiente geografico né l'epoca storica, narra di personaggi non identificabili per navigare con la sua fantasia, il mezzo indispensabile, per raccontare la fiaba, godendoci e facendo divertire i lettori.

È ben chiaro che la situazione iniziale per la fanciulla fu negativa e mette in moto il meccanismo narrativo della fiaba.

Se non ci fossero state le prepotenze della prima matrigna non avrebbe Zezolla pensato di sostituirla con la maestra cattiva e le sue figlie che sarebbero state le sue antagoniste e la causa essenziale della sua disgrazia.

Leggendo le prime righe della fiaba, sentiamo che Zezolla era una ragazza coccolata da suo padre, di fronte alle cattiverie della prima matrigna ed istigata dalla maestra astuta, ha ucciso, senza pentimenti quella matrigna, per poi costringere il padre a sposare la maestra, lusingatrice, la quale fece credere alla fanciulla che sarebbe stata la sua figlia amata.

Zezolla disse alla maestra: «Oh Dio, e non potresti essere tu la mammina mia, tu che mi fai tanti vezzi e carezze?». E questa le rispose con le parole lusinghevoli: «io ti sarò mamma e tu sarai la pupilla degli occhi miei».26

Compiuta perfettamente la congiura che la maestra ha ordito, il padre si sposò con Carmosina, la maestra ingrata, gelosa, perfida ed astuta che, dopo poco tempo «mandò a monte e scordò affatto il servigio ricevuto (oh trista l'anima, che ha cattiva padrona!), e cominciò a mettere in iscranna sei figlie sue, che fin allora aveva tenute segrete; e tanto fece che il marito presele in grazia, si lasciò cascare dal cuore la figlia sua propria. E Zezolla, scapita oggi, manca domani, finì col ridursi a tal punto che dalla camera passò alla cucina, dal baldacchino al focolare, dagli sfoggi di seta e oro agli strofinaccioli, dagli scettri agli spiedi. Né solo cangiò stato, ma anche nome, e non più Zezolla, ma fu chiamata (Gatta Cenerentola)».27

Perdita del nome, perdita di se stessa e degradazione completa per la bella ragazza. Da quel momento ebbero inizio le prove e gli ostacoli che incontrò l'eroina Cenerentola nelle sue avventure. Lei, così, venne fatta prigioniera da questa matrigna e le sue figlie cattive. Delusa dalla sua maestra e dall'indifferenza del padre, Zezolla s'allontanò e si ritirò trovando nella solitudine uno sfogo della sua crisi, ritenuta, senza soluzioni.

Era il tempo che il padre doveva andare in Sardegna per affari suoi. Qui Basile era costretto a determinare l'isola italiana «Sardegna»: l'isola lontana e geograficamente ha delle grotte in cui (come leggiamo sempre nelle fiabe orientali) appaiono le fate. Furono, in questo viaggio del padre, il soccorso ed il riscatto di Zezolla, quando il destino la fece ricordare che «mentre gli sposi (il padre e la maestra) stavano in gaudio, Zezolla si affacciò a un gaifo della sua casa; e in quel punto una colombella volò sopra un muro e le disse: Quando ti viene desio di qualche cosa, manda a dimandarla alla colombella delle fate dell'isola di Sardegna, ché tu l'avrai subito».28

Fu il messaggio fantastico della presenza di un inaspettato aiutante rappresentato dalla colombella delle fate dell'isola di Sardegna. Per rendere più credibile la storia della fiaba, contemporaneamente, alla sua invenzione artistica straordinaria, Basile descrive, con realismo, le tradizioni della famiglia quando i suoi membri chiedono al padre che, va in viaggio, di portargli certe cose di cui hanno bisogno, nonché la gelosia, l'invidia e l'odio della matrigna e delle sue figlie per la bella principessa Zezolla.

A partire dal viaggio reale del padre, la storia della protagonista, a cui mancavano la forza e la volontà di reagire alle avversità che la circondavano, procede in un altro filone in cui le azioni narrate sono tutte fatate e volute dal destino.

Il padre che si lasciò cascare dal cuore la figlia unica che era la più cara persona a lui, per opera della magia che tanto lo fece preferire le sei figliastre alla figlia Zezolla, prima di partire domandò a ciascuna che cosa voleva che le portasse al ritorno ed infine domandò alla figlia disgraziata soltanto per prenderla in giro se volesse qualcosa anche lei. E Zezolla, a sua volta, ormai, dotata di una forza straordinaria, rispose al padre ammonendolo: «Nient’altro se non che mi raccomandi alla colomba delle fate, che mi mandi, e, se ti dimentichi, che tu non possa andare né innanzi né indietro. Tieni bene a mente quel che ti dico: arma tua, manica tua».29

Con l'arrivo della Colombella fatata, per aiutarla e sostenerla contro le malvagità della matrigna e delle sorellastre, l'eroina subì un certo mutamento nelle sue idee e nella sua personalità. Ammonì il padre che se avesse mancato alla sua promessa avrebbe trovato peggio per lui, però come è previsto in una fiaba di fate, il padre si dimenticò di portarle il dono dalla grotta delle fate. Allora un prodigio impedì alla nave di ripartire. Quel prodigio rappresentato da una remora mandata da una forza sovrannaturale che arrivò all'improvviso e impose la sua volontà finché il padrone della nave, disperato, s'addormentò per la stanchezza. La fata Per continuare ad imporre il proprio potere; gli apparve in sogno e gli annunziò: «Sai perché non potete staccarvi dal porto? Perché il principe, che vien con voi, ha mancato alla promessa verso la figlia, ricordandosi di tutti, fuorché del sangue proprio».30

Il principe fu costretto ad andare alla grotta dove incontrò una fata nell'immagine di una bella giovane e ne prese il dono di Zezolla ''il dattero fatato, il secchietto d'oro, la piccola zappa, l'asciugamano e tutto il necessario per coltivarlo.

In questa fiaba la fata è uno dei personaggi principali che ha una figura benefica e connotazioni opposte a quelle di tutti gli altri personaggi umani con cui vive la protagonista. È presentata con tutti i suoi attributi e le sue facoltà.

Non si esclude mai la presenza delle fate e del magismo nella tradizione e nella cultura napoletane: leggiamo che «la tradizione letteraria vede la presenza di questi personaggi, nel Medioevo, nei cicli di storie arturiane, in seguito sono presenti nel Rinascimento nella produzione ariostica, in quella di Straparola (1550) e nel Pentamerone di G. Basile (1634). Acquistarono poi importanza fondamentale nelle tragedie di Shakespeare e raggiunsero infine l'apice della fama alla corte francese di Luigi XIV nel secolo XVII con Les contes de ma mère l'ote di C. Perrault».31

Dunque erano presenti fortemente il magismo e l'esotismo prima e dopo Basile; quindi l'inserimento di personaggi sovrannaturali nelle sue fiabe era un fatto normale. In virtù di un potere magico, in quattro giorni il dattero crebbe e ne venne fuori, alla statura di una donna, una fata che domandò a Zezolla: «Che cosa desideri?». Zezolla rispose che desiderava uscire qualche volta di casa, e che le sorelle non lo sapessero. Rispose la fata: «Ogni volta che ti piaccia, viene alla pianta e le dì: Dattero mio dorato, con la zappetta d’oro t’ho zappato; con il secchietto d'oro, innaffato, con la fascia di seta t'ho asciugato. Spoglia te e vesti me! Quando poi vorrai spogliarti, cangia l’ultimo verso e di’: — Spoglia me e vesti te».32

Ma perché il dattero?

È vero che Basile non lo scelse per caso, lo scelse perché ci pare che non mancasse a lui la conoscenza della simbologia della palma da dattero nelle tradizioni diverse. La palma da dattero che evoca il simbolo della bellezza e dell'armonia, gli Egizi l'associarono alla Dea Hator, la protettrice della musica e della danza, la quale, viene rappresentata nelle tombe mentre versa dalla palma l'acqua di vita al defunto. Inoltre, per i Greci, la palma da dattero è simbolo della vittoria e della gloria. Nei sogni le palme sono simboli della capacità di elevarsi al di sopra dei conflitti.33

In questa fiaba, Basile si serve della magia dei datteri, come incantesimi purificatori per scacciare da questa fanciulla le qualità vili e le sostituisce con altre qualità buone, le quali, le garantiscono la vittoria. Lo scrittore barocco, scrivendo la sua fiaba, intende procurare piacere ai suoi lettori attraverso il nuovo ed il meraviglioso, usando la metafora, come strumento essenziale, per mostrare le sue abilità creative.

La fata aiutante e donatrice rivela sempre la sua disponibilità di aiutare e soccorrere la disgraziata ragazza tramite questa pianta magica e la formula magica, che appena pronunciata, la gatta Cenerentola si veste e si trasforma completamente in altra persona che le sorellastre e la matrigna non riescono a conoscere. È facile pensare che questa fata ha dimora in questa pianta, nel cuore della terra, e segue, da vicino, come va la faccenda per intervenire, quando c'è necessità. È mandata dalla divina provvidenza che stende la sua misericordia su tutti e premia i buoni e castiga i malvagi.

Anche se Zezolla fosse malvagia, all'inizio, assassinando la prima matrigna, Basile con la sua invenzione artistica fa pensare che questo fatto era legittimato per le prepotenze di quella matrigna. La seconda matrigna continua a prediligere le sue figlie ed a perseguitare la protagonista Zezolla: vennero tre giorni di feste consecutivi; il primo giorno la matrigna e le figlie, tutte incipriate e con i migliori vestiti che avevano, tutte piene di fronzoli, tutti profumati, uscirono di casa lasciando la gatta Cenerentola sola.

Indi iniziò il primo passo, voluto dal destino, che la protagonista Zezolla fece verso la redenzione e la gloria inaspettata quando ella, a sua volta, corse alla sua pianta e pronunciò i versi che le ebbe insegnati la fata e «subito fu posta in assetto di regina, sopra una chinea, con dodici paggi attillati e azzimati e andò anche lei dove erano le sorelle, che non la riconobbero, ma si sentirono venir l’acquolina in bocca per le bellezze di questa colomba».34

E come succede nelle fiabe l'autore impiega la sua fantasia per elaborare le immagini in cui la magia è un elemento- base. La gatta Cenerentola con i suoi abiti stracciati e polverosi ha imparato, da una fata benefica, a pronunciare la formula magica affinché si trasformasse in una ragazza favolosa, che incantò il re, il quale si trovò per fortuna nello stesso luogo.

Continuando, i suoi episodi straordinari e rendendo la fiaba più lunga, invece di terminarla con il primo incontro con il re ,il promesso sposo, Basile che ripeté gli avvenimenti della storia originale di Rodopi, inserì il ruolo del servitore più intimo che il re incaricò di avere informazioni della bella sconosciuta, la quale'' gettò una manata di scudi ricci, che s'era fatti dal dattero a questo effetto, e il servitore, acceso di brama a quei pezzi luccicanti, si scordò di seguire la chinea fermandosi a raccogliere i danari. Ed essa di balzo entrò in casa, si spogliò rapidamente nel modo come la fata la aveva istruita.35

Invenzione artistica straordinaria da parte di Basile, quando descrive che la Zezolla era fornita di monete d'oro coniate nel Cinquecento con lo stemma di Spagna, per sfuggire alla trappola del servitore che si fermò a raccoglierle. Lo scrittore barocco, infatti, fece un riferimento storico in modo indiretto alla moneta della sua città Napoli, che in quel tempo era una delle città europee più grandi ed era la capitale del vicereame spagnolo.36

All'invenzione di Basile, che va parallelamente con la magia, non sfuggono i minimi dettagli nella descrizione, come quando la gatta o la colomba Zezolla fece un balzo veloce per rientrare in casa.

Venne la seconda festa nello stesso luogo senza dire chi l'organizzò. Si ripeterono le stesse cerimonie fatte nella prima festa. La ripetizione è una tecnica che è sempre presente nei racconti de Le mille e una notte che non s'esclude mai che Basile se ne influenzò come G. Boccaccio e Ariosto. «Venne l’altra festa e le sorelle, uscendo tutte adorne e galanti, lasciarono la disprezzata Zezolla al focolare. Ma immantinente essa corse al dattero, disse le parole solite ed ecco proromperne una schiera di damigelle, chi con lo specchio, chi con la boccetta d'acqua di cucuzza, chi col ferro per arricciare, chi col pezzo di rossetto, chi col pettine, chi con gli spilli, chi con le vesti, chi con collane e pendenti. E tutte si misero attorno a lei, e la fecero bella come un sole, e la collocarono in un cocchio a sei cavalli, accompagnato da staffieri e paggi in livrea. E si recò al medesimo luogo dell’altra volta, e aggiunse meraviglia nel cuore delle sorelle e fuoco nel petto del re».37

Il servitore incaricato di seguirla venne vinto da lei, per mezzo delle sue armi magiche, per la seconda volta, gettando lei davanti a lui una manata di perle e gioielli che lui non volle lasciar perdere.

Abili stratagemmi tessuti per fare sbalordire il seguace del re e per mantenere il cuore del re acceso, di ansia spinosa, per incontrare questa bella ragazza. Basile, per mostrare le sue capacità artistiche, prolunga la fiaba parlando di un terzo giorno di festa, in cui Zezolla arrivò in un corteo del tutto nuovo, vestita superbamente, che pareva una cortigiana arrestata al pubblico passeggio e attorniata dagli sbirri.38

In quest'ultima frase, c'è una contraddizione con la decenza della principessa Zezolla, Basile aggiunge un'immagine, a parere nostro, superflua quando scrisse cortigiana che vuol dire adulatrice in questo contesto. Ma che cosa intendeva Basile attribuendo alla sua Cenerentola questo aggettivo?

A nostro avviso ci sono diverse ipotesi: la prima che lui volle rimandare alla leggenda originale di Rodopì, che fu cortigiana, della storia della quale attinse gli elementi essenziali della sua fiaba. La seconda che lui volle rimandare all'uso di questa parola nella società rinascimentale in cui la parola ''cortigiana'' fu usata per riferire all'originalità di una donna colta e indipendente. Comunque la ragazza qui, sin dall'inizio fino alla fine, sentiamo che ha riserbo, pudore, intelligenza, saggezza e bellezza straordinaria in modo naturale.

Quantunque fosse l'intenzione di Basile, questa cortigiana incantò di più il re ed accese la meraviglia del pubblico. Continuano le meraviglie che danno sempre alla fiaba un senso di novità. Tre feste in cui il re volle scegliere la sua sposa, che aveva delle caratteristiche particolari. In queste feste si susseguirono le meraviglie, ogni volta che la bella ragazza sconosciuta appariva. Connessione di Zezolla a una fata, che le appariva sotto la forma di una colomba. Ella le forniva di arti magiche, le quali la rendevano una creatura straordinaria e le dava la capacità di trasformarsi da una ragazza umile, costretta ad essere reclusa nella cenere, in un'altra ragazza che attirò l'attenzione del re più delle altre, con la sua bellezza sfolgorante.

Come accadde nelle prime due volte: Zezolla fuggì con la sua carrozza che corse con velocità troppo alta in modo che il servitore che fu molto vicino a lei non riuscì a raggiungerla. Il destino volle che questa volta la ragazza agitata lasciò, un oggetto che avrebbe aiutato ad identificare chi sarebbe stata, cioé la scarpetta caduta dal piede.

Sull'invenzione di Basile, di quest'immagine ripetuta dopo in altre versioni di Cenerentola, scrisse Adalinda Gasparini: «Questa Gatta Cenerentola, in affanno e inseguita dal servitore, che perde la pianella e poi fugge in una carrozza tanto veloce che ormai vola, è l'archetipo della leggerezza nella fuga di tutte le Cenerentole future. L'immagine poetica e simbolica di Basile sarà determinante per caratterizzare tutte le Cenerentole, dalla Aschenputtel dei Grimm che con un balzo acrobatico sfugge al principe che la segue fino a casa dopo il ballo saltando una volta sulla piccionaia, un'altra sul pero. Sarà la leggerezza incredibile – proprio incredibile – di Cendrillon che calza una scarpetta di verre, che forse doveva essere di vair (di vetro, forse di vaio) e che correndo la lascia sulla scalinata del palazzo degno del Re Sole».39

Qui Basile ha ripetuto elementi essenziali della legenda di Rodopi che cercò di fuggire anche lei vedendo arrivare il faraone che la pregò di provare la pantofola che l'uccello glielo gettò in grembo.40

Un bel monologo interiore rivela una capacità straordinaria di Basile, quando ha raccontato come il re tenne tra le mani la scarpetta domandandosi «Se il fondamento è così bello, che sarà mai la casa? O bel candeliere, dove è stata infissa la candela che mi consuma! O treppiede della bella caldaia, dove bolle la mia vita! O bei sugheri, attaccati alla lenza d'amore con la quale ha pescato quest'anima! Ecco o vi abbraccio e vi stringo, e se non posso giungere alla pianta, adoro le radici; se non posso attingere i capitelli, bacio le basi! Voi già foste ceppi di un bianco piede, e ora siete tagliuola d'un cuore addolorato. Per virtù vostra, colei, che tiranneggia la mia vita, era alta un palmo e mezzo di più, e per voi cresce altrettanto in dolcezza questa mia vita, mentre vi guardo e vi possiedo!».41

In modo esagerato, in un'immagine piena di figure retoriche, le quali rivelano capacità straordinarie dell'autore, il re con il cuore addolorato per il fallimento di raggiungere la bella fanciulla, si lamentò con la scarpetta descrivendo, la sua bellezza e la sua armonia e assicurando che era così la scarpetta quanto la sua padrona.

Nella storia di «Rodopi» e quella de «la gatta Cenerentola» il ritrovamento dell'eroina è legato ad una scarpetta. Oltre alla fuga delle ragazze e le loro scarpette cadute che si ripetono in molte versioni, come ha già sostenuto Gasperini, l'immagine dell'ammirazione del re, con la scarpetta tra le mani, in modo che lui ordinò una ricerca accanita in tutto il reame della padrona della scarpetta, è rimasta sempre come elemento immutato nella maggior parte delle versioni di Cenerentola.

Gli avvenimenti della vicenda, come abbiamo già delineato, si svolgevano in un tempo e uno spazio indefiniti, il fatto che rende la fiaba aperta a qualsiasi modifica secondo il tempo in cui viene raccontata e secondo il pubblico a cui viene rivolta.

Il re, incantato da Zezolla, fece organizzare un banchetto in cui invitò tutte le femmine del reame; nobili e ignobili, ricche e povere, vecchie e giovani, belle e brutte e cominciò a provare la scarpetta a una a una. Ma non riuscì ad arrivare alla vera padrona della pianella essendo Zezolla assente a questo banchetto. Il re stava per disperare ma il destino lo fece decidere di organizzare un altro banchetto raccomandando a tutti i presenti di tornare il giorno dopo e di non lasciare nessuna femmina a casa. Indi la magia intervenne con le sue armi e spinse il padre di Zezolla a dire al re: «Io ho una figlia, ma sta sempre a guardare il focolare, perché è una creatura disgraziata e dappoco, non meritevole di sedere dove mangiate voi».42

Arrivò Cenerentola ed il re, a sua volta, vedendola «un potere magico lo fece avere l'impressione subito che fosse la ragazza che sognava. Sì venne alla prova della pianella, che, non appena fu apprestata al piede di Zezolla, si lanciò di per sé stessa, come il ferro corre alla calamita».43

La fiaba si è conclusa a lieto fine. Con l'aiuto della fata e le sue arti magiche Zezolla portò a termine l'impresa di Cenerentola e sconfisse le sue antagoniste Carmosina la matrigna e le sue brutte figlie le quali vedendo il re mettere la corona sul capo di Cenerentola, rimasero livide d'invidia. Il maestro della fiaba europea Basile ha concluso la fiaba, come faceva sempre, con un proverbio pronunciato dalle sorellastre davanti alla loro madre: «pazzo è chi contrasta con le stelle».44

In questo proverbio finale Basile ha enunciato il messaggio e la morale che voleva trasmettere ai lettori: che non si può mai contrastare le leggi del cielo che vengono applicate con giustizia assoluta premiando gli umili e punendo i malvagi. Queste leggi vengono applicati tramite forze sovrannaturali.

Zezolla afflitta dai soprusi di tutta la famiglia si rassegnò al destino di essere degradata in gatta Cenerentola, però le leggi del cielo le promisero altro destino inaspettato per la sua famiglia malvagia. Ella rinacque di nuovo dalle ceneri. La scelta, infatti, di questo nome per la la ragazza ''Cenerentola'' non fu inventato da Basile, così per caso, ma, a nostro parere, lui l'inventò rimandando da un lato, alla presenza della fanciulla sempre in mezzo alla polvere, da un altro lato che ella diventò regina dopo essere connessa alla cenere; così come la storia greca dell'uccello lggendario ''Phoinix'' che viveva 1461 anni e moriva bruciandosi nel suo nido per poi rinascere dalle sue ceneri.

E' veramente una fiaba scritta o raccontata ad un gran pubblico; chi la legge per divertimento e chi la legge per aver ammaestramento. È una fiaba tanto per gli adulti quanto per i bambini. Lo scrittore barocco ha elaborato la storia, che aveva udita da una voce viva, insieme alle immagini, frutto dalla sua fantasia, in un contesto pieno di espressioni vivaci e di frasi proverbiali.


Vardiello napoletano e l'origine arabo-orientale


Un'altra figura rappresentata in modo diverso nella raccolta di Basile è quella di Vardiello, lo sciocco che sin dall'inizio Basile presentò come «una vera bestia, dopo aver fatto cento cattivi servizi alla mamma, le perde un tocco di tela, e, volendo in sciocco modo riaverlo da una statua, diventa ricco».45

Facendo la nostra ricerca, abbiamo trovato che Vardiello napoletano è originariamente il Giufà siciliano, il giucca toscano e il Giuha l'arabo. La narrativa italiana popolare fu, fra le prime in tutto il mondo, ad essere influenzata dagli aneddoti del nostro Giuha, l'arabo che Al-Aqaad definì ''l'emiro dei ridicoli'' . Aggunse Al-Aqaad che i suoi aneddoti erano distribuiti tra una decina di sciocchi vissuti in diverse epoche a partire dal settimo secolo. Al-Aqaad sostenne che gli aneddoti di Giuha sono raccolti in diversi libri famosi, che rappresentano, in tutti i tempi, fonti essenziali di conoscenza proverbiali, fra cui «Il Canzoniere» di Abi-Alfarg Alasfahani, «Il Bian wa il Tabin» di Al-Gahiz e «Ayoun Al-Akhabar» di Ibn-Kotaibah. E delineò Al-Aqaad che i suoi aneddoti erano arrivati in occidente con la lettura di questi libri in lingua araba o tradotti nelle diverse lingue, nonché dalla voce viva degli arabi che capitarono in questi paesi.46

L'intellettuale italiano Vinicio Ongini era d'accordo anche lui con l'arabo Al-Aqaad quando assicura che «Giufà è un personaggio planetario che attraversa con estrema leggerezza confini, razze, religioni, lingue, culture, e generazioni diverse».47

La novellistica popolare nell'Italia centrale e meridionale vide una diffusione straordinaria della figura di origine araba di Giuha con diversi nomi alterati da una zona all'altra con trascrizione fonematica vicina al nome arabo: Giufà, Giuvà, Giucà in Sicilia, Jufa, Giuvale in Calabria, Giucca in Toscana e un nome nuovo tipicamente locale «Vardiello» in Napoli.

Una diffusione formidabile nelle terre che videro un'incisiva presenza araba soprattutto la Sicilia che era sotto il dominio arabo per 250 anni e dopo la riconquista dell'isola da parte dei Normanni, rimase la presenza degli arabi i quali la consideravano la loro patria.

Normalmente era la presenza del Giufà siciliano che rappresenta la prima figura del nostro Giuha «in quanto la fortunata diffusione delle sue storie è certamente anteriore alla più antica traduzione. Bisogna dunque supporre che la trasmissione dei testi sia stata garantita dalla tradizione orale […] Significativo è il fatto che alcune storie arabe di Guha ritornano nel ''Chichibio'' del Decamerone (1353), nel ''Bertoldino'' di G. C. Croce (1608), nel ''Cacasenno'' di A. Banchieri (1634), nel ''Vardiello'' del Pentamerone di G.B. Basile (1636)».48

Per meglio assicurare, l'origine araba del Giufà siciliano e di conseguenza di tutte le figure degli sciocchi nelle altre città italiane, portiamo le parole che Italo Calvino scrisse, nelle note che seguono le sue fiabe alla fine del suo libro, giustificando l'inserimento di fiabe siciliane nella sua opera, «fiabe italiane», e definendo l'esempio tipico dello sciocco: «Il gran ciclo dello sciocco, anche se non è fiaba, è troppo importante nella narrativa popolare anche italiana perché lo si lasci fuori, viene dal mondo arabo ed è giusto che scelga a rappresentarlo la Sicilia che dagli Arabi direttamente deve averlo appreso. L'origine araba è anche nel nome del suo personaggio: Giufà (talora Giuca, anche nei luoghi di dialetto albanese) lo sciocco a cui tutte finiscono per andare bene».49

Da quanto è detto si ha la convinzione che il nostro Giuha è il padre di tutte le figure simili, generalmente in molti paesi e specialmente in Italia. Quindi Vardiello è uno dei discendenti di Giuha ,che Basile scelse ,come protagonista, in due aneddoti , d'origine araba, che si trovano anche in opere di recente pubblicazione: nel 1875 il grande scrittore siciliano di fiabe Giuseppe Pitré, che visse tra il 1841 ed il 1916,ha offerto alla narrativa italiana una grande opera, attinta dalla tradizione popolare, '' fiabe, novelle e racconti popolari siciliani «scritta in quattro volumi, contengono racconti in tutti i dialetti della Sicilia .50 In questa opera l'autore si metteva nei panni di Boccaccio e Basile, servendosi di una vecchia narratrice analfabeta si chiama Agatuzza Messia, raccontava ampiamente di Giufà e dei suoi aneddoti trasmessi a voce da una generazione all'altra con varianti e riscontri di questi aneddoti fra cui i due che raccontò Basile del suo Vardiello, più di due secoli prima di lui, attingendoli dalla tradizione orale. Giuseppa Pitré stesso ha affermato, nella sua opera piena di aneddoti di Giufà, la presenza delle stesse particolarità della prima storia di Vardiello, come l'aveva trasmesso Basile; in Toscana sotto il titolo di'' Falchetto che diede da mangiare alla chioccia e si mise a sedere sulle sue uova».

Egli aggiunse, ancora e chiaramente dicendo: «Questa stessa storiella di Giucca che siede sulle uova per non farle raffreddare e perdere è pure in Sicilia. Vedi le mie fiabe, n. CXC: Giufà; 5 10; Giufà e la Hiocca. Anche Bertoldino, lontana la madre, va a sedersi sulle uova delle oche per tenerle calde e far nascere le paperine. Lo stesso fa Vardiello nel Cunto de li cunti (I, 4) del Basile».51

La narrativa del meridione fu densa di sedimenti culturali arabi e ci accumulò un gran numero di narrazioni, nei dialetti del sud, raccontate di bocca in bocca e dettate di bocca in libri. La seconda fiaba che Basile trattò nella storiella di Vardiello che vende la tela a una statua di gesso era d'origine araba ed era raccontata in Sicilia con il titolo di «Giufà e la statua du jissu». È la prima fiaba scelta da Italo Calvino fra le sei fiabe di Giufà e di cui scrisse nelle sue note: «Giufà e la statua di gesso da Giufà e la statua di ghissu, Casteltermni (Agrigento), raccolta da Giuseppe Lo Duca. Una delle più diffuse e perfette storie di sciocchi, con grande trovate da teatro: quella del parlar poco e quella del dialogo con la statua. Esiste quasi in tutti i cicli citati ed era già nella novella di Vardiello del Basile».52

Francesca Maria Corrao nella sua opera «Giufà il furbo, lo sciocco, il saggio», in cui ha accumulato settantuno fiabe suddivise in tre corpus: siciliano, arabo e turco, delinea che «le prime sette storie del corpus siciliano fra cui Giufà e la chioccia sono d'origine araba; così come i primi sette episodi della sezione araba si trovano nella tradizione siciliana attribuiti a personaggi stereotipi di Giufà».53


Basile sostituì Giufà con Vardiello


La storia di Vardiello nel libro di Basile è appunto la trascrizione di due fiabe aventi come protagonista un bambino analogo appunto al siciliano Giufà che ne leggiamo ''è un bambino molto ignorante, che parla per frasi fatte e che conosce soltanto una certa tradizione orale che gli venne trasmessa dalla madre. Nelle sue avventure si caccia spesso nei guai, ma riesce quasi sempre a uscirne illeso.54

Così siamo di fronte ad un bambino che rappresenta la continuità di Giuha che ne scrive il nostro intellettuale arabo Al-Aqaad che aveva un figlio con cui dialogava e discuteva, insegnandogli la sua arte e la sua filosofia come se lo preparasse per essere l'erede della sua arte.

Stando così le cose si va all'analisi che dobbiamo fare: le fiabe sono le stesse da un paese all'altro e sono entrate per tradizione orale per poi fare parte del patrimonio folkloristico. Secondo Calvino variano da fiaba a fiaba le misure e le qualità dell'intervento;55 quindi l'intervento di Basile trascrivendo le fiabe di Giufà sotto il titolo di Vardiello, è diverso dal suo intervento trattando la storia della Gatta Cenerentola, perché quando parla di Giufà, ossia di Vardiello vuol dire, scrivere racconti piacevoli. E ciò viene completamente d'accordo con il parere del nostro critico arabo Mohammed Ragab Al-Nagaar che definisce la forma artistica delle storie di Giuha come l'arte del racconto piacevole ossia gli aneddoti.56

Basile comincia la sua novella con un paragone, a nostro parere, superfluo, tra i diversi modi di vivere tra gli animali e l'uomo sottolineando che la natura non aveva dato agli animali la necessità di vestirsi e di spendere nel vitto:

«Invece, all’uomo, che ha ingegno, la natura non si è curata di dar simile comodo, perché egli sa da sé medesimo procacciarsi quel che gli bisogna. Ed è questa la cagione perché d'ordinario si vedono sprovvisti di ricchezze i sapienti, e ben provvista la gente bestiale: come potrete raccogliere del racconto, che son per farvi».57

Lo scrittore barocco preferisce premettere alla sua novella per attirare l'attenzione del lettore che c'è un fine educativo; nonostante che racconterà di uno sciocco. Basile s'approfitta dell'assurdità del comportamento di Vardiello prediletto per descrivere a briglia sciolta le gesta di questo bambino nato scemo, perciò, è incosciente di quello che deve fare e la povera madre sempre impaziente di fronte ai disastri creati da lui.

I fatti dell'episodio sono totalmente fantastici, del tutto improbabili: una madre che siccome deve allontanarsi dalla casa per una faccenda, chiede al figlio di prestare attenzione alla sua chioccia di «cui sperava di ottenerne una bella schiusa di pulcini e ricavarne buon profitto».58

Con una genialità artistica lo scrittore napoletano suscita la partecipazione dei suoi lettori e li porta a seguire le vicende dello sciocco Vardiello, che sin dalla risposta pronunciata da lui alla domanda della madre dicendo: «Lascia fare a questo uomo […] perché non hai parlato a sordo»59, si capisce che ci sarebbero delle avventure ridicole che Basile fa funzionare per disegnare il carattere comico del protagonista ridicolo.

Partita la madre con ingenuità di pensiero, lo sciocco figlio invece di fare attenzione alla chioccia, s'occupava delle sue sciocchezze, intanto la chioccia se ne andava spasseggiando fuori della camera. Con impetuosità ed incapacità di agire lui la colpì fino all'agonia.

Rovina senza rimedio ed incapacità di decidersi bene. Vardiello non sapeva che cosa faceva «affinché le uova, (su cui covava la chioccia ormai morendo), non si raffreddassero, si sbracò subito e si sedette sulla covata, ma premendola col deretano, la ridusse a frittata».60

Una serie di sciocchezze ben funzionate da Basile per assicurare l'idiozia assoluta di questo personaggio che reca sempre disgrazie a sé stesso ed alla povera madre. È veramente Vardiello l' eroe, di questa fiaba, che ha il talento della scemenza e dell'incapacità di riportare rimedio ai danni. Lui è un eroe, la cui antagonista è la sciocchezza stessa, causa essenziale dei disastri che contandoli, quel giorno, sulle dita «e pensando che, per aver commesso eccessi d'asineria, […] prese ferma risoluzione di non lasciarsi trovare vivo dalla madre».61

Come un eroe, di fiaba, disarmato, cercando di sfuggire al castigo della madre, mangiò le noci coniate di cui la madre avvertì di essere veleno, poi si ficcò dentro il forno. Qui arrivò l'aiuto da parte della madre intelligente che sapeva bene quant'è la sciocchezza di suo figlio. Tornò a casa e trovando così le cose, invece di punirlo, cercò di calmarlo. Gli tolse dal cervello la paura delle noci coniate che non erano veleno, lo carezzò e riuscì a levarlo dallo stato di malinconia dandogli altre noci coniate.

Così siamo di fronte a trasgressioni e distrazione, tutte inventate da Basile, che voleva presentare un suo personaggio letterario, e la figura di una madre che sa abilmente domare questo bambino-bestia e salvarlo.

Nella seconda parte della storia di Vardiello l'invenzione artistica di Basile raggiunse il culmine quando seppe ben funzionare l'intelligenza e l'astuzia della madre che seppe cogliere perfettamente l'occasione per impadronirsi degli scudi trovati nella statua di gesso a cui Vardiello lasciò la tela credendo di aver trovato quello che andava cercando, siccome la madre gli ammonì «di non trattare il negozio con persone di troppe parole'' e il giorno dopo chiedendogli i soldi non rispose, Vardiello ''raccattò un sasso e lo scagliò di tutta forza proprio in mezzo allo sterno […] gli apparve agli occhi una pignatta piena di scudi d'oro, che egli levò con le sue mani e si die a una corsa a scavezzacollo verso casa sua».62

Alla madre, di gran giudizio, come Basile la definisce e presenta, non mancò la capacità di intuire quello che avrebbe fatto lo scemo Vardiello vedendo monete d'oro simili a quelle trovate. La sera stessa ella, per farlo dimenticare e per confondere le sue idee, «dalla finestra di sopra gli fece grandinare addosso, per oltre mezz'ora, più di sei rotoli d'uva passa e di fichi secchi».63

Il figlio nato scemo accolse con grida festanti ciò che fece la mamma credendo che fossero caduti dal cielo i fichi e le uve come una pioggia.

Fu veramente una pioggia inventata, dalla madre. Vardiello si presentò alla corte che «lo sottopose a disamina» sulla pignatta piena di scudi d'oro e «lui rispose»: Li ho trovati in un palazzo, nel corpo di un uomo muto, in quel giorno che ci fu pioggia di uva passa e di ficchi secchi.64

Egli, con ingenuità, ha detto la verità, però alla Corte, il suo detto sembrava sciocchezza e stupidità, che erano sufficienti che il giudice si convinse che fosse matto e «decretò che fosse mandato all'ospedale».65

Così il lieto fine per la madre che diventò ricca per opera dell'ignoranza di Vardiello, del suo buon giudizio, della sua astuzia e della sua intelligenza. E' vero che Basile ha attinto le storielle originali dalla tradizione orientale, come abbiamo già sottolineato, però le ha adattate al suo tempo, al suo ambiente nonché ai suoi lettori. Con la sua invenzione artistica ha aggiunto altre immagini, ha approfondito gli avvenimenti, il modo di fare dei personaggi, servendosi di espressioni, di modi di dire e di frasi proverbiali di cui sono ricche le sue fiabe. Non si può negare assolutamente il gran merito di Benedetto Croce che tradusse il libro di Basile in italiano comprensibile e arricchì la letteratura italiana con un grande libro, di fiabe, di lettura piacevole e di fini educativi, esattamente, come l'ebbe scritto Basile.


*Dipartimento di Lingua Italiana
Facoltà di lingue ''Al-Alsun''
Università di Ain-Shams, Il Cairo, Egitto



Da: Philology, Literature & Linguistics Series, 68 June 2017, pp. 129-160.


Note


1.- Stith Thompson, La fiaba nella tradizione popolare, il Saggiatore,Firenze p.395. 
2.- Benedetto Croce, Storia dell'età barocca in Italia, Milano, 1993, p.546.
3.- Ivi, pp.546-547.
4.- Cfr. Italo Calvino, Sulla fiaba, Milano,1995, p.31
5.- Vittorio Imbriani, Il gran Basile,nel «Giornale napoletano di filosofia e lettere» del 1875
6.- Rita Italiano,la repubblica.it, 6 giugno 2005 
7.- Italo Calvino, op. cit, p.32
8.- Nicoletta Morra in «la fiaba barocca studi su Basile e Perrault» a cura di Anna Maria Pedullà, edizioni scientifiche italiane, Napoli, 1999, p.10
9.- Cfr. ivi, p.11
10.- Cfr. Teresa Buongiorno, Enciclopedia dei ragazzi, 2005 
11.- Idem
12.- Nicoletta Morra, op. cit, p.10
13.- Davide Cornieri, Novelle italiane, Il Seicento. Il settecento, Milano,1982, p.31 
14.- Alexander Haggerty Krappe nel suo libro «The science of Folklore», tradotto in arabo da Roshedy Saleh, il Cairo,editore casa del libro arabo, 1976, sostiene che il Pentamerone di Giambattista Basile (i cinquanta racconti), risale al diciassettesimo secolo e si considera la prima raccolta delle fate. p.33
15.- Giambattista Basile, Il Pentamerone ossia la fiaba delle fiabe, traduzione di Benedetto Croce, Bolzano,2017, p.25
16.- A.Haggerty scrive «E' notevole in questi racconti l'uso delle tecniche usate ne» Le Mille e Una notte «soprattutto quella del racconto dei racconti». Haggerty, op. cit, p. 538 
17.- Sayed Karim, Lo scriba egizio, il Cairo, Organizzazione Generale Egiziana del libro1997
18.- Idem.
19.- (Uno dei faraoni della quarta dinastia egizia governò tra il 2467-2472) a.c 
20.- Il faraone che fondò la XVIII dinastia e governò tra 1525-1550 a.c. 
21.- Cfr. Erodoto, Storie, libro II,134-135
22.- Claudio Eliano, Storie varie, a cura di Nigel Wilson,traduzione dal greco di Claudio Bevegni, Adelphi, Milano 1996
23.- Alan Gardiner, La civiltà egizia, Einaudi,1971, p.326 
24.- Le diverse versioni, Cenerentolatorino.com
25.- Giambatista Basile, op. cit, p.75 
26.- Idem
27.- Ivi, pp.76-77 
28.- Idem 
29.- Ivi, p.77 
30.- Idem
31.- Maria Vittoria Botta in «La fiaba barocca studi su Basile e Perrault» a cura di Anna Maria op.cit, p.24
32.- Giambattista Basile, op. cit, p.78 
33.- Cfr.www.cavernacosmica.com 
34.- Giambattista Basile,op. cit,p. 78 
35.- Ivi,p.79
36.- /napoli/storia/Fasi Storia.htm Cfr. www.danpiz.net 
37.- Idem 
38.- Ivi,p.80
39.- www.alaadin.it
40.- Cfr. Aldo Troisi, Favole e racconti dell'Egitto Faraonico, Fabbri Editori, Milano, 2001, p. 32
41.- Giambattista Basile, op. cit, p.80 
42.- Ivi, p. 81
43.- Idem 
44.- Idem
45.- Giambattista Basile, Il Pentamerone ossia la fiaba delle fiabe, op. cit, p. 61
46.- Cfr.Abbas Mahmoud, Al-Aqaad, Guha aldahk-Albaki, Hendaui editore, il Cairo, 2012, pp. 8,115,116,117
47.- Vincio Ongini, Quaderni di sfoglia libro, la biblioteca multietnica, Editrice bibliografica, Milano, 1991, p.33
48.- Francesca Maria Corrao, Giufà il furbo, lo sciocco, il saggio, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1991. pp.22-23
49.- Italo Calvino, Fiabe italiane, Einaudi,Torino, 1956,nota numero 190, p.440 
50.- Cfr. Italo Calvino, Sulla fiaba, op. cit, p.48
51.- Cfr. Novelle popolari toscane di Giuseppe Pitré. www.weblice.it 
52.- Italo Calvino, Fiabe italiane, op.cit, nota n.190, p.440.
53.- Francesca Maria Corrao,op.cit,p.28
54.- Cfr. Marcello Chiarenza con Carlo Rossi, Giuf'à la scienza della scemenza, Groggia teatro
55.- Cfr. Italo Calvino, Fiabe italiane, Einaudi,Torino, 1975, p.xxv
56.- M.Ragab Al-Nagaar, Giuha l'arabo, il mondo della conoscenza, Kwait,ottobre 1978, p.8
57.- G.Basile, La fiaba delle fiabe, traduzione di B.Croce, op. cit, p.61 
58.- Idem
59.- Idem 
60.- Ivi, p. 62 
61.- Ivi,p.63 
62.- Ivi, p. 65 
63.- Ivi, p. 66 
64.- Idem 


Bibliografia Libri italiani:


- Basile Giambattista, Lo cunto de li cunti, a cura di Ezio Raimondi, Torino,1976.
- Basile Giambattista, Il Pentamerone ossia la fiaba delle fiabe, traduzione di Benedetto Croce, Bolzano,2017
- Brunner Emma, Miti e leggende dell'antico Egitto, Newton Compton Editore,2005. 
- Calvino Italo, Fiabe italiane, Einaudi,Torino,1956.
- Calvino Italo, Sulla fiaba, Milano,1995.
- Cornieri Davide, Novelle italiane del Seicento, Milano,1982.
- Corrao Francesca Maria, Il furbo lo sciocco il saggio, Arnaldo Mondadori editore,Milano, 1991.
- Croce Benedetto, Storia dell'età barocca in Italia, Milano,1993
- De Simone Roberto, Lo cunto de li cunti o pentamerone, Einaudi,Torino, 2002.
- Eliano Claudio, Storie varie a cura di Nigel Wilson, trad. dal greco di Claudio Bevegni, Adelfi, Milano,1996.
- Erodoto, Storie II,134-135 in rete su [1] e su [2] o su perseus (En).
- Ferroni. G., Profilo storico della letteratura ltaliana. Einaudi,Milano,1991.
- Martelli Matteo, Il libro dello sciocco, i racconti di Giufà nella tradizione popolare, Metauro edizione, Pesaro 2011.
- Marburgo Giuseppe, Le belle novelle italiane (dalle origini ai giorni nostri), edizioni scolastiche Mondadori,1959.
- Napolitano Stefano, Giambattista Basile, La gatta Cenerentola e altre fiabe, Labrini Collana narrativa,Napoli, 2005.
- Ongini Vincio, Quaderni di sfoglialibri, la biblioteca multietnica, edizione speciale per Lampi di stampa, editrice bibliografica,Milano 19991.
- Pedullà Anna Maria, La fiaba barocca, studi su Basile e Perrault, edizioni scientifiche italiane,Napoli, 1999.
- Pitré Giuseppe, Novelle popolari toscane, Barbera, Firenze,1885. 
- Rak Michele, Lo cunto de li cunti, Garzanti,Milano, 1986.
- Rak Michele, Logica della fiaba, Bruno Mondadori,Milano, 2005.
- Razetti, M., Dal testo alla storia dalla storia al testo, Paravia,Torino,1999. 
- Strabone, Geografia.LibroXVII, 33 su Locus Curtius (En).
- Troisi Aldo, Favole e racconti dell'Egitto faraonico, Fabbri editori, Milano,2001.

Riviste:

- Corrao, Francesca Maria, Serve ancora parlare di Giufà, Dialoghi Mediterranei, n.8,luglio 2014.
- Génin, Francois, Les contes de Perrault, l'Illustration, primo marzo 1856.
- Maschietti Maura,Vita ed opera di Giambattista Basile cortigiano e fiabista, letteratura impura,24 aprile 2011.


Giornali:

-Garrone Nico, «Le mille facce di Giufà», La Repubblica.it,10 novembre 1997.
- Imbriani Vittorio, «Il gran Basile», Giornale napoletano di filosofia e lettere, luglio 1875. 
- Italiano Rita, «E Croce salvò quella bestia di Vardiello», La Repubblica.it,06 giugno 2005.

Enciclopedie:

- Bufacchi, Emanuela in Enciclopedia dei ragazzi, 2005.
- Corso, Raffaele in Enciclopedia italiana,1933.
- Mark Joshua. J, «The egyptian Cinderella», in Ancient History Enciclopedia, Story Debunked, marzo 2017.

Siti internet:

- Bartalotta, Enrica,www.Siciliafan.it.
- Gasparini, Adalinda, Fiabe italiane dialettali e alloglotte, scelte, trascritte, download with Dapdap Link checher setting.
- Giannone, Eugenio saggistica in www.Villachincana.it. 
-  https//tanogabo.com
- Ticli Dino, Giufà, letture per giovani,www.letturegiovani.it. 
- www.danpiz.net/napoli/storia/Fasi Storia.htm:\\www.Palermoweb.com. 
- www.webalice.it (Novelle popolari toscane di Giuseppe Pitré)

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