Il Parmigianino e L'Alchimia

Intorno ai rapporti di Francesco Mazzola detto il Parmigianino (1503\1540) con la scienza alchemica, desunti da attendibili fonti storiche ...

Intorno ai rapporti di Francesco Mazzola detto il Parmigianino (1503\1540) con la scienza alchemica, desunti da attendibili fonti storiche e per lungo tempo dimenticati, da alcuni anni si è molto detto e scritto. Il breve saggio di Andrea De Pascalis vuole riassumere i punti principali a favore e contro l’ipotesi di un’interpretazione alchemica delle opere del Parmigianino


Di  Andrea De Pascalis* 

Autoritratto in specchio convesso (1524 circa)


1. Le fonti

Ne Le Vite, edizione del 1550, Vasari attribuisce al Parmigianino un interesse così forte e dissennato per l’alchimia da averlo condotto alla rovina:

“Ma il cervello, che aveva a continovi ghiribizzi di strane fantasie, lo tirava fuor de l’arte: potendo egli guadagnare quello oro, che egli stesso avrebbe voluto: con quello che la natura nel dipignere, e’l suo genio gli avevano insegnato. Et volse con quello, che non potè mai imparare, perdere la spesa e il tempo, et farsi danno alla propria vita. Et questo fu ch’egli stillando cercava l’archimia dell’oro, et non si accorgeva lo stolto, ch’aveva l’archimia nel far le figure; le quali con pochi imbratamenti di colori, senza spesa, traggono de le borse altrui le centinaia de gli scudi. Ma egli in questa cosa invanito, et perdutovi il cervello, sempre fu povero; e tal cosa gli fe’ perdere tempo grandissimo, et odiarlo da infiniti, che più per il suo danno, che per il loro bisogno, di ciò si dolevano...”

L’interesse del Parmigianino per l’alchimia è collocato da Vasari in un’epoca ben precisa della vita del pittore, quella più estrema: “Poi si tolse a fare alla Madonna della Steccata una opera grandissima a fresco...In questo tempo si diede all’alchimia, et pensando in breve arricchirne, tentava di congelare il Mercurio...”. Il lavoro alchemico avrebbe provocato il dissesto economico e la rovina mentale dell’artista, che sempre più trascurava i pennelli per dedicarsi alle manipolazioni alchemiche: “Perché tenendo egli di molti fornelli et spese, non poteva riscuotere tanto dell’opera, quanto in tal cosa consumava. La qual pazzia fu cagione, ch’egli lasciato per dilettazione di tal novella, la utilità e il nome dell’arte propria, per la finta et vana, in malissimo disordine della vita e dell’animo si condusse”. 

Presto l’interesse per l’alchimia divenne così esclusivo da impedire di concludere il lavoro alla Steccata, incorrendo nelle ire dei committenti, che si rivolsero alla giustizia: “Là onde egli non potendo resistere, una notte si partì di Parma; et con alcuni suoi amici si fuggì a San Secondo; et quivi incognito dimorò molti mesi, di continuo alla alchimia attendendo. Et perciò aveva preso aria di mezzo stolto; et già la barba e i capelli cresciutigli, aveva più viso d’uomo salvatico, che di persona gentile come egli era”. 

Sempre secondo la testimonianza di Vasari, l’alchimia fu indirettamente la causa della morte dell’artista, poiché, essendosi il Parmigianino riavvicinato a Parma, i committenti lo fecero imprigionare, costringendolo alla promessa di dar fine all’opera. “Ma fu tanto lo sdegno che di tal cattura prese, che accorandosi di dolore, dopo alcuni mesi si morì d’anni XXXI...”.

L’edizione 1568 de Le Vite tratteggia in modo più dettagliato le condizioni del Parmigianino alle prese con la febbre per l’alchimia: “Intanto cominciò Francesco a dismettere l’opera della Steccata, o almeno a fare tanto adagio, che si conosceva che v’andava di male gambe; e questo avveniva, perché avendo cominciato a studiare le cose dell’alchimia, aveva tralasciato del tutto le cose della pittura, pensando di dover tosto arricchire, congelando mercurio;...e non avendo altra entrata, e pur bisognandogli anco vivere, si veniva così consumando con questi suoi fornelli a poco a poco...”. 

In questa versione de Le Vite il Parmigianino, abbandonata la Steccata dopo la lite con i committenti, fuggì a Casal Maggiore  “dove uscitogli alquanto di capo l’alchimie, fece per la chiesa di Santo Stefano, in una tavola la nostra Donna in aria, e da basso San Giovanbattista e Santo Stefano...”. Fu una breve tregua, poiché “Francesco, finalmente, avendo per sempre l’animo a quella sua alchimia, come gli altri che le impazzano dietro una volta, ed essendo di delicato e gentile, fatto con la barba e chiome lunghe e malconce, quasi un uomo salvatico ed un altro da quello che era stato, fu assalito, essendo mal condotto e fatto malinconico e strano, da una febbre grave e da un flusso crudele, che lo fecero in pochi giorni passare a miglior vita...”. A condurre l’artista alla tomba  non sarebbe stato dunque il dispiacere per l’essere stato condotto in prigione, ma una malattia caratterizzata da malinconia e febbre.
  
2. La fine del Parmigianino: testimonianza storica o stereotipo letterario?

La testimonianza del Vasari non è accettata da tutti. D’altro canto, la tradizione del Parmigianino alchimista tramandataci da Vasari non non era unanime, se appena sette anni dopo la prima edizione de Le Vite, in Dialogo della pittura intitolato l’Aretino (Venezia 1557) L. Dolce scriveva che “Il Parmigianino fu incolpato a torto ch’egli attendesse all’alchimia...”.  M. Fagiolo Dell’Arco e altri autori prima di lui (1) rifiutano la versione del Dolce ritenendo che essa nascesse  da un atteggiamento moralistico: a loro avviso, L. Dolce condivideva l’opinione di quanti nel suo tempo consideravano l’alchimia un’arte eticamente riprovevole, e smentiva di proposito la fama alchimistica del Parmigianino per non screditare la figura dell’artista.

E’ anche vero che la versione di Vasari è avvalorata da un’altra attendibile fonte quasi coeva, Edoari da Herba, che ricorda il Parmigianino come “peritissimo alchimista”.

Se consideriamo l’effettiva posizione dell’alchimia nella società europea del XVI secolo, troviamo che le motivazioni addotte per rifiutare la testimonianza di L. Dolce sono labili. L’alchimia non fu mai considerata arte eticamente illecita, salvo nei casi in cui essa fu piegata alla falsificazione dei metalli a scopo di lucro. Nel XIV e XV secolo la questione della liceità dell’alchimia era stata ampiamente soppesata da teologi e giuristi: i primi tendevano a ritenere l’alchimia una scienza falsa ma non magica o diabolica (tale era la posizione espressa, ad esempio, nel 1486-1487 nel manuale inquisitoriale Malleus Maleficarum di H. Institor e J. Sprenger); i secondi si schierano pressoché unanimemente per la liceità dell’alchimia, al punto che sul finire del XV secolo Hyeronimus de Zanetinis prendeva atto dell’esistenza di una tradizione giuridica di due secoli a favore dell’alchimia (2)

D’altro canto, per gli stessi motivi la testimonianza del Vasari sull’interesse del Parmigianino per l’alchimia non può essere rifiutata a priori. I rapporti tra pittura e alchimia nel XV/XVI secolo sono stati ormai ampiamente dimostrati (3) . Pittori alchimisti furono van Eyck e Beccafumi. E di Cosimo Rosselli (1439-1507) lo stesso Vasari scrive che “La sua passione per l’alchimia fu causa...che lo condusse ad un’estrema povertà”. 

Semmai questa seconda testimonianza del Vasari, riferita a Rosselli e anch’essa centrata sull’interesse per l’alchimia come fattore che conduce l’artista alla rovina, dovrebbe costringerci a chiederci quanto siano attendibili i dettagli vasariani sulla fine del Parmigianino. Dai brani sopra citati, dal loro tono, appare chiaro che Vasari ritiene l’alchimia una scienza illusoria. Nella cultura europea del Medioevo e del Rinascimento l’alchimia fu accolta con sentimenti contrastanti (4). Se da un lato l’alchimia fa studiata o praticata anche da principi e re, dall’altro essa non riuscì a entrare nelle università, dove pure era accolta e insegnata l’astrologia. Come si già detto, i teologi tendevano a considerare l’alchimia una falsa scienza, in ciò seguendo il giudizio di Tommaso d’Aquino, per il quale l’alchimia era una scienza teoricamente possibile ma i cui procedimenti di imitazione della natura molto difficilmente potevano essere realizzati in laboratorio.(5) 

Sulla liceità dell’alchimia non disputavano solo teologi e giuristi. Anche eruditi e uomini di scienza polemizzavano spesso se l’alchimia fosse scienza vera o falsa, e su questo problema scrissero dei trattati. Il più noto di questi testi era la Pretiosa margarita novella, opera scritta nel 1330 circa dal medico lombardo Pietro Bono e ancora molto nota all’epoca del Parmigianino, tanto da essere stampata a Venezia nel 1546. (6)  E nel 1544 fu scritto a Firenze Questione sull’alchimia di Benedetto Varchi, che discettava se l’alchimia fosse “vera e lodevole, o falsa e biasimevole”.(7) 

I dubbi sull’alchimia erano stati accolti da figure di spicco della cultura europea del XIV-XVI secolo, ispirando un modello letterario che raffigurava l’aspirante alchimista come un disgraziato che va incontro alla rovina personale e sociale.

Nel De remediis utriusque fortunae, del 1366 circa, Francesco Petrarca scriveva: 

“Individui ricchissimi si consumano per tale futilità. E mentre si sforzano di diventare più ricchi, dedicandosi a questa brutta faccenda, gettano via malamente le ricchezze guadagnate bene. E infine, avendo speso così i loro averi, viene loro a mancare perfino quanto è necessario ai più elementari bisogni. Alcuni, evitando la conversazione degli altri cittadini, se ne stanno in disparte, angosciati e addolorati, avendo preso l'abitudine di non pensare ad altro che ai mantici, alle pinze e ai carboni, e di non frequentare altri che non appartengano alla stessa eretica consorteria; e quasi diventano uomini selvatici. Alcuni, avendo smarrito dapprima la luce della ragione, hanno poi perso anche la luce degli occhi in questo esercizio».(8)

Per Petrarca la pratica dell'Arte conduce al disordine della vita individuale e familiare. Egli così avverte l’aspirante alchimista: «La tua casa si riempirà di ospiti strani e di apparecchi bizzarri. Si riempirà di mangioni e di beoni... di bugiardi, di impostori e di soffiatori... In ogni angolo della casa vi saranno bacinelle, fiale e bocce piene di acqua fetida, di erbe sconosciute, di strani sali, solfo, alambicchi e fornelli....Vi saranno affanni inutili, stoltizia, squallore del viso e caliggine degli occhi... Condurrai la tua vita con vergogna e con biasimo, lavorando di notte, nascondendoti come i ladri».(9)

 Anche per Geoffrey Chaucer - ne il Racconto del famiglio del canonico, uno del Canterbury Tales, 1388 -  l'alchimia è una «dannata» e «balorda scienza sfuggente», che riduce sul lastrico coloro che la perseguono, e gli alchimisti vi sono descritti come individui che ovunque si rechino possono essere riconosciuti per l'odore di zolfo che emanano e per il loro aspetto male in arnese.

Lo stereotipo letterario dell'alchimista folle si rinforzò nei decenni a cavallo tra XV e XVI secolo. Nel 1494 fu pubblicato a Basilea il poema satirico-didascalico Narrenschiff (Nave dei folli) di Sebastian Brant, che metteva alla berlina anche quanti desideravano arricchirsi con «la brutta menzogna dell'alchimia», riuscendo soltanto a ridurre in polvere e cenere le loro ricchezze. Nell'Elogio della follia (1511) di Erasmo da Rotterdam gli alchimisti sono: «Coloro che con nuove e misteriose arti cercano di trasformare la specie naturale delle cose e vanno a caccia per terra e per mare di una misteriosa quintessenza. Questa dolce speranza li domina tanto che non retrocedono davanti ad alcuna fatica né spesa, e con meravigliosa inventiva escogitano ogni volta qualcos'altro, e, se s'ingannano, godono persino della delusione, finché, sfumato tutto il loro avere, non hanno più neanche il necessario per costruirsi una stufetta».(10)

D’altro canto, queste raffigurazioni letterarie dell’alchimista corrispondevano ad una realtà precisa. Nel De secretissimo philosophico opere chemico, attribuito all’alchimista tedesco Bernardo di Treves e certamente scritto nella seconda metà del XV secolo (11), l’autore descrive la vicenda della propria ricerca alchimistica come un ininterrotto dilapidare per decenni le sostanze di famiglia in inutili esperimenti. Il presunto Bernardo di Treves descrive l’alchimia dell’epoca come una specie di follia collettiva che aveva investito l’Europa: “Ho visto molti uomini, anzi infiniti, che si affaticavano in queste amalgamazioni e nelle moltiplicazioni al bianco e al rosso, con tutte le materie immaginabili...”. (12) 

Ad un certo punto la vergogna del fallimento è tale che: “Per la qualcosa, non potendo quasi né bere né mangiare, diventai così magro che tutti pensavano fossi stato intossicato da qualche veleno...”.(13)

Parmigianino apparteneva realmente alla schiera degli “infiniti” che “congelavano il mercurio” fino all’autodistruzione fisica o il Vasari volle soltanto rappresentare la morte dell’artista - in realtà dovuta a qualche malanno ignoto — secondo lo stereotipo letterario sull’alchimia così in voga nel suo tempo? Alla luce degli elementi disponibili, entrambe le ipotesi sembrano possibili.


La Madonna dal collo lungo (1534)

3. Alchimia e ermetismo nella cultura europea (XII-XVI sec.)

In che cosa consisteva la ricerca alchemica all’epoca del Parmigianino?

L’alchimia era arrivata in Europa alla metà del XII secolo, con le traduzioni in latino effettuate sui testi arabi, in Spagna. Prima di quest’epoca erano giunti in Europa da Bisanzio solo pochi trattati ellenistici sulle tinture dei metalli. E infatti nella prefazione alla propria traduzione in latino del testo arabo poi noto come Libro di re Khalid, effettuata nel 1144, Roberto di Chester scriveva: “Cosa sia l’alchimia, e quale sia la sua composizione, che la latinità non ha ancora conosciuto, lo spiegherò in questo libro”. (14)

L’alchimia araba era a sua volta l’erede dell’alchimia ellenistica, fiorita in Egitto nei primi secoli della nostra era. La questione delle origini dell’alchimia è complessa, e la discussione delle diverse ipotesi esula da questa sede. E’ appena necessario sapere che l’alchimia nacque dall’incontro in Egitto tra tecniche artigianali di lavorazione e di falsificazione dei metalli, speculazioni magico mistiche orientali (persiane e forse ebraiche) e la gnosi ermetica. Già nelle prime opere di alchimia a noi note —trattati di Zosimo di Panopolis, il Libro di Comario, etc. (15)— la ricerca della trasmutazione dei metalli vili in oro si sovrappone e si confonde con quella della rigenerazione spirituale dell’operatore. Come il metallo vile viene fatto morire nel crogiolo perché possa rinascere purificato come metallo perfetto e immortale (l’oro), così - su un diverso piano - l’alchimista persegue un processo di morte e purificazione spirituali per riconquistare la perfezione dell’uomo edenico. Nell’ellenistico Il Libro di Comario mezzo di tale duplice trasformazione è un pharmakon di vita che si ottiene con il lavoro alchemico.

Se l’alchimia (o Arte sacra, come la chiamavano gli alchimisti ellenistici) era certamente ispirata dalla gnosi ermetica, è altrettanto certo che tra i testi ermetici propriamente detti (posti cioè sotto il nome di Hermes Trismegisto) a noi noti esistono libri di magia e di astrologia, ma non un solo testo di alchimia. Anche se Hermes viene indicato come padre dell’Arte sacra dallo stesso Zosimo, ermetismo e Arte sacra non sono sinonimi.

Dall’Egitto ellenistico l’alchimia si attestò in Siria, dove probabilmente si arricchì di elementi dottrinari provenienti dall’estremo Oriente, e da lì fu assorbita dalla cultura araba. Anche tra gli arabi l’alchimia fu un insieme inestricabile nella cui letteratura i segreti sulla lavorazione dei metalli si mischiano a quelli che dovrebbero consentire all’alchimista di riconquistare la perfezione primordiale. (16)

Per qualche tempo l’alchimia latina conobbe soltanto le traduzioni dei testi arabi, come le opere di Jabir, la Tavola smeraldina, la Turba dei Filosofi, etc. Agli inizi del XIII secolo apparvero i primi testi originali di alchimia latina, compresi alcuni trattati presentati come traduzioni di libri di Jabir (latinizzato Geber) ma in realtà scritti da un europeo.

All’epoca del Parmigianino i testi di riferimento erano costituiti dalle traduzioni dall’arabo sopra citate, dai libri del falso Geber, dalle opere di Arnaldo di Villanova, dello pseudo Raimondo Lullo, di Giovanni di Rupescissa, di Bernardo di Treves.

Nei trattati di alchimia latina sono prevalenti ( o forse sono più evidenti) gli aspetti tecnici legati alla lavorazione dei metalli rispetto alle pretese magico-mistiche, anche se ad una più profonda lettura alcuni di essi sono interpretabili anche come tecniche di manipolazioni delle energie psicofisiche, in linea con le pretese di parte dell’alchimia cinese, ellenistica ed araba.

Capisaldi teorici della prima alchimia latina sono: l’unità della materia; i due princìpi (Solfo e Argento vivo); la teoria dell’evoluzione dei metalli (che nella miniera si trasformano da imperfetti a perfetti grazie agli influssi delle forze naturali, per cui l’alchimista non fa altro che riprodurre in laboratorio, con ritmo accelerato, l’opera della natura); la suddivisione delle operazioni in sette o più fasi (caratterizzate da cambiamenti di colore della materia lavorata, di cui le principali sono nigredo, albedo e rubedo); la fabbricazione della Pietra filosofale e/o dell’Elisir al rosso come obiettivo finale della ricerca. 

Questo sistema rimase pressoché immutato fino a Paracelso (1493 o 1494-1541), che spostò l’accento dell’alchimia sugli aspetti naturalistici e medici, facendo dell’alchimia una scienza finalizzata non più alla fabbricazione dell’oro ma alla preparazione di medicine per curare i malati. (17)  Da un punto di vista tecnico Paracelso non fu un innovatore, poiché riprese idee e scoperte di Villanova, Rupescissa, lo pesudo Lullo. Fu soltanto con Paracelso però che i due principi costitutivi della materia (Solfo e Mercurio o Argento Vivo) divennero tre (i tria prima) con l’aggiunta del Sale (principio “neutro”) ai primi due. I libri di Paracelso divennero noti dopo la sua morte. Ne consegue, ad esempio, che il Parmigianino non poteva conoscerli e che l’alchimia cui si dedicò era quella pre-paracelsiana, basata su due soli principi costitutivi della materia. 

L’epoca di Parmigianino, invece, fu quella della riscoperta della filosofia ermetica che fece seguito alla traduzione in latino (dal greco) - da parte di Marsilio Ficino - del Corpus Hermeticum, raccolta di 17 trattati attribuiti al mitico Hermes Trismegisto importata nella Firenze di Cosimo dei Medici nel 1460 dall’impero di Bisanzio. 

Fino ad allora si era attribuita ad Hermes grande fama, ritenendolo un sapiente realmente vissuto in tempi remoti, il quale secondo l’interpretazione di Lattanzio (III-IV secolo) aveva addirittura profetizzato l’avvento del Cristo. Nel contempo tra gli scritti ermetici si conosceva solo il Pimandro e qualche frammento. La traduzione del corpus fece diventare l’ermetismo una filosofia alla moda nel mondo rinascimentale. Influenzata dall’ermetismo nacque una magia rinascimentale dotta, che soppiantò la vecchia magia diabolica e popolare dei grimori. In questo spirito erano nate la Qabbalah cristiana di Pico della Mirandola (1463-1494) e la Occulta Philosophia di Cornelio Agrippa (1486-1535). Imbevuto di ermetismo, neoplatonismo e qabbalah (oltre che della “vecchia” astrologia), il mago rinascimentale divenne un sapiente che mirava alla conoscenza suprema, usando strumenti come la meditazione sui simboli e le speculazioni sui numeri e le lettere dell’alfabeto. (18)

L’alchimia pre-paracelsiana, anche se imbevuta fin dall’origine di filosofia ermetica, non può essere identificata con la magia rinascimentale. 

Inizialmente le rimase estranea, tanto che né Pico della Mirandola né Marsilio Ficino furono realmente interessati all’alchimia, anche se ad entrambi furono attribuiti alcuni apocrifi. (19)

Alchimia e magia ermetico-qabbalistica acquisirono connessioni più strette soltanto con Cornelio Agrippa e, in maggior grado, con John Dee (1527-1587), che diede vita ad un’alchimia più speculativa che pratica.

Per tutti questi motivi l’alchimia cui eventualmente si dedicò  Parmigianino era ancora un’alchimia pratica, interessata soprattutto a distillare e calcinare le più diverse sostanze per estrarne Solfo e Argento Vivo purificati. Ed è appunto quanto testimonia Vasari. 

Ritratto del conte Galeazzo Sanvitale (1524)

4. Sul simbolismo di alcune opere

Chi ha ricercato tracce di simbolismo alchemico nelle opere del Parmigianino si è soffermato soprattutto sul ritratto del conte Sanvitale (1524), sull’affresco ispirato al mito di Atteone a Fontanellato (1524) e sulla decorazione incompiuta della Chiesa di S. Maria della Steccata, affidata al pittore nel 1531.

Bisogna notare, anzitutto, che se si presta fede a Vasari le prime due opere furono eseguite alcuni anni prima che il pittore cominciasse ad  interessarsi all’alchimia.

Il ritratto Sanvitale -  Comunque, ad attirare l’attenzione generale di quanti hanno cercato i segni del simbolismo alchemico anche nelle opere precedenti gli anni dell’interesse alchemico del Parmigianino è stato soprattutto il numero 72 raffigurato nel medaglione posto nella mano destra del conte Sanvitale. Per Fagiolo Dell’Arco esso avrebbe un chiaro significato ermetico, poiché - in base alle corrispondenze numeri/pianeti/metalli - il 2 corrisponde a Giove e il 7 alla Luna, il che equivarrebbe ad una coniunctio (la congiunzione tra gli opposti è uno dei capisaldi delle pratiche alchemiche). (20) 

Ma l’autentica congiunzione di cui parlano gli alchimisti è quella tra Re e Regina, tra principio maschile e femminile, ossia tra Solfo e Mercurio, simbolicamente raffigurato in tutta l’iconografia alchemica come unione tra Sole e Luna, e non tra Giove e Luna. D’altro canto, le corrispondenze tra numeri e pianeti variava quasi da autore ad autore di alchimia. E infatti per Van Lennep, che evidentemente attinge a fonte diversa da Fagiolo dell’Arco, il 7 è il numero di Saturno e il 2 quello di Giove. (21) 

Per C. Mutti addirittura il 72 corrisponde all’unità nel tutto. (22) Se proprio avesse senso cercare un significato al 72 in chiave di simbolismo alchemico, si dovrebbe dire più semplicemente che il 7 è il numero dei metalli e dei pianeti e che 2 è il numero dei due princìpi costituitivi della materia metallica al tempo del Parmigianino (Solfo e Mercurio, poiché il terzo principio, come già detto, fu introdotto solo da Paracelso).

Tuttavia, se un significato esoterico vi è nel medaglione del ritratto Sanvitale è più plausibile che esso sia da ricercarsi su piste piuttosto lontane rispetto a quelle dell’alchimia. Qualche decennio prima che fosse dipinto il ritratto, nell’ambiente umanista italiano aveva fatto irruzione  la qabbalah. Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494) aveva suscitato grande interesse con le sue conclusiones sulla qabbalah, composte da due serie di argomentazioni, la seconda delle quali, anche se porta il titolo di Conclusiones cabalisticae LXXI,  è in realtà composta di 72 conclusioni. Un numero, questo, importantissimo nel simbolismo qabbalistico, come spiegato dallo stesso Pico in quella parte delle sue Conclusiones dedicata al mistero dei nomi divini: “Chi sarà stato in grado di trasformare il numero quattro nel numero dieci avrà modo, se sarà esperto in qabbalah, di dedurre, dal nome ineffabile, il nome di settantadue lettere” (23). Il nome di Dio composto da settantadue lettere era considerato dai qabbalisti il più potente di tutti i settantadue nomi divini, tant’è che pronunciarlo suscitava effetti magici straordinari. Il nome di Dio è molto di più di un attributo, poiché partecipa dell’essenza stessa della divinità, in un certo qual modo è la sostanza stessa della divinità. 

Rivelati da Giovanni Pico della Mirandola al mondo rinascimentale, la mistica del più arcano dei nomi divini e il connesso simbolismo del numero 72 si erano diffusi ulteriormente con la pubblicazione nel 1517 del De arte cabalistica di Johannes Reuchlin  (24)  e, via via, con le opere degli altri qabbalisti cristiani. Il tempo e i luoghi sono gli stessi in cui si formò Parmigianino, cosicché il medaglione del ritratto Sanvitale addita una possibile chiave interpretativa, quella del simbolismo qabbalistico, finora rimasta inesplorata.   

L’affresco del mito di Atteone - Quanto al mito di Atteone, per Fagiolo dell’Arco si tratta anch’esso di un simbolo della congiunzione. (23)  Mutti e Van Lennep vi vedono una rappresentazione del “furore eroico”, poiché tale era il significato ermetico attribuito a questo mito da Giordano Bruno. Bruno visse dopo Parmigianino e come filosofo ermetico non era minimamente interessato all’alchimia, anzi nella sua commedia Il candelaio mise alla berlina le ricerche alchemiche: ciò dimostra una volta di più che nel Rinascimento filosofia e magia ermetica non coincidevano con le teorie alchemiche, e l’interesse per l’alchimia non coincideva necessariamente con l’interesse per la magia ermetica e viceversa.

E’ pur vero che gli alchimisti usavano attribuire significati alchemici ai miti dell’antichità. Quest’uso fu molto in voga nel XVII e XVIII secolo, ma i suoi presupposti risalgono a molto prima. In De Alchemia dialogi duo (1548) l’italiano Giovanni Bracesco già forniva i significati alchemici di una serie di miti e di personaggi della mitologia greca, tra i quali non figura comunque il mito di Atteone.

In realtà le miniature dei manoscritti alchemici dimostrano come il simbolismo alchemico tra XIV e XV secolo avesse connotazioni diverse da quelle mitologiche. (24)  E anche l’esame dei manoscritti alchemici circolanti in Italia fatta da Giovanni Carbonelli mostra immagini che fanno riferimento piuttosto ad aquile, draghi, alberi, sole, luna, stelle ed altri simboli non mitologici. (25)

E’ ben vero che - come sostiene Fagiolo dell’Arco - la metamorfosi di Atteone potrebbe voler significare la metamorfosi della materia e dell’operatore stesso così cara all’alchimia, ma è impossibile dimostrare che questo fosse il significato profondo dell’affresco. D’altro canto, ne La metamorfosi di Atteone il dettaglio delle donne al bagno ricorda piuttosto, anche sotto l’aspetto formale, un dettaglio di una delle 22 miniature dello Splendor Solis, testo di alchimia del XVI secolo (la copia più antica è del 1532-1535), in cui le bianche figure femminili che si bagnano in una vasca simboleggiano piuttosto il bagno di Diana ossia l’albedo (processo di imbiancamento).

Semmai si insistesse a ricercare significato alchemico in quest’affresco, il senso occulto dell’opera sarebbe questo, essendo il bagno di Diana un simbolo ben noto all’alchimia dell’epoca del Parmigianino.

Tre particolari dagli affreschi della saletta di Diana e Atteone nella Rocca di Fontanellato.

La Steccata -  Risalendo ad un periodo successivo all’approccio di Parmigianino all’alchimia, l’affresco della Steccata dovrebbe essere l’opera dell’artista nella quale ricercare con più attenzione tracce del simbolismo alchemico.

In realtà nell’opera non appare nulla di così evidente. Esistono tuttavia alcuni elementi sui quali conviene soffermarsi.

L’insieme costituito dalla tre vergini stolte e le tre vergini savie è caratterizzato dal fatto che le sei vergini sono tutte raffigurate con un’anfora sul capo. Il modello iconografico della fanciulla che reca un’anfora sul capo non è sconosciuto all’alchimia. 
  
Particolare degli affreschi del santuario parmense della Madonna della Steccata.
Le vergini sono raffigurate con un'anfora sul capo.
Le vergini-elemento, nei cui vasi sono raffigurati diversi momenti della grande opera.
(J. D. Mylius, Philosophia reformata, Francoforte 1622)

Vedasi l’insieme delle quattro figure femminili con l’anfora sul capo che simboleggiano i quattro elementi e le corrispondenti fasi della Grande Opera in un’incisione del primo Seicento (26). Nel caso delle immagini alchemiche, però, l’elemento centrale è costituito non dalle figure femminili ma in ciò che si intravede nei vasi semitrasparenti che recano sul capo. Nell’immagine alchemica sopracitata, infatti, in trasparenza si distinguono nei quattro vasi altrettanti simboli che Jung interpreta come quelli di nigredo, albedo, citrinatio, rubedo.

Nella già citata serie di XXII miniature dello Splendor Solis, all’incirca coeve del periodo alchemico del Parmigianino, le immagini 12-18 mostrano tutte il vaso alchemico in trasparenza, con all’interno simboli che rappresentano le corrispondenze tra regimi e pianeti. Questa caratteristica della trasparenza manca nell’affresco della Steccata, così come nelle sei figure e nei sei vasi manca qualsiasi altro dettaglio che faccia pensare all’alchimia.

Ai lati delle sei vergini sono, a coppie, le figure a grisaille di Adamo ed Eva e quelle di Mosè ed  Aronne. Proprio la figura di Aronne mostra un simbolismo ricorrente nell’iconografia alchemica: il serpente attorcigliato al bastone, combinazione che caratterizza il caduceo ermetico. Nella figura della Steccata il simbolo sta chiaramente a ricordare l’episodio biblico di Levitico XXI: 4-9, in cui Mosè fa fabbricare un serpente di bronzo che poi pone su un’asta per salvare gli Ebrei assaliti da serpenti velenosi. Ma nell’iconografia alchemica il serpente trafitto o arrotolato su un’asta sta a significare la fissazione del Mercurio. In modo tale è presentato, ad esempio, nel Le livre des figures hiéroglyphiques che dovrebbe risalire al XV secolo. (27) E’ altresì vero che questo simbolo ricorreva nell’iconografia cristiana come simbolo del Cristo, e della promessa di vita eterna. Sfugge invece, ai sensi dell’iconografia alchemica, il collegamento tra i quattro personaggi (Adamo ed Eva, Mosè ed Aronne). Se Adamo ed Eva possono rappresentare la coppia maschile-femminile, o Solfo-Mercurio, non si trovano precedenti per la simultanea raffigurazione di Mosè ed Aronne.

In Fagiolo Dell’Arco si attribuiscono valenze alchemiche ad altri particolari dell’affresco, quali le colombe e i granchi. In effetti la colomba è frequente simbolo dell’albedo (vedi la miniatura XI dello Splendor Solis, raffigurante la coctio), mentre il granchio è segno alchimistico citato in dizionari di alchimia. (28)  Esso è raffigurato anche in una miniatura dell’Aurora consurgens (inizio XV secolo). Ma questi due simboli, isolati da un contesto, non rivestono alcun significato.

La Madonna dal collo lungo - Anche a questo dipinto sono state attribuite valenze alchemiche (Fagiolo Dell’Arco, Mutti). Questa raffigurazione della Vergine starebbe a simboleggiare il vaso alchemico, in genere rappresentato in forma ovoidale (da cui Uovo filosofale) o in forma di vaso dal collo fortemente allungato (vedi, ad esempio, le miniature dello Splendor Solis precedentemente citate). 

Ed è anche vero che il simbolismo dell’alchimia latina prese assai presto ispirazione da quello cristiano, stabilendo tra l’altro il parallelismo tra il Cristo nato dalla Vergine Maria  e la Pietra Filosofale nata dall’Acqua Mercuriale. Ma il parallelismo tra il vaso alchemico e la matrice di una divinità femminile è molto più antico, poiché già nell’alchimia ellenistica si era stabilito il parallelismo tra il vaso alchemico e l’utero di Iside. (29) All’alchimia ellenistica appartiene l’espressione “La terra vergine (il Lapis) sarà trovata nella vagina della vergine”. (30)

Ma anche in questo caso gli indizi sono troppo labili per attribuire all’opera un sicuro significato alchemico nel senso indicato da Dell’Arco: e cioè che la Vergine dal collo lungo, matrice del Figlio, raffigura il vaso alchemico in cui prende forma la Pietra Filosofale.

Per le motivazioni sopra esposte (l’attestato parallelismo tra Vergine Maria e vaso alchemico in molta dell’alchimia latina) si tratta di una interpretazione valida in linea teorica ma che avrebbe bisogno di ulteriori prove a sostegno.


5. Il Parmigianino incisore

Vi sono dunque pochi indizi che consentano di interpretare le opere del Parmigianino in chiave di significati alchemici. Si può concordare con Van Lennep (31) che le tracce del Parmigianino alchimista debbano piuttosto essere ricercate nelle tecniche di incisione che egli adottò.

Scrivendo dello xilografo Ugo da Carpi, il Vasari afferma: “Non sarebbe troppo lodare l’invenzione dell’incisione con acquaforte....Francesco Mazzuoli incide così una piccola folla di graziosi soggetti....”. (32)  L’uso dell’acquaforte, la cui preparazione presupponeva conoscenze “chimiche”, era certamente una novità all’epoca del Parmigianino. Egli la apprese realmente da Ugo da Carpi, come sostiene Vasari?

L’argomento è stato approfondito da Van Lennep, che ha dimostrato che la tecnica di incisione con acquaforte è nata in Germania all’inizio del 1500 e di lì è stata importata in Italia da Marc’Antonio Raimondi, di cui si conserva una stampa di ispirazione alchemica, che raffigura tre personaggi accanto a un alambicco. (33) 

Raimondi avrebbe rivelato il procedimento al Parmigianino e alla sua cerchia, che ne fece uso a partire dal 1530, data che coincide con quella indicata dal Vasari come inizio dell’avventura alchemica del Parmigianino. Lo stesso Van Lennep ha minuziosamente illustrato l’apporto dato dagli alchimisti alla scoperta e alla messa a punto delle tecniche chimiche poi impiegate per la preparazione dell’acido nitrico  e successivamente dell’ aqua fortis.

E’ possibile perciò che abbia ragione il Van Lennep nell’ipotizzare che fu proprio la manipolazione degli acidi e delle altre sostanze chimiche impiegate per le incisioni a volgere l’attenzione del Parmigianino verso l’alchimia. Ma come sottolineato in precedenza, bisogna considerare quanto fosse forte all’epoca l’interesse per l’alchimia, scienza alla moda. Per cui potrebbe essere plausibile anche il contrario: e cioè che l’abilità del Parmigianino nella tecnica dell’acquaforte sia stata non la causa ma l’effetto delle sue conoscenze alchemiche.


* Giornalista, Saggista

Note

(1) M. Fagiolo Dell’Arco, Il Parmigianino. Un saggio sull’ermetismo nel Cinquecento, Roma  1970, p.102-103.
(2) A. De Pascalis, L’Arte dorata, Roma 1995, pp. 172-173.
(3)  J. Van Lennep, Art et alchimie, Bruxelles 1971, e soprattutto il più recente J. Van Lennep, Alchimie, Bruxelles 1984.
(4) A. De Pascalis, op. cit., pp. 169-175
(5)  Ibid., p. 62
(6) Vedi introduzione note di C. Crisciani alla Preziosa margarita novella, Firenze 1976
(7) B. Varchi, Questione sull’alchimia, Firenze 1827, XXII e XXIII.
(8)  A. De Pascalis, op. cit., p. 176
(9) Ibidem pag. 399
(10) E. da Rotterdam, Elogio della follia, a cura di N. Petruzzellis, Milano 1966, p. 78.
(11) L. Thorndike, A History of magic and experimental science, 1923-34, Vol. III, p. 176-190.
(12) La parte saliente di quest’opera di Bernardo di Treves è tradotta in: A De Pascalis, op. cit., pp. 114-117
(13)   Ib.
(14) J.J. Manget, Bibliotheca Chemica Curiosa, Ginevra 1702, Tomo I, p. 507.
(15)  J. Lindsay, Le origini dell’alchimia nell’Egitto greco-romano, Roma 1984. M. Berthelot, Collection des anciens alchimistes grecs, Parigi 1888
(16)  H. Corbin, Storia della filosofia islamica, Milano 1991, pp. 143 ss
(17)  W. Pagel, Paracelso, Milano 1989, pp. 209 ss.
(18) F.A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Bari 1969
(19)  Ib.
(20)  M. Fagiolo dell’Arco, op.cit., p. 40-41
(21) J. Van Lennep, op. cit., p. 298
(22)  C. Mutti, Pittura e alchimia, Padova 1978, p. 13.
(23) M. Fagiolo dell’Arco, op. cit., p. 38
(24) B. Obrist, Les débuts de l’imagerie alchimique (XV -XVI siècles), Parigi 1982
(25) G. Carbonelli, Sulle fonti storiche della chimica e dell’alchimia in Italia, Roma 1925.
(26) J. D. Mylius, Philosophia reformata, Francoforte 1622, ill. II. L’illustrazione è riprodotta anche in C.G. Jung, Psicologia e alchimia, Roma 1950, p. 252
(27) Per i problemi di datazione di questo testo, vedi A. De Pascalis, op. cit., pp.108 ss.
(28) Vedi: G. Testi, Dizionario di alchimia e di chimica antiquaria, Roma 1950
(29) J. Lindsay, op. cit., pp.287-309.
(30) ibid.
(31) J. Van Lennep, op. cit., p.299
(32) G. Vasari, op. cit., p. ???
(33) J. Van Lennep, op. cit., p. 299

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