Carlo Fedele* | Lo scugnizzo Raffaele Viviani

1.- Gli esordi Indossando il frac di una marionetta per sostituire un comico ammalato, Raffaele Viviani debuttò sulla scena all’...




1.- Gli esordi

Indossando il frac di una marionetta per sostituire un comico ammalato, Raffaele Viviani debuttò sulla scena all’età di quattro anni e mezzo cantando in un teatrino di Pupi, a Porta San Gennaro, a sei anni recitò in un dramma in prosa.

Nacque la notte del 10 gennaio 1888 a Castellammare di Stabia da Teresa Sansone e Raffaele Viviani un gestore di piccoli locali, tra i quali il Teatro Masaniello. Rimasto orfano del padre all’età di dodici anni, nel 1900, fu costretto a lavorare per vivere, assieme alla sorella Luisella, con la quale, in precedenza, duettava e recitava nei locali gestiti dal padre.

Subentrarono anni difficili, tra fame e miseria, finché non trovò impiego in un circo equestre, il Circo Scritto, per recitare la parte di Don Nicola nella famosa “La Canzone di Zeza”. Cominciò quindi a fare il giro delle compagnie di circo e dei piccoli teatri di periferia, recitando in ruoli comici.

All’età di quindici anni fu scritturato con la sorella Luisella, per una tournée in Alta Italia.  Napoli, nel 1904, fu scritturato dal Teatro Petrella, dove interpretò per la prima volta lo “Scugnizzo“, una macchietta scritta da Giovanni Capurro e musicata da Francesco Buongiovanni, che Viviani aveva ascoltato al Teatro Umberto I interpretata da Peppino Villani. L’interpretazione offerta da Viviani fu straordinaria.

Dopo questa esperienza, si creò uno stile particolare e personale esibendosi nelle tradizionali figure di personaggi partenopei come “‘O mariunciello, Malavita, Il mendicante, ’O tranviere, ‘O sciupatore, ‘O cocchiere, Il professore, ‘O sunatore ‘e pianino” ed altre ancora.

In questi numeri e macchiette da lui create, oltre la caricatura c’era una vena di sentimentalismo e di realismo.

Nel 1906, all’Arena Olimpia, Viviani, esordì con una macchietta, composta da lui, intitolata “Fifì Rino“, dando il via a quel marionettismo istrionico, ripreso in seguito da Nino Taranto giovane e soprattutto da Totò. Inoltre, sempre in quell’anno, si esibì nei caffè, gelaterie, concerti musicali e teatri dell’Italia settentrionale.

Nell’estate del 1907, tornato a Napoli, lavorò negli stabilimenti balneari, dove si esibì cantando con altri artisti.

Fu scritturato dal teatro Eden, tra i maggiori, e per Viviani, significò l’affermazione. All’Eden debuttò, presentando sei melologhi di ispirazione realistica. Il debutto fu salutato dal pubblico in maniera straordinaria; quella sera mise fine alla sua miseria. Con l’Eden di Napoli, chiuse il ciclo della fame. Cominciò la sua vera e ricca carriera di successo.

Nel febbraio del 1911, fu scritturato a Budapest con l’impiego di rappresentarvi per un mese le sue macchiette. Fece una specie di rassegna dei suoi personaggi più pittoreschi, tra cui Il pescivendolo e la Festa di Piedigrotta. Al ritorno da Budapest fu scritturato dalla Sala Umberto di Roma ed ottenne un grande successo, al punto da contenderlo ad Ettore Petrolini. Seguì una tournée in Francia non felicissima ed i provvedimenti governativi successivi alla disfatta di Caporetto, nel 1917, lo spinsero a compiere il passaggio dal Varietà al teatro vero e proprio. Pertanto, Viviani organizzò una Compagnia di prosa e musica che debuttò al Teatro Umberto I di Napoli, il 27 dicembre del 1917, con l’atto unico “Il vicolo“.

“La Compagnia dev’essere un’orchestra bene affiatata alla quale non deve difettare nessuno strumento, onde chi maneggia la bacchetta possa ottenere gli effetti voluti; guai! Quando in una Compagnia serpeggia la discordia o chi dirige è fiacco di polso! Allora è presa la mano dai componenti stessi dell’orchestra a tutto danno dell’esecuzione, si capisce”. (R. VIVIANI, Dalla vita alle scene, cit., p. 133.) 

Con ferrea disciplina Viviani formò e diresse quest’orchestra. Eppure, il suo precetto fondamentale era: “Avita essere umani”. All’attrice o all’attore meno esperto, egli non chiedeva altro che la semplicità dell’intonazione.

“I miei comici li ho scelti a preferenza non tra le vecchie file dei cosiddetti “passoloni”, ma tra i nuovi alla recita: per avere materia vergine, creta molle da plasmare, non credo alla valentia di chi fa il comico da quarant’anni. Chi è nuovo alle scene, vi porta sempre una freschezza propria, una sincerità non guastata attraverso lunghi anni di mestiere; il novizio vi porta sempre il suo vivo entusiasmo, la sua illusione intatta, il suo proposito aguzzo di arrivare”. (R. VIVIANI, Dalla vita alle scene, Napoli, Guida editori, 1988, p. 133-134.)

La sua disciplina fu eroica. Una commedia anche se si fosse replicata cinquanta, cento volte, egli non mutava, non alterava gli atteggiamenti o le battute delle messinscena precedenti. Il copione era legge e quando, durante le prove, accadeva che un cambiamento, un’aggiunta si rivelassero essenziali, la battuta veniva subito inserita nel copione e diventava testo a sua volta. “Nessuno degli attori – scriveva Ernesto Grassi – si sarebbe mai permesso di aggiungere una sillaba a ciò che doveva dire, dal momento che non se lo permetteva lui che era il maestro di tutti“. Fu un severo direttore di scena non solo nei confronti degli altri ma anche verso se stesso. Una delle sue massime era: “Impara bene la parte, se pretendi che i tuoi dipendenti la sappiano“.




Raffaele Viviani raggiunse un notevole successo nel teatro di Varietà.  Il suo trionfo, nel mondo del Caffé-concerto, iniziò con l’interpretazione straordinaria della macchietta “lo Scugnizzo”. Seguirono tantissimi altri numeri e macchiette inventate-create da lui, in cui imitava i personaggi tipici della sua città: i venditori ambulanti, gli scugnizzi, i guappi, i pescatori, i nottambuli, gli uomini della malavita, i malati, i pietosi (‘O pisciavinolo, ‘O cantante ‘e pianino, 1907; ‘O sapunariello, Nun faie pe’ me, 1908; Malavita, Aitano Pagliucchella, 1910).

Questi tipi non sono delle caricature, non si tratta di tipi comici, ma realistici, sono la rappresentazione di un’umanità che, con le sue gioie, sofferenze, vizi, difetti, aspirazioni, delusioni, rappresenta un quadro, decisamente, realistico di Napoli.

I numeri di Viviani erano più di 120 e la grandezza di questo grande autore-attore è da ricercare proprio nella sua capacità di impersonare tipi diversissimi tra loro, nonché di intrecciare, di impastare diversi elementi: il comico e il tragico, l’umoristico ed il sentimentale, la prosa e il canto.
Nell’interpretare più ruoli anche abbastanza diversi tra loro, Viviani dimostrò le sue ineguagliabili doti di attore: la gestualità, la mimica, l’incedere sulla scena e l’uso davvero singolare della voce.

Soltanto alcuni di questi numeri sono stati pubblicati nell’appendice di testi che segue l’edizione dell’Autobiografia curata dal figlio Vittorio Viviani del 1977; gli altri sono ancora materiale inedito.

Raffaele Viviani ebbe un intenso rapporto di amicizia e di collaborazione artistica con Luigi Pirandello. L’autore-attore napoletano fu molto stimato dal drammaturgo siciliano di cui traspose in dialetto napoletano tre testi: La patente, Pensaci, Giacomino! e Bellavita. Tale rapporto è testimoniato da uno scambio di lettere tra Pirandello e Viviani.

Il primo capolavoro pirandelliano che Viviani portò in scena nel 1924 è La patente, il cui titolo in napoletano divenne ‘A patente. Lo jettatore Rosario Chiàrchiaro, Pasquale Schiattarella nella versione napoletana, ebbe in Raffaele Viviani un interprete eccellente.

Nel 1933 Viviani mise in scena Pensaci, Giacomino! ottenendo un grandissimo successo, come autore e come attore, salutato con entusiasmo dalla critica e dallo stesso Luigi Pirandello in una lettera.

A distanza di dieci anni, nel 1943, Viviani realizza ancora una trasposizione di un’opera di Pirandello: Bellavita, un lavoro giovanile dello scrittore siciliano, portato alla ribalta da Raffaele Viviani, con vivissimo successo, al Teatro delle Palme di Napoli.



2.- Viviani ed il cinema

Raffaele Viviani ebbe un grande interesse per il cinema, sul cui tema scrisse qualche poesia, ed ambientò un suo atto unico del 1918, “Piazza Ferrovia“, proprio all’ingresso della storica Sala Iride aperta a Napoli nel 1901.

Pochi, ma non privi di significato furono i contatti di Viviani con il cinema. Raffaele Viviani è stato definito dalla critica come un precursore del Neorealismo cinematografico, se non come autore-regista, senza dubbio quale interprete efficacissimo.

Il drammaturgo, assieme alla sorella Luisella, fu protagonista nel 1912 di “Un amore selvaggio“, unico film del periodo del muto in cui possiamo veder recitare Raffaele Viviani. Il film, di cui non è chiara la paternità, nel senso che non sappiamo tuttora il nome del regista (forse lo stesso Viviani), è una breve storia di 25 minuti ambientata in un clima rurale e girata prevalentemente in esterni. L’ambientazione dovrebbe essere la Sicilia, ma l’opera fu girata con molta probabilità nei dintorni di Roma. E’ una trama ricavata dal teatro popolare napoletano dell’epoca. La recitazione è sanguigna, ricca di espressività e di carattere. Anche se prodotto da una casa cinematografica romana, la pellicola si può inserire tranquillamente nel filone del miglior cinema napoletano di carattere “realista” (da cui deriva, secondo alcuni, il neorealismo del secondo dopoguerra). La trama, la recitazione, i personaggi e perfino alcuni particolari scenografici sono “teatrali”, come del resto era tipico di un certo filone cinematografico del tempo.

Purtroppo questo fu l’unico film sopravvissuto del periodo del muto di Viviani, dolendoci che non sopravvissero gli altri due film che sappiamo interpretò per la Cines, sempre nel 1912: “La catena d’oro” e “Testa per testa” in cui si presenta nei panni di un sanculotto della Rivoluzione francese. I suoi film non erano confinati a Napoli o nel resto del sud ma giravano per il mondo. Una recensione su un giornale inglese parla di Viviani in questi termini: “a wonderfully strong and realistic performance, fierce and almost terrible in its intensity“.

Nel 1932 interpretò La tavola dei poveri, diretto da Alessandro Blasetti nel 1932, all’inizio del sonoro, il suo capolavoro nel cinema.

Nel 1938, accettò la proposta della Juventus Film di realizzare una versione cinematografica della sua commedia “L’ultimo scugnizzo“, quasi sette anni dopo l’indimenticabile prima assoluta al Teatro Piccinni di Bari.

Dei film interpretati da Viviani, bisogna ricordare che egli stesso fu autore di ogni colonna sonora.
Il settimo film che Viviani doveva interpretare non fu mai realizzato, purtroppo, rimase un progetto sulla carta; doveva essere la riduzione del suo lavoro teatrale Pescatori, con la regia di Luchino Visconti.

Viviani, ancora una volta, mostra la sua attenzione verso il cinema con la poesia “Film sonoro” (1928), in cui ironizza sull’avvento del cinema sonoro. Egli, attento osservatore, capì immediatamente quale fosse la vera consistenza del meccanismo dissacratorio industriale; infatti, i versi di questa poesia sono un’aspra satira nei confronti del film sonoro americano.

Stasera, o’ Supercinema
se fa ‘o film sonoro.
Dice ca ‘a gente parlano,
cantano, fanno ‘o coro.
N’hanno mannato ‘a musica
pecché dall’obiettivo,
‘o quadro ch’esce s’anema,
comme si fosse vivo.
Remmure d’automobile,
d’acque, passagge ‘e treno,
strumente, tuone, applause,
‘o film, ‘o svolge in pieno.
Man mano ca ‘o pruiettono
fa ‘o dramma e s’accumpagna.
Na meraviglia ‘e tecnica,
però nisciuno magna.
E gli orchestrali abboffano
che al posto delle orchestre
ce stanno ‘e piante esotiche:
bambù, palme e ginestre.
Così, tra breve, ‘a maschera
vene pure abulita,
pecché sarr”a pellicula
che doppo dirà: – Uscita.
Ogne tanto s’illumina
e piglia posto ‘a gente:
ma ‘a ‘st’ata forma ‘e cinema
nun c’esce proprio niente.
Denare ca s’accentrano
tutte ‘int’a poche mane,
e chille ca s”e sparteno
nun songo italiane.
Sorde pirciò ca emigrano
e nn”e vedimmo cchiù!
spediti dall’Italia
diretti a Ollivù.
E gli orchestrali restano,
pe’ chesta scossa avuta,
senza parla’: se guardano:
la vera scena muta!
“Ih, quanto è bello ‘o cinema!”
cummentano fra loro.
“Stu mazziatone” dicono
“overo ca è sonoro”.
Addio tariffe a orario:
quaranta lire ‘a cassa,
cinquanta lire ‘o flauto,
trenta ‘o sceta-vajassa.
Mo chesto ‘o sincronizzano
e io musico soccombo.
E chi ‘a scuprette ‘America?
Cristoforo Colombo.



La sua produzione cinematografica:

Un amore selvaggio, con Luisella Viviani e Giovanni Grasso. Produzione Cines, 1908
L’accusato, ( titolo incerto, pellicola perduta ) il cui soggetto prende spunto da uno dei numeri di Varietà di Viviani recitato in romanesco, “fiamme der core “. Produzione :Cines 1908
La catena d’oro, ( titolo incerto, pellicola perduta ) Produzione :Cines 1912
Testa per testa (risulta perduto) Viviani veste i panni di un giacobino ai tempi della Rivoluzione francese. Produzione: Partenope Film di Napoli 1912
La tavola dei poveri regia di Alessandro Blasetti; soggetto di Raffaele Viviani; sceneggiatura di Alessandro Blasetti, Emilio Cecchi, Alessandro De Stefani, Mario Soldati, Raffaele Viviani; Musiche Roberto Caraggiano su motivi di Raffaele Viviani. Produzione Emilio Cecchi, Cines-Anonima Pittaluga, 1932
L’ultimo scugnizzo regia Gennaro Righelli – soggetto Raffaele Viviani ; sceneggiatura Gherardo Gherardi; musiche Franco Casavole, Cesare A. Bixio; con Raffaele Viviani, Silvana Jachini, Dria Pola, Vanna Vanni, Laura Nucci . Produzione Juventus Film ( abbinata per la distribuzione agli Artisti Associati ) 1932
Notte di tempesta: prima dell’acuirsi del secondo conflitto mondiale, era in opera un progetto di riduzione cinematografica del dramma Pescatori , ad opera di Pozzi Bellini, sceneggiatori Gianni Puccini, Gino Doria e Vittorio Viviani, regia Luchino Visconti, protagonista Raffaele Viviani, il cui titolo avrebbe dovuto essere “Notte di tempesta”. Del film resta una foto tratta da un provino del 1942. Nel 1946, anche se con altri protagonisti, il progetto verrà ripreso e cambiato, sempre da Pescatori viene ripreso il titolo Notte di tempesta, regia di Gianni Franciolini , sceneggiatura di Edoardo Anton e Renato Castellani, interpreti principali: Fosco Giacchetti, Maureen Melrose e Leonardo Cortese. Produzione Pan Film. La prima assoluta avvenne all’Augusteo di Napoli alla presenza dello stesso Viviani.


3.- Viviani ed il teatro realístico

La chiusura dei teatri di Varietà imposta dal governo dopo la disfatta di Caporetto nel novembre del 1917, costrinse tanti attori famosi a cercare nuovi spazi ed a crearsi un nuovo repertorio. Naturalmente, anche Viviani, grande esponente di quel mondo teatrale, si trovò di fronte al problema di una svolta e ne approfittò per realizzare qualcosa a cui pensava da tempo: il passaggio dal Varietà alla Commedia.

Viviani fondò una propria Compagnia, scegliendosi come compagni altri attori del Varietà, di cui fece parte anche Luisella (nella foto), la sorella, con la quale debuttò il 27 dicembre 1917, al Teatro Umberto di Napoli, mettendo in scena “‘O vico“, commedia in un atto in versi, prosa e musica, composta e diretta dallo stesso Raffaele Viviani.

Questo atto unico rappresenta il primo lavoro teatrale in cui Viviani tenta di legare insieme più personaggi tipici, già sperimentati, dal suo repertorio.

Per realizzare questo passaggio dal numero all’atto unico, Viviani pensò di far rivivere di vita collettiva quei tipi che egli aveva già portato isolatamente sulla scena, di farli comunicare tra loro in un contesto capace di contenerne due, tre, anche quattro; insomma, diede loro vita drammatica in un’opera finita ed organica, fondendo, in mondo straordinario, la prosa con il canto ed i versi.

Diversamente da quello che si verificava nel mondo della Commedia dell’Arte, dove i singoli particolari erano affidati al capriccio degli attori, Viviani eliminò dai suoi spettacoli ogni forma d’improvvisazione; pertanto, la prosa, i versi e la musica erano rigorosa scrittura, in pratica un teatro pensato e fissato sulla carta che diventava testo.

Raffaele Viviani anche se non ha scritto nessun’opera teorica per svelare i criteri della sua drammaturgia, tuttavia ha dedicato un intero capitolo (Come scrivo il mio teatro) della sua Autobiografia al suo “metodo di scrivere teatro”:

“Non mi fisso sempre una trama, mi fisso l’ambiente; scelgo i personaggi più comuni a quest’ambiente e li faccio vivere come in questo ambiente vivono, li faccio parlare come li ho sentiti parlare. Man mano che le figure acquistano corpo e la macchietta diventa tipo, porto la mia fantasia per la via più logica da seguire, a seconda dei loro caratteri, dell’atmosfera creata; le figure, che man mano balzano vive dall’insieme del quadro, pigliano forma di veri caratteri, le porto decisamente in avanti, in primo piano e le distacco dalle figure minori che mi servono poi unicamente per dare sfondo e colore e tra questi personaggi, già definiti in pochi tocchi, io vi creo la favola. Da questo momento il lavoro comincia ad elaborarsi nella mia mente e, portandolo avanti, cerco di far camminare di pari passo lo scrittore e l’uomo di teatro e spesso l’attore non è estraneo alla passeggiata, poiché viene a portare la sua acquisita esperienza nel procedimento di essa, e solo alla metà del primo atto comincio a pensare alla chiusa più logica per il taglio finale”. (R. VIVIANI, Dalla vita alle scene, Napoli, Guida editori, 1988, p. 125.)

E, soprattutto, l’autore-attore napoletano ci tiene a sottolineare che il suo è un teatro realistico, le situazioni rappresentate sono vere ed i personaggi dei suoi drammi sono creature vive e non letterarie:

“Insomma, io non sono un “letterato”, sono un sensibile, un istintivo; attingo la materia grezza dalla vita, poi la plasmo, la limo e ne faccio opere teatrali, soffermandomi su quanto mi è rimasto impresso, vivendo la mia infanzia a contatto della folla, della folla varia, spicciola, proteiforme, multanime, pittoresca della mia terra di sole. Il mio teatro è fatto di suoni, di voci, di canti, sempre gaio e nostalgico, festoso e melanconico, non di intrecci e di problemi centrali. Vivifico le mie vicende sceniche sempre con qualche cosa di puramente mio, di mio inconsciamente mio, se volete, e riuscendo a non rassomigliare a nessuno, penso che questo è il mio maggior merito. Le cose mie non possono rassomigliare a quelle degli altri, perché fortunatamente le cose degli altri io le ignoro. Mai come in questo caso: Santa ignoranza! ” (R. VIVIANI, Dalla vita alle scene, cit., p. 127).

Nella vastissima produzione teatrale di Raffaele Viviani, oltre una cinquantina di opere, emerge tutto il quotidiano: la disoccupazione, la miseria, l’emigrazione, l’emarginazione, la questione femminile.

Queste tematiche spesso si intrecciano anche in uno stesso testo e la tecnica, assolutamente perfetta, usata dall’autore per innestare tra loro temi così complessi e diversi è il segno indiscutibile della grandezza e dell’originalità artistica di Raffaele Viviani.

Egli porta in scena l’amarezza e la tenerezza, la sofferenza e l’allucinazione, l’ingenuità e la furbizia, l’illusione e la delusione.

La produzione teatrale di Viviani è il realismo della vita partenopea.

Dunque, Raffaele Viviani – come scrive Vittorio Viviani – storicizza la vita di Napoli. La vera protagonista della sua opera è Napoli, una realtà storica e ambientale, vista con un occhio particolare, di chi guarda alle pene e alle miserie altrui senza patetismo, senza compiacimenti; bensì con la saggezza di chi vuole – come scrive lo stesso Viviani nell’Autobiografia – esaltare il buono e correggere il cattivo.

Insomma, Viviani porta in scena la città di Napoli, l’interpreta e la fa crescere progressivamente. Raffaele Viviani, nella sua opera, realizza una stupenda fusione musica-testo, al punto che può essere collocato nella migliore drammaturgia europea del primo Novecento. La grande originalità del teatro vivianeo è data dalla presenza e dalla funzione della musica. Infatti, nella sua opera la musica ha un’importanza assoluta ed una funzione insostituibile: attraverso i canti l’autore crea subito l’atmosfera voluta, imprigiona lo spettatore, lo rapisce.

Alla musica, alla canzone spetta il compito di caratterizzare il personaggio, ad ognuno la sua “arietta”, il suo ritornello.

Raffaele Viviani pur non essendo in grado di fissare sul pentagramma il suo pensiero, pur non essendo in possesso di una competenza musicale tecnica è autore delle musiche. È lo stesso Viviani nell’Autobiografia a rivelarci che le musiche se le faceva scrivere, dopo averle canticchiate al maestro.

Viviani produsse circa 1300 pagine trascritte di musica per canto e pianoforte. Suoi collaboratori principali furono Enrico Cannio e Eduardo Lanzetta. La prestazione musicale di questi suoi collaboratori consisteva nella trascrizione della parte melodica del brano e nel conseguente arrangiamento di esso.

‘O vico andò in scena per la prima volta il 27 dicembre 1917 al Teatro Umberto di Napoli (Viviani vi interpretava ben tre ruoli: l’Acquaiuolo, il Guappo innamorato e lo Spazzino).

In questo atto unico del 1917 domina un tema che ricorre spesso nel teatro di Raffaele Viviani: la disoccupazione. Questo tema, già presente nelle prime macchiette vivianee (‘O Mariunciello), appare chiaro in ‘O vico, dove si contrappongono personaggi di diverse fasce sociali, ma tutti oppressi dal problema della ricerca di un posto di lavoro. Viene fuori l’immagine di una Napoli sofferente, povera, amara e misera. Qui il realismo di Viviani è indiscutibilmente crudo.

La commedia è ambientata in un vicolo napoletano, con la sua miseria ed i suoi bassi. Vi compaiono dodici personaggi, che sono solo alcuni dei tipi più significativi ed originali del teatro di Viviani: Mastu Rafele, il ciabattino in miseria, con la moglie Rachele, giocatrice del lotto; i due innamorati (Prezzetella, ‘a capera e l’Acquaiuolo) che sperano un giorno di potersi sposare; Donna Nunziata, ‘a cagnacavalle; Totore, ‘o guappo ‘nnammurato; lo Spazzino e Ferdinando, ‘o cane ‘e presa.


4.- Viviani e Pulcinella

Viviani è stato anche la maschera di Pulcinella. Con la morte di Antonio Petito nel 1876 questa maschera continuò ad essere un grande mito di identificazione regionale, ma rimase confinata sempre più nei teatri di terz’ordine, frequentati quasi esclusivamente da un pubblico proletario.

Nel Novecento il teatro di Pulcinella attira l’interesse e la riflessione di alcuni artisti, Petrolini e, soprattutto, Raffaele Viviani e Eduardo De Filippo.

Le poche pulcinellate che essi compongono sono più commedie su Pulcinella che commedie di Pulcinella.

La prima esperienza di teatro di Raffaele Viviani con la maschera di Pulcinella è costituita dalla commedia “Siamo tutti fratelli“, tratta da una lunga commedia di Antonio Petito intitolata “So muorto e m’hanno fatto turnà a nascere“.

Viviani rielabora in maniera innovativa alcuni tratti fondamentali del linguaggio pulcinellesco tradizionale, presenta un Pulcinella sognante: costretto a muoversi in un mondo di opportunisti, passa agli occhi di tutti come lo sciocco di sempre, manovrabile a piacimento dai furbi disonesti.

Sicuramente l’interesse maggiore di queste commedie è costituito dalla sua capacità di far diventare teatro vivo (e non semplicemente, com’era accaduto qualche volta nel teatro di Petito, comica rappresentazione) non tanto la maschera, quanto i suoi interpreti, con le loro storie di sofferenze e di sconfitte.

“L’ombra di Pulcinella“, commedia in due atti, andò in scena, con successo, per la prima volta il 20 settembre 1933, al Teatro Odeon di Milano; in seguito fu rappresentata al Teatro Goldoni di Venezia.

L’idea centrale del dramma è la figura di un vecchio attore, Vicienzo Santangelo, che vede ogni giorno di più naufragare la sua povera compagnia di comici popolari, costretta a recitare nelle baracche o addirittura nelle piazze dei paesi quando c’è la fiera. Egli assiste con malinconia alla scomparsa di Pulcinella dalla scena. È malato e deve recitare per dare pane alla moglie ed al figlio, per dare ancora vita alla maschera che adora come un mito.

“Scugnizzo – Via Partenope” è un atto unico, scritto e messo in scena per la prima volta nel 1918 (Viviani vi interpretava ben tre ruoli). Il lavoro fu rappresentato successivamente nel 1921 e nel 1924. In questo atto unico dominano due temi che ricorrono spesso nel teatro di Raffaele Viviani: l’emarginazione e la miseria.

La commedia è ambientata nella zona circostante l’Hotel Excelsior. Tra i venti personaggi che vi compaiono emerge la figura dello scugnizzo, uno dei tipi più significativi ed originali del teatro di Viviani.

In questo atto unico lo scugnizzo è povero ed emarginato, ma non si rassegna al suo stato, combatte e procede con forza e coraggio nel suo cammino di protesta sociale.

Lo scugnizzo è un po’ il padrone di quella zona della città che i ricchi non frequentano, provoca e prende in giro la signuramma, che partecipa alla festa che si svolge nell’albergo. Ed è agli ospiti dell’Hotel, ai ricchi che è rivolta la protesta dello scugnizzo (Neh, munziù! È ghiuta ‘a zoccola int’ ‘o ragù… Eh, chi tanto e chi niente) e la sua presenza è un’aperta denuncia verso la società che è lì, immobile a non recepire nulla.

“La musica dei ciechi“, questo testo teatrale, fu rappresentato da Viviani per la prima volta a Roma nel 1928 ottenendo un grande successo.

“La musica dei ciechi” è un vero capolavoro, rappresenta sicuramente una fase drammaturgica di grande maturazione e di piena creatività, mescolando, con grande armonia, forma e contenuto, prosa e musica, momenti di forte drammaticità e di pacato dolore a momenti di ironia sofferta e di chiara comicità.

Questo contrasto rappresenta appunto l’originalità del teatro di Viviani. Domina in quest’atto unico uno dei temi che ricorrono spesso nel teatro di Raffale Viviani: l’emarginazione. Infatti, i protagonisti vivono in uno stato di totale emarginazione e povertà.

La commedia è ambientata in un angolo del borgo Marinari, nel rione di Santa Lucia, dove sono raccolti e si esibiscono i suonatori ciechi, un’orchestrina girovaga e mendicante che alterna a celebri canzoni napoletane, teneri valzer di operetta.

“L’ultimo scugnizzo” è una commedia in tre atti rappresentata da Viviani per la prima volta il 16 dicembre 1932 al teatro Piccinni di Bari (Viviani interpretava il ruolo di ‘Ntonio e Luisella Viviani quello di ‘Nnarella).

In questa commedia dominano due temi che ricorrono spesso nel teatro di Raffaele Viviani: la miseria e l’emarginazione.

La scena del primo atto della commedia è ambientata in un interno: lo studio dell’avvocato Razzulli. Il secondo atto si svolge all’esterno, nei pressi di un basso, nel vico Lepri ai Ventaglieri. L’ultimo atto è di nuovo in un interno: lo studietto di ‘Ntonio, in casa Razzulli.

Tra i ventitré personaggi che vi compaiono emerge il personaggio principale: ‘Ntonio Esposito, l’ultimo scugnizzo.

‘Ntonio vuole cambiare vita, desidera abbandonare il suo passato precario, è deciso a superarlo, ma non a rifiutarlo; tenta di procacciarsi un lavoro onesto per vivere dignitosamente e per offrire al figlio, che sta per nascere, una famiglia ed un’esistenza felice. Ma l’annuncio della morte del nascituro recide il filo della speranza e della rinascita di ‘Ntonio. Nonostante i suoi sforzi di inserirsi nel mondo del lavoro, ‘Ntonio comprende di essere diverso dagli altri, e ricade nel suo ruolo di emarginato senza alcuna speranza di cambiamento. Ecco che i concetti di scugnizzo, di emarginato e di povero si identificano.

L’ultimo scugnizzo è uno dei testi più famosi del teatro di Viviani che tocca la maggiore intensità nella Rumba degli scugnizzi, brano musicale notissimo.

Nel 1938 fu realizzata anche una riduzione cinematografica della commedia, Il personaggio di ‘Ntonio fu interpretato dallo stesso Viviani.


5.- Viviani racconta Napoli e la sua gente

Viviani liberò il suo popolo da quello stereotipo che lo vedeva avvezzo al riso, al canto, alla bonarietà e alla solarità; come se la sofferenza, la disperazione, il dramma fossero elementi estranei alla sua vita. Tutt’altro. Napoli, quella vera, non quella dei luoghi comuni, si trovava ad affrontare problemi gravi, e contro la precarietà doveva combattere la sua lotta quotidiana e cozzare contro una situazione economica non facile soprattutto negli anni successivi alla prima guerra mondiale. Il popolo di Viviani tira a campare spesso con espedienti; si inventa mille mestieri pur di non morire di fame; ma, nonostante ciò, i personaggi di Viviani sono pervasi da un sano ottimismo, che non porta alla disperazione, ma ad una cupa rassegnazione che diventa la forza per andare avanti e poter ironizzare sulla sorte quasi sempre avversa. I personaggi che affollano le strade ed i vicoli di Napoli sono tanti; disoccupati, prostitute, venditori ambulanti, guappi veri e finti, ladri; sono tutti diseredati che devono trovare il modo per sfamarsi e sopravvivere. I disoccupati sono tanti, “cresceno comm’ ‘e microbe”, ed ecco che chi ha un lavoro, pur ricevendo una paga modesta, non si lamenta; tanti altri sarebbero pronti a sostituirlo per quella paga da fame. Ecco perché la Napoli di Viviani pullula di ladruncoli, perciò rubare diventa una soluzione per potersi sostenere anche perché contro il destino avverso nulla si può fare. Ma questa è la barriera che Viviani vuole abbattere, il finto pietismo e la rassegnazione che nasce dal qualunquismo. Ecco che Viviani dà la parola alla classe operaia, che si è vista promettere un’industrializzazione mai avvenuta, ma continua a lottare, con forza e senza mai abbandonare l’umorismo. E’ stupenda la poesia: “‘A canzona d’ ‘a fatica”: c’è la consapevolezza, da parte dei personaggi, di lavorare per l’altrui benessere, senza però poter raggiungere il proprio.

I muratori, ironizzando, affermano:
Fravecanno ‘a casa ‘o prossimo,
sulo ‘a nostra sta ‘mprugetto:
‘o ‘ngigniere contr’all’architetto
pecchè ‘appaldo nun se sape a chi ‘hann’ a da’.

Nelle sue poesie è cantata la gente umile che lotta per sopravvivere in una società ostile, ma non si dispera, perché è una lotta che conduce nel segno della solidarietà. Le donne di Viviani, poi, sono un punto focale nella vita della strada, semplici, sagge, abituate ad affrontare ogni sorta di problemi, e a tirare fuori le unghie per difendere i propri uomini.

E’ il caso di Graziella, la protagonista della poesia: Canzone ‘e sotto ‘o carcere, che, fidanzata di un recluso, comunica al suo uomo, servendosi di una cantante, gli sviluppi delle indagini, cantando sotto le inferriate della sua cella. Queste sono donne forti che cercano l’uomo protettivo, forte, ma che sia sensibile; donne che all’occorrenza sanno come tenere a bada gli uomini che cercano di allungare le mani.

“La mia musa è facile e scorrevole. Nelle mie poesie non metto niente di più e niente di meno del necessario. Mi piace il quadro disegnato con poche pennellate, ma precise e fluide come la nostra lingua, parlata, senza che il verso risenta del tormento. Sono, direi così, un “poeta pittore”, perché mi piace fare la poesia colorita. A pennellate vivide, come chi descrivendo la colorisca. E ancora: Io non sono un letterato, sono un sensibile, un istintivo; attingo la materia grezza dalla vita, poi la plasmo, la limo e ne faccio opere teatrali, soffermandomi su quanto mi è rimasto impresso, vivendo la mia infanzia a contatto della folla, della folla varia, spicciola, proteiforme, multanime, pittoresca della mia terra di sole”.

La morte di Raffaele Viviani fu annunciata dai microfoni della radio da Silvio D’Amico; lui se ne andava ma il suo ricordo, vivo e pulsante, restava nella mente di chi lo aveva amato. Sui giornali si leggeva: Un grande attore scomparso, L’arte napoletana in lutto, E’ morto Raffaele Viviani, a testimonianza della perdita di un grande attore-autore di quel tempo “lui se ne va – scriveva Il Mattino – e noi vogliamo tenerci nell’intimo il ricordo del suo volto mezzo plebeo e mezzo nobile, della sua voce soave, o appassionata, o aspra, del suo gestire che punteggiava meravigliosamente le frasi, alla luce della ribalta. Il suo posto rimarrà vuoto forse per troppo tempo; forse, anche per sempre”.

Questa stessa sensazione la provava Mario Stefanile, che amò ricordare Viviani nell’ultima notte in cui lo vide recitare in redazione: “Fu una notte d’estate l’ultima volta che Raffaele Viviani salì in redazione e, nella stanza di Nazzaro, improvvisamente troncato a mezzo un discorso sul teatro, cominciò ad inventare le mille creature di Napoli, rifacendone le voci con la sua voce: roca e disperata, arsa e tetra, furente e appassionata. Nazzaro si stringeva in sé come in un suo freddo subitaneo, io chiudevo gli occhi e avrei voluto anche il cuore chiudere, qualcuno scappava via dalla stanza, certo per non scoppiare in singhiozzi: e Raffaele Viviani, snodandosi dalla sua sedia, movendo intorno il capo come un cieco che cerca il sole o un agonizzante che chiede l’aria che gli manca, s’alzava in piedi, a braccia ciondoloni lungo i fianchi sempre più alto, sempre più antico, sempre più leggendario era nella notte d’estate il venditore d’olive, il venditore di gamberi, il venditore di cocomeri, era Napoli quando si alza nelle notti della sua vita e canta frutti e cibi, calma la fame degli abitanti con la sua stessa nenia di tremila anni fa, avvia al sonno le creature dei vicoli e dei larghi, delle calate e dei fondaci. Poi, s’interruppe di colpo, si guardò intorno smarrito, rise, se ne andò via, rigido ed impettito, rasentando le pareti scomparve. Cominciava così ad andar via per sempre, cantando con la sua voce bruciata e straziante di dolcezza, lasciandoci nello scrigno della memoria, in un enorme silenzio di notte napoletana, le voci delle mille creature che di volta in volta egli fu, e restando in ognuna sé stesso, l’uccello di fuoco del nostro teatro, del teatro di ogni tempo e di ogni terra, il miracolo in terra di un’esplosione di vita che non si rinnoverà mai più”.



6.- L’autobiografia

Raffaele Viviani inizia a scrivere il libro delle sue memorie Dalla vita alle scene nel 1928, all’età di quarant’anni, in un momento di grande successo di questo genere letterario.

“Questo libro parla di come io nacqui, di come io pervenni, di come io ho sofferto e a prezzo di quali sforzi mi conquistai la notorietà”. (R. VIVIANI, Dalla vita alle scene, Napoli, Guida editori, 1988, p. 9.)

Vecchia e nuova Piedigrotta nei ricordi di Raffaele Viviani:

La prima sensazione della festa di Piedigrotta mi è rimasta fissa nel ricordo. Ero bambino, potevo avere un cinque anni, e già da poco cantavo al teatro dei “pupi” in Porta San Gennaro. La sera, tardi, poiché ero solito addormentarmi dopo il “mio numero” ancora con gli abiti da marionetta, che indossavo, il capo chino sulla spalla, seduto su un cassone, mio padre per non svegliarmi mi faceva deporre in un grosso cesto che serviva a portare la cena da casa e mi faceva trasportare sul capo da un suo scritturato, un tal Michele Migliatico.

Quella sera di Piedigrotta, tutto rannicchiato in quello strano vagone letto, ricordo che fui improvvisamente svegliato da un insolito frastuono, una gazzarra imprevista: suoni di “trummette”, voci, botte. Non ero abituato e mi misi a piangere, spaventato. Che accadeva intorno a me? Niente: tutto quel clamore indicava che era una notte di festa, la più incredibile delle feste. Volli scendere dalla cesta e fare il tratto dal teatro a casa a piedi, beato e meravigliato, trotterellando a fianco di mio padre.

Via Foria era come incendiata dai bagliori delle più avvampanti luminarie. Una marea di gente affollava la strada: tutti erano vestiti di curiose fogge e portavano sul capo berretti che non avevo visto mai ed ogni tanto davano fiato ad uno strano arnese ad imbuto che stringevano nelle destre e ne veniva fuori un latrato che a me sembrava sinistro. Altri soffiano inaspettatamente e veniva fuori dalla loro bocca una lingua lunghissima di carta: la lingua di Menelick; altri ancora gettavano piogge di coriandoli e nastrini di carta come per avvolgere l’aria in nodi impossibili. E quanto ben di Dio lungo i marciapiedi: maruzzari con i loro trofei a forma di cetra floreale e le loro pignatte di rame lucente, maccarunari con le loro caldaie fumanti e uomini i quali mangiavano avidamente grossi piatti di maccheroni, che scivolando come bianchi serpentelli nelle bocche semichiuse, sibilavano allegramente, nel risucchio della saliva. E poi fruttivendoli, venditori di fichi d’India, che gridavano: tre colpi un soldo ed il cliente s’avvicinava; era fornito d’un grosso coltello che serviva, a distanza, per “appizzare” a terra, il frutto; se l’operazione riusciva il fico d’India era mangiato. Spesse volte però, qualche ragazzetto furbo faceva distrarre il venditore e in un “batter d’occhi” “appizzava” il frutto da vicino.

. . . Piansi, ricordo, amaramente, quando mio padre mi costrinse a rincasare quella notte, e per più giorni, rimasi ‘nguttuso, avrei voluto andare pure io a Piedigrotta.

Ci andai già ragazzino, in compagnia di alcuni amici. Eravamo decisi quella notte a far baldoria, coscienti del nostro diritto a divertirci. Armatici di “trummette” e di tutti gli altri strumenti piedigrotteschi, rubati per via ai passanti, muovemmo verso la Riviera, dove più impazziva la festa, ebbri di gettarci nel turbine di quella notte incredibile. Tutto è permesso a Piedigrotta. Questo era il nostro grido.

Già più adolescente, e per seguire compagni più scavezzacolli, taluni dei quali veri e propri “scippatori”, cioè ladruncoli di frutta e di fazzoletti, in occasione di Piedigrotta, mi recavo con essi al Ponte di Casanova per la “petriata”.

Era una sorta di finta battaglia che avveniva fra due squadre: quella del Borgo Loreto e quella di Borgo Sant’Antonio, alla quale appartenevo: battaglia a sassi, che venivano lanciati, dietro l’ordine del caposquadra, a mezzo di rudimentali fionde, dette “giunchee”, di canapa intrecciata. I “guerrieri” erano vestiti di tutto punto: armi di latta, cimieri di stagno, decorazioni di carta. Purtroppo questo gioco che aveva sempre un suo pubblico fedele, tanto che un famoso organizzatore di carri voleva portare il “numero” davanti alla Commissione dei festeggiamenti, terminava sempre con qualche ferito vero. Una volta, il ferito fui io. Una pietra mi aveva colpito, al naso, rompendomi il “setto” (ecco perché il mio naso è ora di forma sui generis). Mio padre, severissimo, accorso sul posto, mi afferrò per un orecchio e dal Ponte di Casanova a casa nostra, al Vico Finale: ogni passo uno schiaffo, noncurante del sangue che mi colava copioso e dei miei pianti che assordavano l’aria più dei suoni strazianti delle trombette.

Da giovanotto, il mio interesse per Piedigrotta fu, dirò, più artistico e più di una volta fui fra i cantori sui carri famosi che erano soliti sfilare fra la calca di popolo. Ma il ricordo di quel “mazziatone” paterno non mi abbandonò mai. Ed anche adulto, rincasando all’alba, dopo la festa fui sempre preso dalla nostalgia di mio padre.

Com’erano belli e festosi i carri di Piedigrotta. Anche le cavalcate, che imponenza! Quella di Carlo d’Angiò con tutto il seguito: cavalli bianchi, con gualdrappe reali e centinaia di valletti. La cavalcata coloniale era anch’essa di una fantasia incredibile. Il re negro, piumato, e i mori, dei bruttissimi ceffi nostrani che la gente, al passaggio, riconosceva di sotto le barbe ed il trucco e chiamava per nome: “Viciè…” “Aità…”.

La giuria era a piazza Sannazzaro, su un palco costellato da lampadine tricolori, pronta a giudicare, mentre dal mare i fuochi pirotecnici illuminavano centinaia di barche, ciascuna con una sua orchestrina a bordo e la sua comitiva. Non si sapeva più dove volgere lo sguardo, si era attoniti ad ammirare ogni cosa e si respirava la gioia di vivere, quella sera. Il mio popolo era come me, felice.

Sentiva la sua festa.
Sta festa ‘o ssa
nasce e more ccà!
Chi ‘a vo’ rifà
nun ‘a po’ imità!
È stesso ‘o popolo che ‘a da,
e chistu popolo sta ccà,
e a nisciun’atu pizzo ‘e munno a’ può truvà!

Ci sono tornato ad una festa di popolo, a quella della Madonna del Carmine, questo anno. C’erano le bancarelle come una volta, le arcate luminose; la folla gremiva la vasta piazza del Mercato, sempre. Ho visto gli stessi fuochi di prima e l’incendio del Campanile di fra Nuvolo. Ma la gioia non ho respirato, né l’ebbrezza pagana della plebe nella sua esaltazione divina. La gente camminava sulle macerie. Ad ogni passo, ciascuno le sentiva sotto le scarpe e doveva stare accorto per non cadere. Le facce gialle, rosse, verdi, illuminate dai fuochi artificiali erano ferme a guardare composte e pensose, come se lo spettacolo non fosse tripudio. Tra la gente e la festa, era passata la guerra con i suoi bombardamenti, con le sue rovine, con i suoi morti.



* Scrittore, poeta e giornalista napoletano

Da: Napoliflash24.it

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