Woody Allen | A proposito di niente. Autobiografia | La Nave di Teseo
Traduzione di Alberto Pezzotta Nato a Brooklyn nel 1935, Woody Allen ha iniziato la sua carriera nello spettacolo a sedici anni, sc...
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Traduzione di Alberto Pezzotta
Nato a Brooklyn nel 1935, Woody Allen ha iniziato la sua carriera nello spettacolo a sedici anni, scrivendo battute per un giornale di Broadway, e ha continuato a scrivere per la radio, la televisione, il teatro, il cinema e il New Yorker. Ha lasciato la stanza dello scrittore decenni fa per diventare comico nei locali notturni e, da allora, un regista conosciuto in tutto il mondo.
Durante sessant’anni nel cinema, ha scritto e diretto cinquanta film, recitando in molti di essi. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali, diverse statue sono state erette in suo onore (qualcosa di cui non riuscirà mai a capacitarsi) e i suoi film sono stati studiati nelle scuole e nelle università di tutto il mondo.
In A proposito di niente, Allen racconta dei suoi primi matrimoni, con una fiamma della giovinezza e poi con l’amata e divertente Louise Lasser, che evidentemente continua ad adorare. Racconta anche della sua storia e dell’amicizia eterna con Diane Keaton. Descrive la sua relazione personale e professionale con Mia Farrow, che ha dato vita a film divenuti classici fino alla loro burrascosa rottura, per la quale l’industria dei tabloid ancora li ringrazia. Afferma di essere stato il più sorpreso di tutti quando a 56 anni è iniziata una relazione romantica con la ventunenne Soon-Yi Previn, diventata una storia appassionata e un matrimonio felice che dura da oltre ventidue anni.
Ironico, pienamente sincero, pieno di guizzi creativi e non poca confusione, un’icona della cultura mondiale racconta, non richiesto, la propria storia d’amore.
Woody Allen
A proposito di niente
Autobiografia
[Estratto]
Come il giovane Holden, non mi va di dilungarmi in tutte quelle stronzate alla David Copperfield, anche se in questo caso i miei genitori magari possono essere un soggetto più interessante del sottoscritto. Mio padre, per esempio: nato a Brooklyn quando era ancora tutta campagna, raccattapalle per i Brooklyn Dodgers, giocatore di biliardo, bookmaker; un ebreo piccolo di statura ma che non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno, e che sfoggiava camicie sgargianti e capelli imbrillantinati pettinati all’indietro alla George Raft. Non aveva frequentato le superiori, si era arruolato in marina a sedici anni, in Francia aveva fatto parte di un plotone di esecuzione, fucilando un commilitone che aveva violentato una ragazza del posto. Tiratore scelto pluridecorato, gli piaceva sparare, e andò in giro con una pistola fino al giorno in cui morì, con tutti i suoi capelli ancora in testa, anche se grigi, e dieci decimi di vista. Una notte, durante la Prima guerra mondiale, la sua nave venne affondata al largo di qualche costa europea. Annegarono quasi tutti, tre si salvarono raggiungendo la riva a nuoto, affrontando le gelide acque dell’Atlantico. Lui era uno di loro. Se ci fu un momento in cui rischiai di non nascere, fu quello. Poi la guerra finì. Suo padre, che aveva fatto qualche soldo, lo aveva sempre viziato, preferendolo spudoratamente a quei mentecatti dei fratelli. Non uso la parola a caso. Da piccolo, sua sorella mi sembrava una microcefala tipo Freaks. Suo fratello, un mollaccione pallido dall’aria degenerata, ciondolava per le strade di Flatbush vendendo giornali, finché si dissolse nel nulla. Così mio nonno dà i soldi al suo figlio preferito, il marinaio, per comprarsi una bella macchina, con cui quello va a zonzo per l’Europa postbellica. Quanto torna a casa, il vecchio ha aggiunto qualche zero al suo conto in banca e fuma sigari La Corona. È l’unico ebreo che fa il rappresentante di una grossa ditta di caffè. Mio padre gli dà una mano e un giorno, mentre trascina dei sacchi, passa davanti a un tribunale da cui sta uscendo Kid Dropper, un noto gangster dell’epoca. Quando Kid sale su una macchina, un certo Louie Cohen vi spara dentro quattro colpi, il tutto davanti agli occhi di mio padre, il quale me lo raccontò varie volte, a mo’ di favola della buonanotte, molto più divertente di quelle tradizionali a base di leprotti e coniglietti.
Intanto mio nonno, cercando di diventare un vero capitalista, si compra un’agenzia di taxi e un bel po’ di sale cinematografiche, tra cui il Midwood Theater, dove passerò gran parte della mia infanzia, in fuga dalla realtà – ma questo avverrà più avanti. Prima dovevo nascere. Purtroppo, prima che questo succedesse, il padre di mio padre, in preda all’euforia, investì sempre di più a Wall Street – e potete immaginare come andò a finire. Un famigerato giovedì il mercato azionario fece patatrac, e mio nonno fu ridotto all’istante alla povertà più nera. Taxi e sale cinematografiche scompaiono, e anche i boss del caffè si buttano dalla finestra. Mio padre, dovendo improvvisamente occuparsi del proprio fabbisogno calorico, si ingegna: fa il tassista, gestisce una sala da biliardo, scuce quattrini a qualche pollo e fa l’allibratore. D’estate se ne va a Saratoga per gestire gli equivoci interessi ippici di Albert Anastasia. Da lì un’altra serie di favole della buonanotte. Quanto gli piaceva quella vita. Abiti eleganti, soldi in tasca, belle donne. E un bel giorno incontra mia madre. Come abbia potuto mettersi insieme a Nettie è un mistero pari a quello dei buchi neri. Due persone che non c’entravano niente una con l’altra, come il protagonista di Bulli e pupe e Hannah Arendt; non c’era nulla su cui andassero d’accordo, a parte Hitler e le mie pagelle. Eppure, malgrado i massacri verbali, rimasero sposati per settant’anni – giusto per farsi dispetto, immagino. Ciò nonostante, sono sicuro che a loro modo si amassero – in un modo forse noto solo ad alcune tribù di cacciatori di teste del Borneo.
A difesa di mamma, devo dire che Nettie Cherry era una donna meravigliosa: brillante, gran lavoratrice e pronta a sacrificarsi. Era fedele, amorevole e gentile ma, diciamolo, non era una gran bellezza. Quando anni dopo ho detto che mia madre assomigliava a Groucho Marx, tutti hanno pensato che scherzassi. Morì a novantasei anni, e negli ultimi tempi soffriva di demenza senile. Pur tra i deliri, conservò fino all’ultimo la sua abilità di lamentarsi, che aveva elevato a forma d’arte. Quanto a mio padre, arzillo oltre i novant’anni, non lasciò mai che le preoccupazioni gli rovinassero il sonno. Né che qualunque tipo di pensiero gli turbasse la vita diurna. La sua filosofia si riassumeva nella massima “Quando c’è la salute c’è tutto”, essenziale come un biglietto in un biscotto della fortuna, ma più profonda di gran parte del pensiero occidentale. E lui di salute ne aveva da vendere. “A me non mi preoccupa niente,” si vantava. “Sei troppo stupido perché qualcosa ti possa preoccupare,” cercava pazientemente di spiegargli mia madre. Mamma aveva cinque sorelle, una più brutta dell’altra – e lei verosimilmente le batteva tutte. Lasciatemelo dire: la teoria freudiana secondo cui noi uomini desideriamo inconsciamente uccidere nostro padre e sposare nostra madre casca miseramente nel caso della mia genitrice.
Purtroppo, anche se mia madre era un genitore molto migliore, più onesto, responsabile e maturo rispetto a quel donnaiolo dalla morale discutibile che era mio padre, era lui quello a cui volevo più bene. Come tutti, del resto. Immagino perché era un tipo affabile, più affettuoso e disposto a manifestare i suoi sentimenti, mentre lei era inflessibile. Era lei quella che impediva alla famiglia di andare a rotoli. Teneva la contabilità di un negozio di fiori. Si occupava della casa, faceva da mangiare, pagava le bollette e metteva il formaggio nelle trappole per i topi, mentre mio padre viveva al di sopra dei suoi mezzi e mi infilava in tasca biglietti da venti dollari mentre dormivo.
Quelle poche volte che la fortuna gli sorrideva, era festa grande per tutti. Papà giocava alla lotteria clandestina ogni santo giorno: era quanto di più simile all’osservanza di una religione ci fosse nella sua vita. E, che vincesse cento dollari o uno solo, li spendeva tutti prima di tornare a casa. In che cosa? Be’, vestiti e altri generi di prima necessità, come palle da golf truccate da usare con i suoi amici. In ogni caso i primi beneficiari eravamo io e mia sorella Letty. Ci viziava con la stessa munificenza che suo padre aveva riservato a lui. Per esempio, a un certo punto mio padre lavorava di notte sulla Bowery, come cameriere – niente stipendio, solo mance. Eppure ogni mattina al mio risveglio – allora andavo alle superiori – trovavo cinque dollari sul comodino. Gli altri ragazzi che conoscevo avevano una paghetta settimanale di cinquanta centesimi, un dollaro al massimo. E io avevo cinque dollari al giorno! In cosa li spendevo? Roba da mangiare, attrezzi da illusionista, oppure me li giocavo a carte o ai dadi.
Ero diventato un prestigiatore dilettante perché non c’era niente che amassi più dell’illusionismo. Mi era sempre piaciuto tutto ciò che richiedeva isolamento, come esercitarsi nei giochi di prestigio, suonare uno strumento o scrivere; era un modo per evitare di avere contatti con gli altri esseri umani, che non mi piacevano né mi ispiravano fiducia – senza che ci fosse un motivo particolare. Dopo tutto ero circondato da un parentado affettuoso, che era sempre stato gentile. Ma era come se ci fosse in me qualcosa di abietto. Nel frattempo, me ne stavo da solo con le mie monete e le mie carte, imparando a manipolare il mazzo, a fingere di mescolarlo e di tagliarlo, a distribuire le carte dal basso e nasconderle tra le mani. In ogni caso, un essere abietto come me capì in fretta che, se potevo estrarre un coniglio dal cilindro, potevo anche barare a poker. Avendo ereditato da mio padre i geni della fraudolenza, presto mi trovai a spennare polli, distribuire le carte che volevo io e intascare le paghette di tutti i miei coetanei.
Ma non intendo dilungarmi oltre sul mio passato di piccolo farabutto. Vi stavo raccontando dei miei genitori e non sono ancora arrivato al punto in cui mamma dà alla luce la sua piccola canaglia. Mio padre se la spassava, e mia madre – costretta a fare fronte ai problemi della sopravvivenza quotidiana – era tutta casa e lavoro. Era una donna intelligente ma non certo un’intellettuale – e sarebbe stata la prima ad ammetterlo, fiera com’era del suo “buon senso”. In tutta franchezza, la trovavo rigida e opprimente, ma era perché voleva che combinassi qualcosa. A cinque o sei anni feci un test di intelligenza: non vi dirò il risultato, ma mia madre ne rimase impressionata. Le raccomandarono di mandarmi a una scuola speciale per bambini plusdotati, l’Hunter College, ma si trovava a Manhattan, e il tragitto in metropolitana da Brooklyn era troppo oneroso per mia madre e mia zia, che si alternavano ad accompagnarmi. Così tornai alla Public School 99, dove i primi a essere ritardati erano gli insegnanti. Ho sempre odiato tutte le scuole, e probabilmente non avrei ricavato nulla neanche dall’Hunter College, se ci fossi rimasto
Mia madre non faceva che vessarmi: con un QI così alto, come potevo essere un tale asino? Un esempio: alle superiori avevo fatto due anni di spagnolo. Quando andai alla New York University, riuscii a iscrivermi al corso di spagnolo per principianti assoluti. E ciò nonostante venni bocciato.
In ogni caso, l’intelligenza di mia madre non si estendeva alla cultura, e così sia lei sia mio padre, che non erano mai andati oltre il baseball, il pinnacolo e i film di Hopalong Cassidy, mai una sola volta mi portarono a teatro o in un museo. La prima volta che andai a vedere uno spettacolo a Broadway avevo diciassette anni; e scoprii l’arte quando marinavo la scuola e avevo bisogno di stare in un posto caldo: i musei erano gratis o costavano poco. L’unico libro che mi accompagnò nella mia crescita fu Le gang di New York di Herbert Asbury, che apparteneva a mio padre: mi trasmise il fascino dei criminali e delle loro imprese. I nomi dei gangster mi erano familiari come quelli degli sportivi lo erano alla maggior parte dei ragazzi della mia età. Non che non conoscessi i nomi dei giocatori di baseball, ma Gyp The Blood, Greasy Thumb Jake Guzik e Tick-Tock Tannenbaum erano un’altra cosa. E conoscevo anche le stelle del cinema, grazie a mia cugina Rita, che tappezzava le pareti di camera sua con le foto a colori di “Modern Screen”. Tornerò a parlare di lei in quanto illuminò enormemente i miei primi anni, e per questo si merita il debito spazio. Ma oltre a Bogart e Betty Grable, al numero di vittorie di Cy Young, al numero di punti battuti a casa da Hack Wilson e al nome del lanciatore del Cincinnati con il maggiore numero di no-hitters, sapevo perché il killer Abe Reles era stato soprannominato “il canarino che cantava ma non sapeva volare”, che fine aveva fatto Owney Madder e perché l’arma preferita di Pittsburgh Phil Strauss era un punteruolo da ghiaccio.
A parte Le gang di New York, la mia biblioteca consisteva solo di fumetti. E non lessi nient’altro fino a sedici o diciassette anni. I miei eroi letterari non erano Julien Sorel, Raskol’nikov o gli zotici della contea di Yoknapatawpha; erano Batman, Superman, Flash Gordon, Namor e Hawkman. Oltre a Paperino, Bugs Bunny e Archie Andrews. Gente, state leggendo l’autobiografia di un misantropo ignorante e patito di gangster; di un solitario incolto che se ne stava davanti a uno specchio a tre ante a fare esercizi con un mazzo di carte per nascondere un asso di picche nel palmo della mano, renderlo invisibile da qualunque angolazione e gabbare qualche ingenuo. Certo, alla fine venni travolto dalle massicce mele di Cézanne e dai piovosi boulevard di Pissarro ma, ripeto, solo perché bigiavo e avevo bisogno di un riparo in quelle gelide mattine invernali. A quindici anni venni ammaliato da Matisse e Chagall, da Nolde, Kirchner e Schmidt-Rottluff, da Guernica e dagli immensi e caotici Pollock, dal trittico di Beckmann e dalle nere sculture di Louise Navelson. Pranzavo alla caffetteria del MOMA e poi scendevo nella saletta sottostante a vedere qualche classico. Carole Lombard, William Powell, Spencer Tracy. Di certo meglio del muso inacidito della professoressa Schwab che chiedeva la data dello Stamp Act o la capitale del Minnesota. A seguire: bugie a casa e a scuola il giorno dopo, frenetici sotterfugi, giustificazioni contraffatte e inevitabilmente smascherate, rabbia dei genitori. E il tormentone: “Con quel quoziente di intelligenza che ti ritrovi!” Che non era così alto, cari lettori, anche se a sentire mia madre avrei dovuto essere capace di spiegare la teoria delle stringhe. Ma lo vedete dai film che ho fatto: alcuni sono divertenti, ma nessuna delle mie idee sarà mai la base di una nuova religione.
E poi – non mi vergogno ad ammetterlo – non mi piaceva leggere. Al contrario di mia sorella, ero un ragazzo pigro che non provava alcun piacere a immergersi nei libri. E perché avrei dovuto? La radio e i film erano molto più elettrizzanti. Erano meno esigenti e più coinvolgenti. A scuola non avevano la minima idea di come far amare la lettura. I libri e le storie che sceglievano con tanta cura erano tediosi, stupidi e sterili. Non c’era nulla di paragonabile a Plastic Man o a Capitan Marvel. Pensate che un ragazzino in piena tempesta ormonale (anche in questo caso, alla faccia di Freud, non ho mai avuto una fase di latenza), cui piacevano i film di gangster con Bogart e Cagney e le bionde sexy e pettorute, si potesse appassionare al Dono dei magi di O. Henry? Un racconto in cui la protagonista femminile vende i suoi capelli per comprare la catena di un orologio al maritino, e lui vende il suo orologio per comprarle un assortimento di pettini? L’unica morale che ne ricavavo era che è sempre meglio regalare soldi. A me piacevano i fumetti, per quanto elementare fosse la loro prosa; e quando più tardi mi iniziarono a Shakespeare, me lo inflissero in modo tale da desiderare di non udire più per il resto della vita espressioni come “meco indulgenti” e “lagrime generose”.
In ogni caso, cominciai a leggere solo alla fine delle superiori, quando avevo gli ormoni in subbuglio e iniziavo a notare le ragazze con i capelli lunghi e lisci, niente rossetto e poco trucco, che andavano in giro con maglioni a dolcevita neri, gonne e collant dello stesso colore e grosse borse di pelle, brandendo copie della Metamorfosi di Kafka con annotazioni ai margini tipo “Sono d’accordo” o “Cfr. Kierkegaard”. Per quanto potesse essere irrazionale, erano loro a conquistare il mio cuore e la mia carne e, quando chiedevo se volevano andare al cinema o a vedere una partita di baseball, e mi sentivo rispondere che preferivano ascoltare Segovia o vedere una cosa di Ionesco off-Broadway, dopo un silenzio imbarazzante replicavo: “Possiamo risentirci domani?” e mi precipitavo a cercare chi fossero Segovia o Ionesco. Va detto che queste signorine non aspettavano con ansia il nuovo numero di Capitan America o neanche il nuovo Mickey Spillane, l’unico poeta che fossi in grado di citare.
Quando alla fine ce la feci a uscire con una di queste piccole, incantevoli bohémiennes, fu un’esperienza scioccante per entrambi. Per lei, perché dopo qualche minuto aveva capito di essere stata incastrata da un ignorante che sembrava non avere mai letto Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane. E per me, perché mi rendevo conto di essere una capra e, se mai speravo di baciare quelle labbra prive di rossetto o di vedere quella ragazza un’altra volta, dovevo immergermi in qualcosa di più sostanzioso di Un bacio e una pistola. Non potevo cavarmela con aneddoti su Lucky Luciano e Rube Waddell. Dovevo darmi un’infarinata di Balzac, Tolstoj e Eliot, in modo da reggere la conversazione e non dover improvvisamente accompagnare a casa la ragazza in questione dopo che aveva detto di essere stata colpita da un attacco di febbre gialla. Nel frattempo, sarei finito da Dubrow’s a piangermi addosso con gli altri miseri che avevano ricevuto un due di picche del sabato sera.
Ma queste débâcle erano ancora a venire. Adesso che vi siete fatti un’idea dei miei genitori, dirò qualcosa della mia unica sorella. Dopodiché tornerò indietro e mi deciderò a nascere, così che il racconto possa davvero partire.
Letty ha otto anni meno di me. Naturalmente, quando stava per venire al mondo, i miei genitori mi prepararono nel solito modo, quello più sbagliato: “Quando nascerà tua sorella, tu non sarai più il centro dell’attenzione. Tu non riceverai più regali, lei invece sì. Tutti noi ci dovremo concentrare su di lei e i suoi bisogni, e tu non sarai più il primo nome in cartellone: rassegnati.” Qualunque altro ragazzino di otto anni sarebbe stato un po’ turbato di fronte alla prospettiva di essere improvvisamente messo da parte a favore di un nuovo arrivato. Ma, anche se volevo un gran bene ai miei genitori, sapevo che erano un paio di dilettanti senza alcuna predisposizione per la puericoltura, e che le loro cupe profezie erano aria fritta. E infatti fu così. Penso che vada ascritto a loro merito il fatto che, anche se recitavano la parte delle Cassandre, io sapevo benissimo che non mi avrebbero mai abbandonato e si sarebbero occupati del mio benessere e della mia felicità. Non ebbi smentite.
Nel momento in cui guardai dentro la culla, fui conquistato dalla mia sorellina. La amai, aiutai a crescerla, le feci scudo dagli attriti tra i miei genitori, che potevano assumere proporzioni epiche partendo da questioni banali – una discussione sul gefilte fish poteva generare una battaglia degna di Omero. Comunque io giocavo con Letty e spesso me la portavo dietro quando uscivo con gli amici. Loro la trovavano carina e intelligente, e noi due andavamo d’amore e d’accordo. Mi viene in mente una lettera che mi scrisse Groucho Marx, con cui avevo finito per stabilire rapporti amichevoli grazie a Dick Cavett – ne riparleremo. Bene, quando morì Harpo, scrissi a Groucho, e lui mi rispose che in tutti quegli anni lui e Harpo non avevano mai litigato né si erano presi a male parole. Lo stesso posso dire io di mia sorella, che oggi produce i miei film.
Ma adesso sono pronto per nascere. Finalmente faccio il mio ingresso nel mondo. Un mondo in cui non mi sarei mai sentito a mio agio, che non avrei mai capito, che non avrei mai accettato o perdonato. Allan Stewart Konigsberg, nato il 1° dicembre 1935. A dire il vero nacqui il 30 novembre, quando era quasi mezzanotte, e i miei genitori spostarono la data, in modo che potessi cominciare dal primo giorno del mese. Non ne ho ricavato alcun vantaggio, e avrei preferito che mi avessero lasciato di che vivere di rendita. Se ne parlo è solo perché, per una di quelle ironie della sorte prive di qualunque significato, otto anni dopo mia sorella nacque nello stesso giorno. Non che se ne possa ricavare granché. Mia madre mi partorì in un ospedale del Bronx anche se abitava a Brooklyn. Non chiedetemi perché fece tutta quella strada. Forse l’ospedale dava i pasti gratis. Comunque non tornò subito a casa. Di fatto, in quell’ospedale rischiò di lasciarci le penne. Per qualche settimana fu più di là che di qua, ma, a suo dire, le flebo fecero miracoli. Per fortuna. Se mi avesse tirato su solo mio padre, a quest’ora avrei una fedina penale lunga come la Torah. Invece, con due genitori amorevoli, sono venuto su sorprendentemente nevrotico. Non chiedetemi il perché.
Ero il centro dell’attenzione delle cinque sorelle di mia madre, il cocco di quelle dolci impiccione sempre in fibrillazione per l’unico nipote maschio. Avevo sempre di che mangiare e di che vestirmi, e non mi beccai malattie gravi come la poliomielite, che all’epoca imperversava. Non avevo la sindrome di Down, come un bambino della mia classe; non avevo la gobba come la piccola Jenny, né soffrivo di alopecia come un ragazzino che si chiamava Schwartz. Ero sano, benvoluto, atletico; ero sempre il primo a essere scelto quando si facevano le squadre, sapevo correre e lanciare la palla; eppure, non si sa come, sono riuscito a diventare un nevrotico pieno di fobie e dalla vita emotiva disastrata, sempre sul punto di perdere l’autocontrollo, un misantropo solitario e claustrofobico, inacidito, impeccabilmente pessimista. Alcuni vedono il bicchiere mezzo vuoto, altri lo vedono mezzo pieno. Io ho sempre visto la bara mezza piena. Sono riuscito a evitare quasi tutte le mille ingiurie naturali, retaggio della carne, tranne la numero 682: non ho meccanismi di difesa di fronte alla realtà. Mia madre ha sempre detto che ero un bambino dolce e gioioso fino a cinque anni, dopodiché sono diventato un ragazzino sgradevole, musone e marcio dentro.
Eppure non ci sono stati traumi nella mia vita; non è successo niente per trasformarmi da bimbo lentigginoso e sorridente a giovinastro eternamente insoddisfatto. La mia ipotesi è che all’età di cinque anni o giù di lì divenni consapevole del concetto di mortalità, e pensai che non era mica nei patti. Qualcuno mi ha avvertito che non era previsto che fossi eterno? Se non vi spiace, rivoglio indietro i soldi. Crescendo, mi divenne più chiara non solo la finitudine dell’esistenza, ma anche la sua assenza di senso. E incocciai contro la stessa domanda che angustiava il noto principe danese: perché soffrire oltraggi di fortuna, sassi e dardi, quando basta che mi bagni il naso e lo metta nella presa della corrente per non avere più a che fare con angoscia, crepacuore e il pollo lesso di mia madre? Amleto scelse di non farlo per paura di ciò che gli sarebbe potuto succedere nell’aldilà, ma io non credo nella vita dopo la morte, e quindi, data la cupa visione che ho della condizione umana e della sua dolorosa assurdità, perché andare avanti? Alla fine, non sono stato in grado di trovare un motivo plausibile, e sono giunto alla conclusione che noi uomini siamo semplicemente programmati per resistere alla morte. Il sangue è più forte del cervello. Non c’è motivo logico per cui rimanere attaccati alla vita, ma chi se ne importa di quello che dice la testa. Il cuore dice: hai visto Lola in minigonna? Per quanto ci lamentiamo e insistiamo, a volte in modo del tutto persuasivo, che la vita è un incubo di lacrime e di sofferenza, se uno entrasse improvvisamente nella nostra stanza con un coltello e intenzioni omicide, reagiremmo subito. Lotteremmo con tutta la nostra energia per disarmarlo e sopravvivere. (Nel mio caso, scapperei.) E tutto ciò, ripeto, non è che una caratteristica delle molecole di cui siamo fatti. A questo punto probabilmente avrete capito non solo che non sono un intellettuale, ma anche che sono una persona da evitare ai party.
Tra parentesi, è sorprendente quanto spesso io sia etichettato come “intellettuale”. È non avere più a che fare con angoscia, crepacuore e il pollo lesso di mia madre? Amleto scelse di non farlo per paura di ciò che gli sarebbe potuto succedere nell’aldilà, ma io non credo nella vita dopo la morte, e quindi, data la cupa visione che ho della condizione umana e della sua dolorosa assurdità, perché andare avanti? Alla fine, non sono stato in grado di trovare un motivo plausibile, e sono giunto alla conclusione che noi uomini siamo semplicemente programmati per resistere alla morte. Il sangue è più forte del cervello. Non c’è motivo logico per cui rimanere attaccati alla vita, ma chi se ne importa di quello che dice la testa. Il cuore dice: hai visto Lola in minigonna? Per quanto ci lamentiamo e insistiamo, a volte in modo del tutto persuasivo, che la vita è un incubo di lacrime e di sofferenza, se uno entrasse improvvisamente nella nostra stanza con un coltello e intenzioni omicide, reagiremmo subito. Lotteremmo con tutta la nostra energia per disarmarlo e sopravvivere. (Nel mio caso, scapperei.) E tutto ciò, ripeto, non è che una caratteristica delle molecole di cui siamo fatti. A questo punto probabilmente avrete capito non solo che non sono un intellettuale, ma anche che sono una persona da evitare ai party.
Tra parentesi, è sorprendente quanto spesso io sia etichettato come “intellettuale”. È vero quanto è vero che esiste il mostro di Loch Ness, dal momento che non ho un solo neurone intellettuale nel cervello. Incolto e per nulla interessato allo studio, sono cresciuto con tutte le premesse per diventare un buzzurro che se ne sta in poltrona davanti alla televisione, birra in mano e partita di football ad alto volume, paginoni di “Playboy” attaccati con lo scotch alla parete. Posso sfoggiare giacche di tweed come un professore di Oxford, ma dentro sono un barbaro. Non ho né intuizioni geniali né pensieri elevati, non capisco la maggior parte delle poesie più complesse della Vispa Teresa. Certo, porto un paio di occhiali con la montatura nera, e suppongo che siano loro a tenere viva questa leggenda, in combinazione con il talento di appropriarmi di citazioni di testi eruditi che vanno al di là della mia comprensione ma che possono essere usati nel mio lavoro per dare l’ingannevole impressione di essere più colto di quanto non sia.
Riprendiamo il racconto. Sto crescendo in una bolla, accudito da un mucchio di donne propense alle smancerie e da quattro nonni affettuosi. Il padre di mio padre, ve ne ho già parlato, è quello che aveva conosciuto la ricchezza, andava a Londra in nave solo per le corse dei cavalli e aveva un palco all’opera; adesso era diventato povero, e campava di non si sa bene cosa. Sua moglie era un’emigrante come lui, sposata per poter andare negli Stati Uniti. Lei fuggiva dai pogrom russi, lui dal servizio di leva. Da vecchia sembrava un acino di uva secca, e viveva con il marito e la progenie in una stamberga arredata con dubbio gusto e con un pianoforte verticale che non suonava mai nessuno. Ma era affezionata a me e, generosa malgrado l’indigenza, mi dava di nascosto soldini e zollette di zucchero, senza chiedere nulla in cambio, se non di andare a trovarla ogni tanto.
Anche i nonni materni mi volevano bene. La mamma di mia mamma era sorda e in sovrappeso, se ne stava tutto il giorno seduta davanti alla finestra; dall’aspetto, forse si sarebbe trovata più a suo agio su una foglia di ninfea. Il nonno, invece, era una persona virile, attiva e sempre in sinagoga. Ed ecco come un essere abietto come me ripagava la sua gentilezza. Io e i miei amici eravamo venuti in possesso di un nichelino falso. Pura latta. Non osavamo spenderlo al negozio di dolciumi per paura di finire in riformatorio, così mi offrii di rifilarlo a mio nonno, cui l’età non aveva insegnato la furbizia. Aprì il borsellino e mi diede in cambio cinque monetine da un centesimo. E non fu come in quei film in cui il vecchio ridacchia perché ha sgamato il ragazzino, e lo asseconda con una strizzatina d’occhio. No. Lo fregai proprio, gli estorsi le cinque monetine, gli rifilai il nichelino di latta e andai a comprarmi arachidi ricoperte di cioccolato.
Ma il vero arcobaleno della mia infanzia fu mia cugina Rita. Aveva cinque anni più di me, era bionda e rotondetta, e forse nessun altro ebbe un’influenza altrettanto significativa sulla mia vita. Di cognome faceva Wishnick; anche suo padre era un ebreo russo in fuga, che in origine si chiamava Višneckij. Era una ragazza attraente, cui la poliomielite aveva lasciato una lieve zoppia, e che si era affezionata a me; mi portava ovunque – al cinema, in spiaggia, al ristorante cinese, al minigolf – e giocava con me a qualunque cosa – a scacchi, a carte, a Monopoli. Mi presentava a tutti i suoi amici, ragazzi e ragazze più grandi di me, che sembravano apprezzarmi per quello che ero; frequentandoli, divenni molto sofisticato per un ragazzino, e la mia crescita subì un’accelerazione.
Avevo anche amici della mia età, ma passavo parecchio tempo con Rita e la sua compagnia. Erano ragazzi ebrei della classe media, intelligenti, che studiavano per diventare giornalisti, insegnanti, medici e avvocati.
Ma torniamo ai film, la grande passione di Rita. E ricordatevi che io avevo cinque anni e lei dieci. Oltre a tappezzare le pareti di camera sua con foto a colori di tutte le star, andava al cinema regolarmente: nella fattispecie, tutti i sabati a mezzogiorno, in genere al Midwood, dove si potevano vedere due film con un solo biglietto. E mi portava sempre con sé. Vedevo tutto quello che sfornava Hollywood, film di serie B compresi. Sapevo chi erano gli attori, imparavo a riconoscere i caratteristi e anche le canzoni, dato che Rita e io passavamo un sacco di tempo ad ascoltare insieme la radio. Programmi come Make Believe Ballroom o Your Hit Parade. All’epoca la radio rimaneva accesa da quando ti svegliavi a quando andavi a letto. Musica, notiziari – e che musica.
La musica pop di allora era quella di Cole Porter, Rodgers & Hart, Irving Berlin, Jerome Kern, George Gershwin, Benny Goodman, Billie Holiday, Artie Shaw, Tommy Dorsey. Tra film e canzoni, non potevo lamentarmi. Prima due film alla settimana, e poi, con il passare degli anni, sempre di più. Com’era emozionante entrare nel Midway il sabato mattina, con le luci ancora accese e una piccola folla che comprava dolciumi e prendeva posto mentre i gestori mettevano su dei dischi per evitare ribellioni prima che si spegnessero le luci. I’ll Get By di Harry James. I paralumi erano rossi, i lampadari di ottone dorato, la moquette rossa. Alla fine le luci si abbassavano, le tende si aprivano e sullo schermo d’argento compariva un logo che faceva venire l’acquolina in bocca al cuore, se posso mescolare le metafore in modo pavloviano. Vedevo tutto: commedie, western, storie d’amore, film di pirati e film di guerra. Molti decenni dopo, passando con Dick Cavett per una strada dove un tempo c’era una sontuosa sala cinematografica, guardammo il lotto di terreno vuoto e ricordammo che una volta, seduti proprio lì in mezzo, venivamo trasportati in città straniere che brulicavano di intrighi, in deserti attraversati da romantici beduini, in velieri, trincee, palazzi e riserve indiane. Presto un condominio sarebbe sorto sulle macerie del Rick’s Café.
Da ragazzo i miei film preferiti erano quelli che chiamavo champagne comedies. Mi piacevano le storie che si svolgevano in attici dove dall’ascensore si entrava direttamente nell’appartamento, i tappi volavano e uomini raffinati che pronunciavano dialoghi spiritosi flirtavano con donne bellissime che giravano per casa con vestiti che oggi si userebbero per un matrimonio a Buckingham Palace.
Questi appartamenti erano enormi, in genere duplex, con tanto spazio vuoto. Appena entrati, gli ospiti si dirigevano quasi sempre verso un mobile bar e si versavano da bere da bottiglie di cristallo. Tutti bevevano in continuazione e nessuno vomitava. Nessuno aveva il cancro, i tubi non perdevano e, se squillava il telefono nel cuore della notte, gli abitanti degli attici di Park Avenue non brancolavano nel buio come mia madre rischiando di rompersi una gamba per cercare l’unico, nero apparecchio di casa e venire a sapere che magari un parente era appena passato a miglior vita. No. Katharine Hepburn, Spencer Tracy, Cary Grant o Myrna Loy allungavano un braccio sul comodino, dove il telefono solitamente era bianco, e le notizie non riguardavano metastasi o trombosi coronariche frutto di anni di cibi con troppo colesterolo, ma dilemmi di soluzione più immediata, tipo: “Prego? Cosa vuol dire che il nostro matrimonio non è valido?”
Immaginate una torrida giornata estiva a Flatbush. La colonnina di mercurio segna i trentacinque gradi e l’umidità è soffocante. L’unica aria condizionata accessibile è quella delle sale cinematografiche. Fai colazione con uova alla coque in una minuscola cucina con il tavolo coperto da un telo cerato e il pavimento di linoleum. Alla radio trasmettono canzoni come Milkman Keep Those Bottles Quiet e Tess’s Torch Song. I tuoi genitori sono impegnati nell’ennesima, stupida “discussione” – per usare la definizione di mia madre – che per poco non degenera in una sparatoria. Forse lei gli ha macchiato la camicia con la panna acida, o lui ha parcheggiato il taxi davanti a casa – e guai se i vicini scoprono che lei ha sposato un tassista e non un giudice della corte suprema. Mio padre non si stufava mai di raccontare che una volta aveva avuto come cliente Babe Ruth. Ma l’unica cosa che ricordava del “Sultan of Swat” era che gli aveva dato una mancia da pidocchio. Mi tornò in mente anni dopo, quando facevo il comico al Blue Angel, e Sonny, il buttafuori, inchiodò con una definizione Billy Rose, il celebre impresario di Broadway che amava atteggiarsi a pezzo grosso. “Un uomo da un quarto di dollaro,” ghignò Sonny, che aveva imparato a catalogare gli uomini dall’entità delle mance che lasciavano. In queste pagine faccio dell’ironia sui miei genitori, ma ciascuno di loro mi ha insegnato cose che mi sono state utili per tutta la vita. Mio padre: quando compri un giornale all’edicola, non prendere mai quello in cima. Mia madre: l’etichetta dei vestiti va sempre dietro.
Cosa stavamo dicendo? È una torrida giornata d’estate e passi la mattina riportando i vuoti in negozio. A due centesimi la bottiglia raggranelli il necessario per un biglietto al Midwood, al Vogue o all’Elm, i tre cinema del quartiere. A tremila miglia di distanza ci sono dei normalissimi tedeschi che, per nessun motivo, si divertono a fucilare ebrei o mandarli nelle camere a gas, e non hanno problemi a trovare complici in mezza Europa. E tu ti fai una sudata in Coney Island Avenue – una brutta strada piena di rivenditori di auto usate, agenzie di pompe funebri e negozi di ferramenta – finché l’elettrizzante insegna diventa visibile. Il sole adesso è alto e feroce. Il tram sferraglia, le automobili strombazzano, due uomini sono bloccati nella coreografia idiota della rabbia, urlano e cominciano a menare le mani. Quello più piccolo e debole corre a prendere una chiave inglese. Tu compri il biglietto, entri, la calura e la luce abbagliante scompaiono, ti ritrovi in un mondo alternativo fresco e buio. Sono solo immagini, certo, ma che immagini! La maschera, un’attempata signora vestita di bianco, ti accompagna al tuo posto con una torcia. Hai speso il tuo ultimo nichelino in deliziosi dolciumi dai nomi fantasiosi – Jujubes o Chuckles. E adesso volgi lo sguardo allo schermo dove, al suono di melodie di indescrivibile bellezza composte da Cole Porter o da Irving Berlin, appare lo skyline di Manhattan. Sono in buone mani. Non vedrò uomini in tuta da lavoro che si alzano all’alba per mungere le mucche e il cui scopo nella vita è vincere una medaglia alla fiera del bovino o addestrare il proprio cavallo a diventare un campione di trotto. Grazie al cielo, nessuno verrà salvato da un cane, né ci saranno campagnoli che bevono infilando il dito nel manico di una caraffa da whiskey o annodano una lenza all’alluce di un ragazzo che si è addormentato mentre pescava.
Tutt’oggi, se la prima inquadratura di un film è il dettaglio della bandierina di un tassametro che viene abbassata, rimango. Ma, se è la bandierina di una cassetta della posta, esco. Al risveglio, le tende della camera da letto si aprono e i miei personaggi vedono i grattacieli di New York che brulicano di possibilità; fanno colazione o a letto, su vassoi che hanno il posto dove infilare il giornale, o su tavole apparecchiate con tovaglie di lino e posate d’argento, dove le uova alla coque vengono servite su pratici portauova, e sulle prime pagine dei quotidiani non si parla di campi di sterminio ma al massimo c’è la foto di una bella ragazza in compagnia di qualcuno, il che turba Fred Astaire dato che è innamorato di lei. Ma se è una coppia sposata a fare colazione, vedi che sono ancora innamorati dopo tanti anni, lei non gli rinfaccia i suoi fallimenti e lui non le dà della vecchia megera. E, finito il primo film, il secondo è un thriller dove un detective con la faccia da duro risolve i problemi della vita a suon di cazzotti alla mascella e alla fine se ne va con una sventola tutta curve che non ho mai visto né a scuola né a tutti i matrimoni, funerali e bar mitzvah cui sono andato. Anche se a un funerale non sono mai andato, me lo sono sempre risparmiato. Il primo e unico cadavere che ho visto è stato quello di Thelonious Monk. Stavo andando a cena da Elaine’s e mi fermai in un salone di pompe funebri sulla Terza Avenue per rendergli omaggio. Con me c’era Mia Farrow; era da poco che ci frequentavamo, e accondiscese alla mia richiesta malgrado lo sconcerto; avrebbe dovuto capire subito che stava mettendosi con la persona sbagliata, ma fuoco e fiamme vennero dopo.
Adesso è finito anche il secondo film; lascio la magia oscura e confortevole dalla sala cinematografica, mi immergo nuovamente nel sole e nel traffico di Coney Island Avenue e torno nello squallido appartamento di Avenue K. Nelle grinfie del mio nemico numero uno, la realtà. In una sequenza comica di un mio film che si chiama Il dormiglione, divento imprevedibilmente Blanche DuBois in Un tram che si chiama desiderio. Parlo con accento femminile del Sud degli Stati Uniti, cercando di far ridere, mentre Diane Keaton fa una perfetta imitazione di Marlon Brando. Keaton protestava dicendo di non essere capace, come le ragazze che a scuola si lamentano di avere sbagliato il compito in classe, e poi si scopre che hanno preso dieci. Ovviamente il suo Brando è meglio della mia Blanche, ma quello che voglio dire è che nella realtà io sono Blanche. Blanche dice: “Non voglio la realtà, voglio la magia.” E io ho sempre disprezzato la realtà e bramato la magia. Ho cercato di essere un mago, ma ho scoperto di saper manipolare solo carte e monete, e non l’universo.
Dunque la cugina Rita mi fece conoscere i film, le stelle del cinema, Hollywood con la sua morale patriottica e i finali miracolosi; e mentre tutti cercavano di insegnarmi qualcosa, dai miei genitori ai miei insegnanti di spagnolo (malgrado lo avessi già studiato per due anni), fu Hollywood ad attecchire. Riviste come “Modern Screen” e “Photoplay”. Bogart, Cagney, Edward G. Robinson, Rita Hayworth: era il loro mondo di celluloide che imparavo. Esagerato, superficiale, falsamente sontuoso – ma non rimpiango un solo fotogramma. Quando mi chiedono quale personaggio dei miei film mi assomiglia di più, dico sempre di dare un’occhiata a Cecilia nella Rosa purpurea del Cairo.
Dove eravamo rimasti? Ah sì, ero nato. Nato incontestabilmente – e la metto così perché in tre circostanze mancò poco che non vedessi questo mondo. La prima fu quando mio padre fu uno dei tre che raggiunsero la riva a nuoto dopo il naufragio della sua nave. La seconda vide coinvolto sempre lui, ma in modo meno eroico. Era a una festa di famiglia con mia madre, allora sua fidanzata. Erano tutti parenti di lei: bravi ebrei rumorosi, dalla vita accidentata. Un esempio del loro stile: avevamo un parente che si chiamava Phil Wasserman, su cui tornerò perché in seguito dette un grande aiuto alla mia carriera. Ma c’era un altro parente che si chiamava Phil Wasserman, di pari importanza, e che veniva sempre chiamato “l’altro Phil Wasserman”. Così, quando si parlava di uno dei due Phil Wasserman, bisognava sempre specificare quale, e così si diceva: “Ero a Manhattan quando ho incontrato l’altro Phil Wasserman.” Oppure: “Devo comprare un regalo per l’altro Phil Wasserman.” Da piccolo mi chiedevo se quando faceva una telefonata esordiva dicendo: “Pronto? Sono l’altro Phil Wasserman.” Sua moglie diceva: “Vi presento mio marito, l’altro Phil Wasserman”? E sulla lapide della sua tomba ci sarà scritto: “Qui giace l’altro Phil Wasserman”? Per quanto raffazzonata, la cosa funzionava.
Torniamo alla festa di famiglia. Una cugina mostra il suo nuovo anello con diamante. Vari “oooh” e “aaah” si levano a commentarne dimensioni e bellezza, anche se sono sicuro che difficilmente poteva fare concorrenza al diamante Hope. Un’ora dopo, però, scoppia la tragedia. Il prezioso gioiello è scomparso. Non so come, alla fine si scoprì che l’aveva rubato mio padre. Potete immaginare l’incredulità e lo stupore. Occhi sbarrati, grandi manate in testa come nel teatro yiddish, “Oy vey” come se piovesse, bicchieri di vino dolce posati sul tavolo e cosce di pollo abbandonate a metà masticazione. Ovviamente mia madre svenne e quella sera il matrimonio venne annullato. La mia nascita fu di nuovo in pericolo. Per fortuna mio padre, con il suo savoir-faire e la sua parlantina, riuscì a placare il futuro suocero. E il padre di mio padre promise che quel mascalzone senza sale in zucca di suo figlio non solo non avrebbe più fatto cose del genere, ma si sarebbe tirato fuori dalle losche frequentazioni e avrebbe rigato dritto. Lo aiutò anche a comprare una drogheria sull’orlo del fallimento in Flatbush Avenue, e mio padre ci mise tutto il suo impegno per raddoppiarne le perdite a tempo di record. Ormai avrete capito che mio padre non aveva alcuna predisposizione a essere il sostegno della famiglia: un soggetto che nel corso degli anni suscitò molte interessanti discussioni, in seguito alle quali ficcava furibondo tutti i suoi vestiti in una valigia, che poi disfaceva prima di andare a letto.
La terza volta in cui sfiorai la non esistenza avvenne poco dopo la mia nascita. Almeno ero già attivo e funzionante. Mia madre che, come ho accennato, doveva lavorare per compensare le tante occupazioni poco remunerative di mio padre, spesso mi doveva lasciare con le tate: giovani sconosciute, sempre diverse, a seconda dell’agenzia che le mandava. Mia madre mostrava loro dov’era l’olio di fegato di merluzzo, le informava che bevevo solo latte al cioccolato e raccomandava di non fidarsi di una piccola peste come me, per quanto sembrassi carino. Non so perché fosse una tale rompiscatole e non una mamma divertente come Billie Burke o Spring Byington. Comunque rimanere da solo ogni giorno con una sconosciuta poteva rivelarsi fatale. Una volta una tata mi avvolse in una coperta spiegandomi che non ci avrebbe messo niente a soffocarmi e poi buttare tutto nel bidone della spazzatura. Lì dentro cominciava a mancarmi l’aria. Per fortuna era una di quelle svitate che dicono le cose ma poi non le fanno, al contrario di quelle che si dimenticano di prendere gli psicofarmaci e poi finiscono sui tabloid con la tuta arancio di qualche prigione.
Quella volta me la cavai, e la buona sorte mi ha accompagnato per tutto il resto della vita. È un fatto da non sottovalutare. Considerando la mia carriera, alcuni diranno che non è stata sempre così fortunata, ma non sanno quante volte è stato il caso a decidere.
Malgrado le minacce alla mia esistenza prima e dopo la nascita, crescevo a Brooklyn, in un appartamento della Quattordicesima Strada, quasi all’angolo con Avenue J. Non ricordo molto di quegli anni; tranne la volta in cui bevvi un bicchiere di latte munto direttamente dalla mammella di una mucca (anziché irresistibile, lo trovai solo caldo e disgustoso) e quella in cui stavo vedendo un film di Disney con mia mamma, mi alzai di scatto e corsi a toccare lo schermo, non ci sono altri sciocchi aneddoti che valga la pena di menzionare. A parte il fatto che sembrava che fossi paranoico fin dalla nascita. Ricordo la mia prima casa, un appartamento che i miei genitori condividevano con zio Abe e zia Ceil, la sorella di mia madre. Ricordo di avere pensato che tutte le persone, compresi i miei genitori e i miei zii, fossero alieni di un altro pianeta: a un certo punto si sarebbero tolti la maschera, rivelando i loro volti mostruosi, e mi avrebbero fatto a pezzi. Non so da dove venissero queste prendere gli psicofarmaci e poi finiscono sui tabloid con la tuta arancio di qualche prigione.
Quella volta me la cavai, e la buona sorte mi ha accompagnato per tutto il resto della vita. È un fatto da non sottovalutare. Considerando la mia carriera, alcuni diranno che non è stata sempre così fortunata, ma non sanno quante volte è stato il caso a decidere.
Malgrado le minacce alla mia esistenza prima e dopo la nascita, crescevo a Brooklyn, in un appartamento della Quattordicesima Strada, quasi all’angolo con Avenue J. Non ricordo molto di quegli anni; tranne la volta in cui bevvi un bicchiere di latte munto direttamente dalla mammella di una mucca (anziché irresistibile, lo trovai solo caldo e disgustoso) e quella in cui stavo vedendo un film di Disney con mia mamma, mi alzai di scatto e corsi a toccare lo schermo, non ci sono altri sciocchi aneddoti che valga la pena di menzionare. A parte il fatto che sembrava che fossi paranoico fin dalla nascita. Ricordo la mia prima casa, un appartamento che i miei genitori condividevano con zio Abe e zia Ceil, la sorella di mia madre. Ricordo di avere pensato che tutte le persone, compresi i miei genitori e i miei zii, fossero alieni di un altro pianeta: a un certo punto si sarebbero tolti la maschera, rivelando i loro volti mostruosi, e mi avrebbero fatto a pezzi. Non so da dove venissero queste fantasie tremende. Come ho detto, erano tutti gentili e affettuosi.
Nei primi tempi abitavamo in un quartiere meraviglioso che imparai ad apprezzare solo dopo la sua scomparsa. Avenue J era una strada di negozi: niente di speciale, ma adesso mi sembra il paradiso. C’erano fantastiche botteghe di dolciumi, deli pieni di squisitezze, negozi di giocattoli, un ferramenta, ristoranti cinesi, una sala da biliardo, una biblioteca. C’erano tanti negozietti che vendevano vestiti, pane e dolcetti appena sfornati; e ovviamente la signora dei sottaceti, che sedeva come un minotauro accanto a un barile di cetriolini. Era una massa informe coperta da strati di golf, e per cinque centesimi immergeva un arto nel barile e pescava un cetriolo di grandezza adeguata. A furia di immergere la mano nella brodaglia, anche la sua mano era diventata un sottaceto; da piccolo mi chiedevo quanti litri di lozione per la pelle sarebbero serviti per farla tornare normale. E poi c’era il Midwood, la sala cinematografica che in pratica era diventata la mia seconda casa. Ma nel mio simpatico quartierino si potevano facilmente raggiungere tante altre sale che offrivano il doppio programma. In quelle più modeste potevi vedere due film, cinque disegni animati, un serial come Batman e una comica, sperando fosse di Robert Benchley e non di Joe McDoakes.
Purtroppo, a volte dovevi sorbirti un documentario dove un tale signor Fitzgerald ti portava in posti come Ceylon e Giava, “la terra dimenticata dal tempo”, che tu lo volessi o no. A volte ti davano un regalino, come una pistola di carta che faceva un botto quando veniva fatta scattare verso il basso. Ma la cosa davvero fantastica è che quando ero piccolo (ma non così piccolo da non poter andare al cinema) il biglietto costava solo dodici centesimi. Nei cinema di un certo tono era di venti centesimi, poi di venticinque, poi di trentacinque. Quando arrivò a cinquantacinque, nel quartiere ci fu una rivolta come quella dell’equipaggio della corazzata Potëmkin. Mi dicono che al giorno d’oggi un biglietto può costare addirittura venti dollari. Avete idea di quanti vuoti dovrei rendere per racimolare venti dollari?
In ogni via c’era un cinema e non c’era giorno in cui non ci fosse qualcosa da vedere, si trattasse solo di serial come The Crime Doctor o The Whistler. A me piacevano tutti. Ma poi un giorno la mia vita cambiò, quando mio padre mi portò con sé a Manhattan per quello che oggi verrebbe definito come “tempo di qualità”, anche se probabilmente doveva solo andare a pagare dei bookmaker. Avrò avuto sette anni e non avevo mai messo piede fuori da Brooklyn.
Prendemmo la metropolitana, scendemmo a Times Square, salimmo le scale e ci ritrovammo all’incrocio tra la Broadway e la Quarantaduesima Strada. Rimasi senza fiato. Mettetevi nei panni di un bambino. Un milione di persone, soldati, marinai, marines. Cinema a perdita d’occhio. Sale da ballo. Donne eleganti, o questa era la mia impressione. Musicisti di strada. L’enorme insegna di Bond, il negozio di abbigliamento e il grande cartellone pubblicitario della Camel con un uomo che fa anelli di fumo. Un tipo emaciato che annunciava a un gruppetto di ascoltatori che giovedì ci sarebbe stata la fine del mondo (come faceva a saperlo?). E quelle bambole di carta, come facevano a ballare senza fili? Sulla Quarantaduesima c’era il Laugh Movie con gli specchi deformanti lungo la strada (anche se non li trovavo divertenti nemmeno a sette anni), e il museo del circo delle pulci, che vantava un ermafrodito, qualunque cosa fosse. Facemmo sosta lì, perché mio padre voleva sparare con le carabine calibro 22; spense tutte le candele, e spese circa cinque dollari in proiettili.
Mio padre aveva la passione delle armi da fuoco. Non poteva resistere alla tentazione di un tiro a segno – all’epoca si usavano armi e munizioni vere. In seguito si fece dare il porto d’armi, con la scusa che aveva bisogno di una pistola per il suo lavoro. Trafficava in gioielli, e poi tornava a casa tardi perché faceva il cameriere di notte. In realtà la tirò fuori solo due volte: la prima, per far scendere da un autobus una testa calda; la seconda, quando quattro giovanotti si avvicinarono a lui mentre era da solo sulla banchina della metropolitana alle tre di notte. Sparò un colpo verso il tunnel e i quattro se la diedero a gambe. Non gli avevano fatto niente, ma lui aveva percepito la minaccia; per quanto ne sapeva, avrebbero potuto anche essere un quartetto vocale – nel qual caso aveva ogni diritto di allontanarli.
Così percorremmo Broadway Avenue, passando davanti a tutti i cinema e ai ristoranti: McGinnis’s, Roth’s, Jack Dempsey’s, Turf e alla fine Lindy’s. Entrammo nelle varie sale giochi, mangiammo hot dog, bevemmo piña colada analcolica e forse vedemmo un film. Ero così piccolo che non ricordo; di certo mi innamorai a prima vista di Manhattan, e negli anni a venire continuai a tornarci appena ne avevo l’occasione. I ricordi più belli che ho sono quelli di quando marinavo la scuola, prendevo la metropolitana in Avenue J, andavo a Manhattan, compravo un giornale, mi infilavo in un automat e leggevo le cronache sportive di Jimmy Cannon mentre ingurgitavo una fetta di torta di ciliegie e un caffè. A quel punto l’Universal apriva i battenti e vedevo il film e lo spettacolo – il comico mi faceva sempre ridere. Ricordo di essere andato al Roxy quando c’era la band di Duke Ellington: quando, finito il film, dalla fossa davanti allo schermo salirono i musicisti che suonavano Take the A Train, mi sentii scoperchiare la scatola cranica. Da quel momento, ogni film ambientato a New York non poteva che piacermi. Quante volte rimanevo incantato a vedere qualche pupa dalle gambe lunghe tornare a casa dopo una serata passata in un nightclub, una stola esagerata drappeggiata sulle spalle, entrare in un palazzo della Quinta Avenue, premere il pulsante dell’ascensore, salire al suo appartamento e andare a dormire solo quando il sole cominciava a spuntare al ritmo sinuoso di Out of Nowhere.
Ogni volta che tornavo a Brooklyn, era nella città dall’altra parte del fiume che volevo vivere. Non vedevo l’ora di poter entrare in un bar di Manhattan e dire: “Il solito.” Anni dopo Mort Sahl ebbe un’idea geniale, quella di fare una class action contro i film per averci rovinato la vita. Ma sto divagando.
Nel nostro racconto, sono ancora in Avenue J a Brooklyn, con addosso la mia tutina, intento a fare l’upgrade dalla culla al lettino. Ricordo ancora quel piccolo rito di passaggio. Ero un bimbo così fifone che dalla prima notte nel mio nuovo giaciglio adottai una posizione sul fianco destro che mi consentiva di alzarmi in un batter d’occhio e di reagire in modo adeguato se un lupo mannaro fosse sbucato dal ripostiglio. Dormivo pronto a Train, mi sentii scoperchiare la scatola cranica. Da quel momento, ogni film ambientato a New York non poteva che piacermi. Quante volte rimanevo incantato a vedere qualche pupa dalle gambe lunghe tornare a casa dopo una serata passata in un nightclub, una stola esagerata drappeggiata sulle spalle, entrare in un palazzo della Quinta Avenue, premere il pulsante dell’ascensore, salire al suo appartamento e andare a dormire solo quando il sole cominciava a spuntare al ritmo sinuoso di Out of Nowhere.
Ogni volta che tornavo a Brooklyn, era nella città dall’altra parte del fiume che volevo vivere. Non vedevo l’ora di poter entrare in un bar di Manhattan e dire: “Il solito.” Anni dopo Mort Sahl ebbe un’idea geniale, quella di fare una class action contro i film per averci rovinato la vita. Ma sto divagando.
Nel nostro racconto, sono ancora in Avenue J a Brooklyn, con addosso la mia tutina, intento a fare l’upgrade dalla culla al lettino. Ricordo ancora quel piccolo rito di passaggio. Ero un bimbo così fifone che dalla prima notte nel mio nuovo giaciglio adottai una posizione sul fianco destro che mi consentiva di alzarmi in un batter d’occhio e di reagire in modo adeguato se un lupo mannaro fosse sbucato dal ripostiglio. Dormivo pronto a saltare dal letto, ma per fare cosa? Buona domanda. All’epoca il ju-jitsu era abbastanza popolare, ma il problema era che prima di buttare il mostro sul tappeto dovevi stringergli la mano. In ogni caso, con la saggezza dell’età, mi rendo conto di quanto fossi sciocco, e di quanto sarebbe stato meglio dormire con una mazza da baseball a portata di mano.
Coerentemente con le mie fantasie escapiste di una vita chic a Manhattan, mentre gli altri ragazzi uscivano dal cinema volendo essere John Wayne, Gary Cooper e Alan Ladd, io mi identificavo soprattutto con Reginald Gardner, Clifton Webb e con i personaggi più effeminati. E poi c’era Bob Hope, per cui avevo una passione smodata: non perdevo mai un suo film o una sua trasmissione radiofonica. Adoravo la radio. Un altro godimento era quando potevo stare a casa ad ascoltarla, e questo avveniva in due casi: se ero malato o facevo finta di esserlo. Fare finta era difficile. Se non avevo la febbre dovevo andare a scuola e, dato che mia madre stava lì a controllare dopo avermi ficcato il termometro in bocca, era quasi impossibile trovare un calorifero o una lampadina per far salire la colonnina del mercurio senza farsi beccare. Ma il piacere di stare a casa malato, nel mio letto, con la radio accanto... Si iniziava con The Breakfast Club, poi c’erano Helen Trent, Luncheon at Sardi’s, Queen for a Day, Lorenzo Jones e sua moglie Belle, André Baruch e sua moglie Bea Win. Nel tardo pomeriggio arrivavano Hop Harrigan, Tom Mix e Captain Midnight; e più tardi The Answer Man, Baby Snooks e The Lone Ranger. Poter mangiare a letto. Mio padre che tornava a casa con dieci giornalini nuovi, che a dieci centesimi ciascuno era un bel capitale. Allora la radio occupava un posto importante nelle nostre vite, e con il senno di poi mi ha colpito il fatto che quell’attaccabrighe di mio padre preferiva i comici, e non si perdeva mai Jack Benny, Charlie McCarthy o, in seguito, Groucho. Mi sarei aspettato che gli piacessero Gangbusters o David Harding, Counterspy, invece amava The Life of Riley e Fibber McGee and Molly.
Ero onnivoro ma il medico di famiglia mi proibì di ascoltare Inner Sanctum e qualunque programma ritenuto troppo terrificante. Il dottor Cohen consigliò a mia madre di non farmi vedere alcun film con Dracula o Frankenstein, perché nervoso com’ero avrei avuto gli incubi. Mia madre ricavava tutte le sue nozioni di puericultura da questo medico di quartiere che mi auscultava il cuore con lo stetoscopio, mi batteva le nocche sul petto, mi colpiva il ginocchio con un martelletto di gomma, ascoltava i racconti materni sulle mie malefatte, mi psicanalizzava, mi prescriveva cocillana e cerotti di senape – e tutto a domicilio, per un paio di dollari. Mia madre ascoltava le sue diagnosi come se fosse stato Midnight; e più tardi The Answer Man, Baby Snooks e The Lone Ranger. Poter mangiare a letto. Mio padre che tornava a casa con dieci giornalini nuovi, che a dieci centesimi ciascuno era un bel capitale. Allora la radio occupava un posto importante nelle nostre vite, e con il senno di poi mi ha colpito il fatto che quell’attaccabrighe di mio padre preferiva i comici, e non si perdeva mai Jack Benny, Charlie McCarthy o, in seguito, Groucho. Mi sarei aspettato che gli piacessero Gangbusters o David Harding, Counterspy, invece amava The Life of Riley e Fibber McGee and Molly.
Ero onnivoro ma il medico di famiglia mi proibì di ascoltare Inner Sanctum e qualunque programma ritenuto troppo terrificante. Il dottor Cohen consigliò a mia madre di non farmi vedere alcun film con Dracula o Frankenstein, perché nervoso com’ero avrei avuto gli incubi. Mia madre ricavava tutte le sue nozioni di puericultura da questo medico di quartiere che mi auscultava il cuore con lo stetoscopio, mi batteva le nocche sul petto, mi colpiva il ginocchio con un martelletto di gomma, ascoltava i racconti materni sulle mie malefatte, mi psicanalizzava, mi prescriveva cocillana e cerotti di senape – e tutto a domicilio, per un paio di dollari. Mia madre ascoltava le sue diagnosi come se fosse stato Avicenna. Chiedeva sempre consigli relativi alla salute, sia fisica sia mentale, a chiunque avesse un seppur vago legame con il mondo della medicina. Spesso si rivolgeva al dentista sopra il panettiere, e non solo per questioni relative a molari o gengive. E poi c’era il farmacista. Sapevi leggere una ricetta e vendevi cerotti per i calli? Mia madre ti avrebbe lasciato fare un’operazione al cervello. E se avevi la laurea in medicina, praticamente eri Dio. Il nome di un dottore veniva pronunciato con lo stesso rispetto che si tributava a un rabbino.
E così mi piaceva essere malato e stare a letto a godermi radio, fumetti e brodo di pollo. Devo specificare che la gioia di ritrovarmi con trentotto di febbre dipendeva anche dal fatto che, come ho già detto, odiavo, aborrivo e detestavo la scuola. Nella Public School 99, con i suoi insegnanti stupidi, pieni di pregiudizi e ritardati, non c’era nulla da salvare. Sto parlando dell’inizio degli anni Quaranta. Dopo la guerra arrivarono insegnanti migliori. Ma non voglio calcare troppo la mano. Il corpo docente era composto da irlandesi con i capelli azzurri che sarebbero state perfette per interpretare suore arcigne e vessatrici. Una volta la vicepreside Reid mi trascinò per un orecchio per un’intera rampa di scale dandomi del verme, mentre per conto mio le auguravo di marcire sotto terra.
I pochi insegnanti di sesso maschile erano ebrei dalle idee più aperte. Anche troppo, tant’è che uno dei più bravi venne licenziato. A un certo punto ogni classe doveva scegliere una canzone ed eseguirla in palestra con una coreografia adeguata. Lui scelse un ballo d’inizio secolo chiamato Boops-a-Daisy, dove le coppie di ballerini prima si toccano le mani, poi si danno una pacca sulle ginocchia e infine si girano e si danno un colpo d’anca. Apriti cielo: le arpie rimasero a bocca aperta come se in palestra stessero facendo una gang bang. Non era la solita coreografia inamidata di grandi classici come You’re a Grand Old Flag o Bicycle Built for Two. Quelle frigide antisemite sentivano puzza di depravazione. Oggi, nell’epoca del politically correct, si userebbe il termine “inappropriato”. Ovviamente, questo ebreo errante pedagogo venne cacciato a calci nel didietro il più in fretta possibile. Il fatto che avesse idee apertamente di sinistra non lo rendeva simpatico alla preside Fletcher e ai suoi miseri scherani.
Ma non si trattava solo della congrega degli insegnanti: l’intera scuola era concepita in modo tale che fosse impossibile qualunque forma di apprendimento. Dovevi arrivare puntuale e metterti in fila in cortile, clima permettendo. E mentre eri in fila, guai a parlare. Poi salivi in classe, dove eri obbligato a stare seduto “con ambedue le piante dei piedi sul pavimento e gli occhi volti in avanti”. Vietato parlare, ridere, passarsi bigliettini e qualunque altra cosa potesse rendere più lieve il fardello dell’esistenza. Si imparava a memoria, solo che non si apprendeva niente. Una volta la settimana c’era la riunione plenaria. Prima si recitava il giuramento di fedeltà alla bandiera degli Stati Uniti d’America con la mano sul cuore – giusto per essere sicuri che tra noi non ci fosse qualche nazista. Poi un’insulsa preghiera cui non giungeva mai alcuna risposta – fosse anche solo un “Vi farò sapere”. Dio è silenzioso, pensavo; se solo se ne stessero zitte anche quelle arpie...
E per finire, la musica. Riuscivano sempre a scegliere le canzoni più mosce. Alla radio si ascoltavano Cole Porter, Rodgers & Hart, Gershwin: melodie stupende, ritmi inebrianti. Anything Goes, Lady Be Good, Mountain Greenery: canzoni che ti insegnavano ad amare la musica. E invece no: prima attacchiamo In Flanders Fields the Poppies Grow, giusto per metterci di buon umore. Poi viene Recessional o Abide with Me. A quel punto pensavo di fingere un attacco epilettico per poter andare a casa. Non ce la facevo più. Fatemi mettere il termometro sul calorifero o marinare, lasciate che vada a Manhattan, divori un piatto di vongole da McGinnis’s e vada a vedere Esther Williams che nuota a dorso ai tropici. Ancora adesso mi vengono i brividi se penso alle file mattutine nel seminterrato quando pioveva o nevicava, con la puzza di lana bagnata dei nostri maglioni; o a quando convocavano le nostre madri per avere bisbigliato a un compagno o esserci scambiati un bacio furtivo davanti agli armadietti.
“Sta sempre appiccicato alle ragazze,” comunicò a mia madre una delle sterili arpie. Sì, mi piacevano le ragazze. Cosa mi dovevano piacere, le tabelline? O i discorsi letali per il giorno del Ringraziamento? Avrei dovuto agognare, come certe amebe, il privilegio di sbattere i cancellini uno contro l’altro per scrollare la polvere di gesso? No, mi piacevano le ragazze. A partire dall’asilo quello che mi interessava non erano le filastrocche o il gioco delle sedie. Volevo prendere la metropolitana con Barbara Westlake, andare a Manhattan, portarla nel mio attico sulla Quinta Avenue, bere cocktail come il dry Martini (qualunque cosa significasse “dry”), uscire in terrazza e baciarla al chiaro di luna. Potete immaginare che tutto ciò non era apprezzato dal corpo insegnante della Public School 99, da mia madre o anche da Barbara Westlake che aveva sei anni, era ignara di dry Martini e singhiozzava disperata quando facevano fuori la madre di Bambi. Per cui, per quanto avessi la fissa dell’Astor Bar, non c’era modo di ubriacarmi. Ovviamente erano tutte chiacchiere. Per quanto ben informato, non avrei mai potuto andare a Manhattan da solo, trovare l’Astor convocavano le nostre madri per avere bisbigliato a un compagno o esserci scambiati un bacio furtivo davanti agli armadietti.
“Sta sempre appiccicato alle ragazze,” comunicò a mia madre una delle sterili arpie. Sì, mi piacevano le ragazze. Cosa mi dovevano piacere, le tabelline? O i discorsi letali per il giorno del Ringraziamento? Avrei dovuto agognare, come certe amebe, il privilegio di sbattere i cancellini uno contro l’altro per scrollare la polvere di gesso? No, mi piacevano le ragazze. A partire dall’asilo quello che mi interessava non erano le filastrocche o il gioco delle sedie. Volevo prendere la metropolitana con Barbara Westlake, andare a Manhattan, portarla nel mio attico sulla Quinta Avenue, bere cocktail come il dry Martini (qualunque cosa significasse “dry”), uscire in terrazza e baciarla al chiaro di luna. Potete immaginare che tutto ciò non era apprezzato dal corpo insegnante della Public School 99, da mia madre o anche da Barbara Westlake che aveva sei anni, era ignara di dry Martini e singhiozzava disperata quando facevano fuori la madre di Bambi. Per cui, per quanto avessi la fissa dell’Astor Bar, non c’era modo di ubriacarmi. Ovviamente erano tutte chiacchiere. Per quanto ben informato, non avrei mai potuto andare a Manhattan da solo, trovare l’Astor Bar, riuscire a entrare e farmi servire qualcosa di più forte di una gazzosa. Senza considerare il fatto che non avrei saputo dove trovare due nichelini per la metropolitana.
A furia di venire convocata dalle insegnanti, mia madre divenne un volto familiare. I miei compagni continuarono a salutarla quando la incrociavano per strada, anche dopo essere diventati grandi ed essersi sposati. Nella scena tipo, la maestra ci sta insegnando qualcosa di inutile quando si apre la porta e compare mia madre. Cinque minuti di pausa mentre la befana dai capelli azzurri spiega a mia madre che sono un caso irrecuperabile e che ho passato a Judy Dors un bigliettino in cui le proponevo di andare a bere un cocktail. “Ha proprio qualcosa che non va,” ribadisce mia madre, schierandosi immediatamente dalla parte di chi mi odia. Sì, avevo qualcosa che non andava. Mi piacevano le ragazze. Di loro mi piaceva tutto. Apprezzavo la loro compagnia, mi piaceva la loro anatomia e il suono delle loro risate, e volevo passare il tempo con loro e non nel laboratorio di applicazioni tecniche a costruire un portacravatte sbilenco insieme a maschi trogloditi.
Alcuni insegnanti tenevano gli alunni in classe dopo la fine delle lezioni a mo’ di punizione, ma guarda caso erano sempre i bambini ebrei. Perché? Perché eravamo piccoli e viscidi usurai e, trattenendoci in classe, avremmo fatto tardi alla scuola ebraica o l’avremmo saltata del tutto. Non sapevano che questa punizione, se posso usare una parola yiddish, per me era una mitzvah – una buona azione. Odiavo la scuola ebraica quanto la scuola pubblica, e vi spiego perché. Per cominciare, ho sempre pensato che la religione fosse un grande imbroglio. Non ho mai creduto nell’esistenza di un dio, né che questi avesse una predilezione per gli ebrei, se mai fosse esistito. Mi piaceva la carne di maiale. Odiavo la barba. L’ebraico era troppo gutturale per i miei gusti. E poi si scriveva da destra verso sinistra. Perché mai? Già avevo i miei guai con l’inglese, che si scriveva nell’altro senso. E perché dovevo digiunare per i miei peccati? Quali erano i miei peccati? Avere dato un bacio a Barbara Westlake invece di appendere il cappotto? Avere rifilato un nichelino falso a mio nonno? Fattene una ragione, o Signore: c’è di molto peggio. Ci sono i nazisti che ci mettono nei forni. Pensa a quelli, piuttosto. Ma, come ho detto, non credevo in Dio. E perché in sinagoga le donne dovevano stare al piano di sopra? Erano più carine e intelligenti degli zeloti barbuti che giù da basso si avvolgevano scialli di preghiera, ciondolavano la testa come pupazzi adorando un potere immaginario che, se esisteva, ripagava tutti i loro salamelecchi con il diabete e il reflusso gastrico.
E io avrei dovuto sprecare il mio tempo in quelle cose? Non vedevo l’ora che alle tre suonasse la campanella per poter correre fuori e andare a giocare; e invece no, dovevo sedermi in un’altra aula, a leggere parole ebraiche di cui non ci veniva mai spiegato il significato e imparare che gli ebrei avevano stretto un accordo speciale con Dio, solo che poi si erano dimenticati di metterlo nero su bianco. Ma ci andavo. I miei mi facevano una testa così, e poi c’era la minaccia di togliermi la paghetta, di non farmi sentire la radio e infine le botte. Mia madre mi picchiava almeno una volta al giorno. All’epoca le botte erano la prassi, anche se da mio padre le presi solo una volta, quando gli dissi di andare a farsi fottere e manifestò il suo disappunto con un buffetto che mi fece vedere l’aurora boreale in tutto il suo splendore. Invece mamma me le dava ogni giorno, come nella vecchia battuta di Sam Levenson – “Io non so che cosa hai fatto per meritarlo, ma tu sì.” Così alla fine anch’io feci il mio bar mitzvah, con tutte le lezioni preparatorie del caso in cui mi insegnarono anche a cantare in ebraico. Per citare l’Antico Testamento, ci furono molto pianto e stridore di denti.
In famiglia quella osservante era mia madre, e mangiavamo solo kosher. Era abbastanza intransigente sull’esclusione di maiale, pancetta, prosciutto, crostacei e molte altre delizie concesse ai fortunati infedeli. Per farla star buona, mio padre fingeva di essere osservante ma appena poteva non nascondeva più la sua dipendenza dal cibo proibito e si ingozzava di carne di maiale e crostacei come un lupo affamato. Così ogni tanto, al ristorante, mi concedevo un pasto che non aveva il nullaosta di Yahweh, come lo chiamavano gli amici. Mi ricordo quando avevo otto anni e mio padre mi portò per la prima volta da Lundy’s, un famoso ristorante di pesce a Brooklyn, dove potei ingozzarmi di vongole, ostriche e capesante, con la sicurezza che quel giorno Dio fosse da qualche altra parte. Fu anche la prima volta in cui vidi portare in tavola una ciotola per le dita. Non sapevo neanche che esistesse e l’esperienza fu esaltante come se avessi una piscina tutta per me. Ne rimasi così colpito che, quando due anni dopo ci tornai con mia zia, in testa avevo solo la ciotola per le dita. Così, quando ci servirono le vongole note come steamers con il brodino a parte, ero convinto che quest’ultimo servisse a pulirsi le dita. Il mio entusiasmo vinse il cauto scetticismo della zia, e ci lavammo le mani nel brodo. Fu solo quando, alla fine del pasto, arrivarono le vere ciotole per le dita che mia zia si accorse dell’errore, e mi percosse affettuosamente in testa con la sua borsa, almeno una dozzina di volte.
Dicevamo: sono ancora un ragazzino, mi piacciono i film, le donne, gli sport, odio la scuola, mi struggo per un dry Martini. Sono un pessimo studente, lo ammetto, ma una cosa ho sempre saputo fare: scrivere. Sapevo scrivere prima di leggere. Ho imparato a leggere solo in prima elementare, ma quando tornavo a casa dall’asilo sapevo già scrivere. Cioè inventavo storie. Scrivevo senza scrivere nulla, secondo le antiche consuetudini della tradizione orale. Ma le mie storie non erano cupe come il Beowulf o la ballata di Lord Randall: si svolgevano in attici lussuosi, in anticipazione di un futuro mai contaminato da un solo giorno di onesto lavoro.
Nel frattempo sognavo di essere uno scienziato e mi venne regalato un microscopio. Mi sarei lasciato alle spalle questa nobile ambizione, sedotto da uno stile di vita alimentato dalla Metro-Goldwyn-Mayer. E ricevevo un due di picche dopo l’altro da ragazze carine, studiose e dalla calligrafia impeccabile. “Oddio, no. Mia madre non mi darebbe mai il permesso.” “A New York? In metropolitana? Impossibile.” E, più tardi: “Mi spiace, non esco mai con ragazzi della mia età.”
Arriva il giorno del bar mitzvah. Oggi si fanno bar mitzvah a tema: Star Wars, i cavalieri della tavola rotonda, il selvaggio West. Quello del mio era Bassifondi di Gor’kij. La mia iniziazione all’età adulta non si svolge in un posto elegante, ma a casa nostra, vicino ai binari della ferrovia. Gli zii e altri uomini che fumano due pacchetti di sigarette al giorno, solo in prima elementare, ma quando tornavo a casa dall’asilo sapevo già scrivere. Cioè inventavo storie. Scrivevo senza scrivere nulla, secondo le antiche consuetudini della tradizione orale. Ma le mie storie non erano cupe come il Beowulf o la ballata di Lord Randall: si svolgevano in attici lussuosi, in anticipazione di un futuro mai contaminato da un solo giorno di onesto lavoro.
Nel frattempo sognavo di essere uno scienziato e mi venne regalato un microscopio. Mi sarei lasciato alle spalle questa nobile ambizione, sedotto da uno stile di vita alimentato dalla Metro-Goldwyn-Mayer. E ricevevo un due di picche dopo l’altro da ragazze carine, studiose e dalla calligrafia impeccabile. “Oddio, no. Mia madre non mi darebbe mai il permesso.” “A New York? In metropolitana? Impossibile.” E, più tardi: “Mi spiace, non esco mai con ragazzi della mia età.”
Arriva il giorno del bar mitzvah. Oggi si fanno bar mitzvah a tema: Star Wars, i cavalieri della tavola rotonda, il selvaggio West. Quello del mio era Bassifondi di Gor’kij. La mia iniziazione all’età adulta non si svolge in un posto elegante, ma a casa nostra, vicino ai binari della ferrovia. Gli zii e altri uomini che fumano due pacchetti di sigarette al giorno, malgrado infarti e ictus, mi sorridono e mi stringono la mano con aria furbesca allungandomi un biglietto da dieci. Manco fossero mille dollari. Le mie zie, le mie cugine, Rita, sua sorella maggiore Phyllis che fa l’infermiera e che sembra provata nel fisico come Eve Curie, Phil Wasserman e, ovviamente, l’altro Phil Wasserman. Il Phil originale è un tipo parecchio divertente che fa l’addetto stampa. Anni dopo, quando comincerò a scrivere le mie prime battute, gliele farò leggere, e lui mi incoraggerà a mandarle ai giornalisti di Broadway che curano rubriche dove varie spiritosaggini vengono attribuite alle celebrità. Seguirò il consiglio, e le mie modeste freddure mi apriranno un intero universo.
Ma a tredici anni ero ancora un ragazzino molesto, uno sbruffoncello che conosceva un’infinità di barzellette e incominciava a fiutare il mondo dello spettacolo. A questo proposito vorrei descrivere il rinfresco che seguì alla nostra festicciola ashkenazita, in cui un giovane ebreo in teoria doveva diventare uomo, anche se io rimasi un topo. All’epoca mio padre faceva il cameriere, uno dei suoi svariati mestieri, tra i quali un metodo a prova di bomba per diventare ricchi vendendo prestigiose collane di perle per posta. Solo che non si trovò nessuno disposto a comprare una sola perla, e per molti mesi il nostro appartamento fu invaso dalle prestigiose collane. Alla fine lo stock venne ritirato al quindici per cento del prezzo di acquisto. Ma adesso sgobbava al Sammy’s Bowery Follies, tutti i giorni dalle sei del pomeriggio alle cinque di mattina.
Si trattava di un locale rétro con la segatura sul pavimento e dove signore pettorute alla Sophie Tucker cantavano melodie di fine Ottocento con grandi cappelli e vestiti di dubbio gusto. Una di questa matrone era Mabel Sidney, sorella dell’attrice Sylvia e del regista George. All’epoca ignoravo la sua famiglia: sapevo solo che cantava a squarciagola Who’s Sorry Now, You Tell Me Your Dream e altri successi del tempo che fu. Gentilmente accettò di presenziare al mio tredicesimo compleanno, e mise un po’ di brio in un evento che altrimenti sarebbe stato identico alle esequie di mio zio Abe al Riverside Cemetery. In quegli anni la nostra famiglia traeva sempre vantaggio dal fatto che mio padre lavorasse sulla Bowery, con tutti gli alcolizzati che affollavano ogni bar o dormitorio sotto la sopraelevata. Tra di loro erano rappresentate tutte le professioni, dal muratore all’archeologo, dal broker al marinaio, dall’attore all’imbianchino. Uomini che non avevano realizzato i loro sogni e adesso erano ubriaconi all’ultimo stadio. Anime perse che non chiedevano altro che avere i soldi per bere. E così, per pochi dollari, ci facevamo ristrutturare casa da una squadra di avvinazzati, sempre che si presentassero. Magari i lavori subivano degli intoppi, ma alla fine non ci lamentavamo. Mamma dava loro da mangiare in abbondanza, ma dovevano bere in bicchieri loro riservati, che poi penso venissero spediti alle isole Marshall, dove il governo americano smaltiva i rifiuti tossici.
WOODY ALLEN è uno scrittore, regista e attore. È stato stand-up comedian e autore di diversi libri. Vive nell’Upper East Side di Manhattan con Soon-Yi, sua moglie da ventidue anni, e le loro due figlie, Manzie e Bechet. È un grande appassionato di jazz e un tifoso di sport. Si rammarica di non aver mai fatto un grande film, ma ci sta ancora provando.