La Biennale Internazionale di Mosca per la Giovane Arte

di  Andrey Shental Mentre le istituzioni statali russe stanno vivendo tempi difficili a causa dei tagli economici e dello smant...



di  Andrey Shental

Mentre le istituzioni statali russe stanno vivendo tempi difficili a causa dei tagli economici e dello smantellamento di diverse infrastrutture, la quinta Biennale Internazionale di Mosca per la giovane arte ha aperto in tutta la sua gloria, rivelando un rimpasto della corrente élite. La mostra centrale raccoglie circa novanta artisti da più di trenta paesi, ma il numero di partecipanti agli eventi collaterali sparsi in tutta la città è praticamente innumerabile. L’intera Mosca, come la città di Gatlin ne I Figli del Grano [Stephen King, 1977 n.d.r.], è stata occupata dalla gioventù. La discriminazione alla rovescia di questa edizione ha raggiunto un picco parricida: non solo è promossa unicamente la “young art”, ma i curatori, i commissari e i designer sono stati assunti in base alla loro età biologica (obbligatoriamente under trentacinque).

I tre progetti strategici presentati in questa edizione, sebbene incoraggino un dialogo con la scena artistica locale, sono esemplificativi di approcci filosofici molto popolari tra le pratiche artistiche e curatoriali odierne.




Con un tono da manifesto, la sezione “Hyperconnected” del curatore Joao Laia fa riferimento sia all’ontologia dell’oggetto che all’antropocene come a due modi utili a decentralizzare la primazia della soggettività umana. Proponendo una fusione tra la cultura e la natura, Laia privilegia le relazioni che vanno al di là del Soggetto – un pensiero che la filosofia moderna, da Cartesio in poi, ha fortemente rifiutato. Colorata, luminosa e kitsch, la mostra stipa assemblaggi ibridi in cui il digitale condivide la stessa estensione del naturale. In questo bio-capitalismo il corpo non è più integrale, ma è frammentato e penetrato dalle nuove tecnologie che paiono “morbide, leggere, viscose, gelatinose” (Preciado). Tuttavia, in questa piatta ontologia presentata da Laila, in cui relazioni casuali diventano lascive e promiscue, si annulla l’idiosincrasia della composizione. Proponendo attitudini piuttosto che soggetti materici e facendo eco all’ultima Documenta, si cancella qualsiasi tipo di voce autoriale.

Di contrasto, la mostra a cura di Silvia Franceschini e Valeria Mancinelli “Time of Reasonable Doubts” rimane all’interno della tradizione continentale – il titolo allude allo scetticismo cartesiano. Si potrebbe affermare che l’esposizione spazializzi “il trascendentale”, rendendolo palpabile e solido. Seguendo la tradizione di Foucault, si impone la nozione kantiana di “condizione di possibilità” nel campo del discorso e della conoscenza, mettendo in primo piano il modo in cui la percezione è strutturata dai “protocolli che governano il tempo presente”. A differenza di “Hyperconnected” – decisamente più libera e dal finale aperto – la mostra risulta austera e rigorosa e predilige un display più tradizionale, con colori acromatici e testi senza fine.


Il progetto principale “Deep Inside” di Nadim Samman, vincitore di una open call su invito, si situa tra questi due approcci antitetici. Con tutta la sua eloquenza, Samman affronta gli stessi problemi che riscontra Laia, mettendo però da parte le lenti antropomorfiche. Ritorna indietro sulle sue parole, enfatizzando quella conoscenza scientifica che segue le nuove forme di controllo arrivate a manipolare ciò che fino ad oggi era considerato inviolabile. Questo nuovo regime politico, come nel progetto di Franceschini e Mancinelli, contiene alcune fratture che gli artisti hanno occupato e attualizzato attraverso differenti modelli di resistenza. Nonostante la mostra rifletta sulle nuove modalità di sorveglianza, le tecnologie sintetiche e le traiettorie di dati, nessuna delle opere presenti considera la disposizione del potere che giace superficialmente.

Trekhgornaya Manufaktura, la fabbrica tessile che ha rivestito un ruolo considerevole nella Rivoluzione del 1905, è stata recentemente acquisita dall’oligarca Oleg Deripaska che l’ha violentemente liberata dai suoi occupanti. Ospitando una biennale internazionale, si spera di attrarre potenziali costruttori e locatari che possano creare un nuovo cluster creativo per giovani prosumer culturali. Certamente questa mancanza di dialogo con il contesto locale non è un lato negativo di una delle mostre in particolare che, fortunatamente, differiscono dall’edizione precedente. È tuttavia un problema strutturale della “giovane biennale” stessa che dalla sua nascita è stata più focalizzata sul networking, l’autopresentazione e l’arricchimento del Curriculum.

* Traduzione dall’inglese di Giulia Gregnanin



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