Luigi Costanzo* | Verso Il Duemila con Alfonso Gatto

La storia delle vittime è il secondo volume dell'opera definitivamente rielaborata da Alfonso Gatto. Vi sono poesie scritte ...



La storia delle vittime è il secondo volume dell'opera definitivamente rielaborata da Alfonso Gatto. Vi sono poesie scritte a caldo negli anni di guerra e dopo, ma il tutto proviene da un'idea di resistenza, come impegno contro l'oppressione politica e contro tutto quanto impedisce all'uomo di essere uomo. L'amore che dandosi tutto si brucia, la morte e l'estremo consenso coi morti, la storia intesa come creatrice di felici danni, di vince-chi-perde, tutti i maggiori temi gattiani vengono recuperati qui da una sapiente arte poetica che ha sostituito l'improvviso della giovinezza, da una riflessione dolorosa e orgogliosa assieme, tesa a inventare uno spazio in cui la propria voce, e in essa la resistenza del'uomo, sappia durare.

Ricordiamo che Alfonso Gatto nel Duello, un atto unico, scritto nel 1942 e pubblicato nel 1944 a Bologna, rammemora queste parole del Leopardi: «L'uomo sarebbe onnipotente se potesse essere disperato tutta la sua vita, o almeno per lungo tempo, cioè se la disperazione fosse uno stato che potesse durare ». Noi dobbiamo, appunto, riconoscere il desiderio di potenza, che là veniva enunciato e tuttavia stroncato e che qua assume aspetti di nuova poetica, quella della speranza.

Il tema della resistenza liberatrice è un termine comune al linguaggio politico e a quello morale, ch'è venuto particolarmente in luce dal 1940 al 1965, ma che risale agli anni venti, quando occorse elevare la propria voce nella solitudine dell'ascolto, come più tardi servì al riconoscimento delle virtù politiche e civili dell'uomo onesto ed ora rinnova la forza spirituale dell'uomo che non vuole rinunziare a vedere le cose come vanno dopo un periodo (1940-1950) in cui si agì per far sentire e far valere la propria essenza umana, necessariamente essenziale alla ricostituzione della vita morale e politica del popolo italiano.

Chi, durante tutto il corso storico della resistenza attiva, si è trovato dal '20 in poi a vivere per l'imbottimento della mente e del cuore, può confidarsi in apertura letteraria oltre che politica con coloro che nacquero nei periodi successivi, dal '20 al '30 e dal '30 al '40, e deve richiedere che la storia si segua per scorgere le vittime, senza astratto rapporto ideologico. La « resistenza », dunque, è una sintesi storica, che in una parola, trovata, ad esempio, anche in Auto da fé di Eugenio Montale, esprime la volontà attuale, fortemente programmata, di voler accedere ad un mondo nuovo per il 2000. Ed è meglio cominciare a pensare alla grande esplosione di fratellanza, prevista per quell'epoca, più che farsi sorprendere da altre terribili avventure, che possono essere evitate non solo con accordi politici ma con la ricerca di un linguaggio e di un pensiero che nell'azione formano l'unità, pur apparendo in letteratura, forme di momenti assai vari e diversi. « Sarò in pace con me stesso — scrive il Gatto — se potrò riconoscere, fra tante inquietudini mie e del tempo, il conforto di aver contribuito in qualche modoa chiamare anch'io la giustizia e l'avvenire che dalla Resistenza invochiamo».

Amore alla vita (1944). Dividiamo questa raccolta in tre paesaggi d'amore alla vita, più che in segni scaturiti dall'amore per coloro che caddero vittime, ed indichiamo un giudizio breve sull'evidenza poética di ogni lirica, nel tentativo di veder sorgere una luce dalle cose — se la poesia è illuminazione, come dice il Moravia, e non narrativa — al di sopra delle suggestioni formali e semantiche, dei moti e dei corsi tonali, evitando ogni utopia e insieme ogni aspetto tautologico.

Il primo paesaggio si dispone così: — L'antico destino della figura della mamma si eleva in estensione fisica a condizione ineliminabile di vita, come la distesa del mare per poter parlare dell'esistenza dell'acqua, per cui se è un pensiero il vivere, tocca agli uomini il dirlo ancora necessario. L'uomo intelligente scende e sale nel baccano dell'esistenza; l'uomo cosciente porta via dal passato solo quello che tiene stretto a sé con mani di bambino cioè con ingenuità e fede di bene. Si accorgono le prime vittime di essere state ridotte a tale umile soggezione? Certo è che nella città e nella fiera, come per dire i luoghi più presenti al Gatto per indicare la necessità dell'associazione, vediamo, ad esempio, un uomo nudo e un bambino patito.

Nel secondo paesaggio lo spirito è chiamato alla certezza storica della continuità: — L'uomo, dopo tanti secoli, è rimasto l'uomo impacciato della preistoria e noi l'amiamo lo stesso, com'era e come potrebbe essere. Ma siamo riusciti a renderlo civile in tanto tempo? Non ancora, soprattutto per la tenace volontà di pochi di voler ad ogni costo imporre la propria gloria come posizione di regola per gli altri. Si potrebbe dire che la gloria è il simbolo della vanità delle parole, quando esse non contengono il vero senso delle cose, più che del pensiero. Perciò, quelli che sperano nel bene e quelli che hanno paura del male si addizionano, perché chi vive è senza gloria e ad essa mai dovrebbe aspirare per non vedere ridotta la base dalla cimunità ideale, in cui ciascuna opera per farla coincidere con la realtà: Insomma, giustizia e socialità sono contro il culto delte gloria, dì cui gli uomini ancora si servono per distinguersi e per distruggersi, ciò che è peggio.

Nel terzo paesaggio l'individualità scompare del tutto e, se con essa prima si mirava normalmente a prevalere sugli altri, si ha certezza nelle cose più di quanto se ne potrebbe avere in sè come individui. Così, aboliti i sogni, tutte le cose amate passano come tracce sulla sabbia, se non vengono via via sostanzia te di ciò che riteniamo sia l'umano. Ai bambini e ai giovani non tocca che tuffarsi nel mondo degli adulti per farne parte, condividerne le responsabilità, contribuire al suo accrescimento.
Il capo sulla neve (1943-1947) segna un più sicuro cammino per l'uomo che avanza verso la Resistenza. La lotta dell'uomo per l'uomo è aperta e sostenuta, mentre è obliata quella dell'uomo contro l'uomo. Il linguaggio perciò si fa più nervoso e mosso ma sorridente e pronto alle speranze.
«Com'è bella la notte e com'è buona
ad amarci così con l'aria in piena
fin dentro al sonno».

Al Piazzale Loreto il poeta sente di avere avuto il cuore degli altri. I motivi si fanno continuamente tragici, fino al punto da far credere che sia più difficile la conquista di una tregua lirica, perché le parole sospendono un desiderio di amore. L'interrogativo dell'esistenza si fa pressante: per dar vita ai figli e per dare libertà alla patria bisogna bruciare soprattutto la paura e la bugia. In questo modo si potrebbe avanzare nello spazio terrestre del vecchio continente e ritrovare fraternità, per un mondo senza confini, fra gente che rimane con ossessione fedele al soliloquio, anche là dove i negri parlano ai fanciulli, a Napoli. L'Italia è una povera terra dove l'uomo nasce coi morti. La guerra è passata e
chi non ha pianto piangerà; ma un modo per amarsi c'è, è la pace.

Abbiamo esposto la poesia di Alfonso Gatto non in termini crociani e neppure in termini lukacsiani, ma con l'intenzione volta ad illuminare l'umano destino, dopo d'aver semanticamente assicurato la lettura, in prima istanza. Quello che dovrà essere variato ce lo diranno gli altri: ma le idee generali possono essere colte e sistemate: e lo abbiamo in gran parte già fatto. Noi stessi, dunque, difendiamo il pensiero che «La salvezza dell'uomo sta per ora racchiusa e costretta nella sua vigilante coscienza». Scade, perciò, l'opportunità storica del rapporto proposto dal Gatto stesso «io-altri», perché i rapporti, «altri-io» e «io-altri», assumano più vasta prospettiva, in un ciclo più completo, se è vero che ciascuno può vivere delle proprie colpe attive e rinunziare a quelle passive, attirando su di sè il diritto degli altri, in modo che il diritto comune s'intenda o come genesi o come termine della propria esistenza.

Giornale di due inverni (1943-'44 e 1964-'65). E' cronaca poetica, dischiusa dai fatti più che dal pensiero di essere in una fonte luminosa comune; ma i fatti vanno visti, delimitati e studiati, attraverso i rapporti umani, in un periodo storico detto « visibile e non culturale», negli ultimi sette mesi, rispetto a chi osserva la via del passato: il passato visibile è tutto in questi mesi, il limine della storia. In questo periodo così vicino alla memoria, ai sentimenti e alla ragione, la vita non dovrebbe avere segreti; ma molti vivono con la colpa di tenere la vita segreta ad ogni costo, in maniera antisocra Lica. Il segreto sta nel passato, di là dai sette mesi, e nel futuro, che non abbiamo il bene di conoscere, ma esso non deve continuare ad affliggere i rapporti dei conviventi. Il presente sembra la gonna risicata sul ginocchio, per dare un'immagine del Gatto, tanto da valere come termine di osservazione netta della presenza delle cose. L'autore stesso dice che le poesie del Giornale continuano ad evocare l'esperienza già fatta di recente, quale testimonianza di cose viste e sofferte, in comunione con Joyce. E' comunque una poesia minore e rimane utile a ribadire la validità di un'esperienza e di un linguaggio, realismo da una parte e lirismo dall'altra, che poi saranno meglio fusi.

La storia delle vittime (1962-1965). La poetica di questa storia è tutta conchiusa nelle parole: « più solo mi vidi, ma con tutti ». La solitudine fa aprire gli occhi « all'accadere di quel mutamento ». In sè il poeta canta il padre, la madre, la culla, la terra che si illumina, il cielo di Milano, la gente, gli altri insomma. Il tema di prima « noi-altri » diviene aperto e sicuro: « altri-noi-altri ». La povertà invoca dalle cose il suo nome perpetuo: lo stuolo dei fanciulli a Napoli, ad esempio, è il passato dei millenni. La storia si è aperta al passato e dischiusa alla speranza del futuro meno disegnabile nel corso dell'esistenza. L'essere in piedi ci salva, anche se poco sappiamo della nostra ansia del grande futuro. Che siamo noi? L'ipotesi più vicina al vero sembra questa: «Siamo vissuti nel pudore artistico, come per dire che è difficile e che è invece assai facile, in un certo senso, dire ciò che gli altri sono, ed in loro si è chiarito il mistero della nostra esistenza, almeno in parte, se volete. Ma il domani è sempre un giorno che decide il senso del patire. Che senso ha il tempo? Io ti dirò millenni».

La sua è, perciò, una storia illuminata nei singoli compimenti, più che una storia quale attività di pensiero. Non c'è idealismo che tenga, ma neppure il materialismo storico si condiziona esteticamente, perché l'interpretazione dei fatti ricompone il ciclo dell'esistenza in un essere solo, come se fossimo alla genesi della civiltà. Il poeta si muove fuori della tradizione ideologica dell'antagonismo, anche se può sembrare il contrario.

Il passato ebbe le sue idee ma a noi tocca rivelarle, il presente non le nasconde: la diffusione della verità, comunque, è il successo, non la condizione della personale fortuna; la vita s'identifica con il nascere del tempo dei giorni innamorati. Sarà nostra illusione, ma esso è il giorno del Terzo mondo dello spirito: una nuova civiltà che noi andiamo riconoscendo e proponendo, perché l'umanità infallantemente riesca ad avere ragione di vivere d'amore, com'è nel linguaggio del Gatto. Perciò, dire che il Novecento sia il « secolo dell'amore », in questo particolare senso, è cosa indebita ed approssimata. Da più tempo, alcuni, come il Gatto, gridano, con pudore, che l'amore sarà la legge vitale del 2000, dato che le nostre mani, quando si aprono, hanno le vene di tutte le pene.

Ed esse aprono un nuovo corso letterario, già fervidamente illuminato dalla presenza di molti scrittori campani o che in Campania vivendo ne hanno condiviso la sensibilità e le situazioni. Alfonso Gatto è fra tutti il poeta che ha donato alla letteratura un carattere: l'essenziale potenza di un pensiero e di una meditazione dell'umano destino, circa il modo di farsene responsabili, trova nelle nuove generazioni di scrittori una viva partecipazione, che nella Storia delle vittime è ormai cresciuta a vista d'occhio, congruamente corrispondente al programma vitale, a cui il poeta ha attinto con serietà lirica e drammatica, più di Carlo Levi. In Elezioni la memoria ascende al senso delle cose create e l'uomo non si condiziona nel prestigio acquisito per il possesso di una casa né si -milia per essere povero. Unica è la realtà dell'esistenza nell'atto della reciprocità e dell'orgoglio, il quale in Le albe di Cannaregio viene motivato ideologicamente e virtualizzato con sensibile affanno: ritrovarsi nell'ora della storia, tra le brume dei propri princìpi, in una scienza nuova. Anche in In quell'inverno, a volte, la memoria accende il fuoco, chiama le ombre a tacere, riordina le amicizie, che la vita divide e porta lontano. L'arcano o l'ermetico è quanto rimane inespresso lontano da noi o anche quel che di noi si pensava prima di entrare in azione, perché proprio l'azione, sottoposta alla memoria, si dispiega in forme pacificate dal ritmo lirico, che non coincide con lo stato poetico, beatificante ricordo, come concepito da Carlo Muscetta (in Primato, 1° gennaio 1942), e che sarebbe irriducibile a successioni logiche. E noi chiaramente stiamo ricostruendo il testo dal di dentro, pur non essendo riducibile a successioni logiche impegnate, in illuminazioni o in illuminato verismo del caso, che pare superbo e lucido ugualmente in queste parole: «L'appartenersi e l'amarsi, non è più l'essere, ma l'aver notizia di un altro che perde, non che i valori propri e segreti, anche l'ironia del comportamento». L'Esposizione completa il disegno logico e ne apre un altro con Lo sbarco, che è una lirica dalle rime drammatiche, non più invitanti alla quiete lirica ma pronte al richiamo di una controra lirica e ritmica, per il dramma della solitudine nella controra. In Il racconto il ricordo dell'eccidio della Via Ardeatina rappresenta la prima controra dello spirito umano e nel fatto e nel racconto di Kappler. Il dramma è qui: «Il silenzio non era del mondo ma di quel sangue assetato».

Per capire l'anima degli altri, leggiamo Laggiù nell'Arizona. La terra dei sogni spazia nelle chimere, le chimere distraggono i fanciulli, perfino i fanciulli, dal pensare alla guerra con gli occhi a terra, per tacere sul motivo randagio: è una classica composizione fatta per ricomporre l'unità spirituale delle cosiddette « due anime » della poesia del Gatto. Che siamo noi? Potrebbe rispondere Tregua: «Uomini dalle infinite colpe di essere stati sempre meno noi stessi, fino al punto che la natura altro non riconosce che sé e non l'uomo». Possibile continuare a vivere così poco egregiamente, direbbe il Foscolo? Ma il Gatto confessa che è meglio essere « un uomo, un piccolo uomo », anziché un uomo falso o fatto per sè solo.

Fummo l'erba è un canto di una potenza straordinaria per rimuovere da dosso la vergogna di un passato, fatto di cedimenti e deviazioni. Ormai la controra ritmica è calda e afosa: ci ostiniamo ad essere sul costrutto del creato. Con la Canzoncina del '46 ci si avvia alla poetica del disincanto. La parola è nella lirica e si è resa necessaria da quando si lesse La fanciulla di Spina. Essa perdura per tutto il resto del volume, da Cronache a La veglia. L'atroce ricordo di Hiroshima (6 agosto 1945) fa cadere l'ultimo inganno del passare alla storia o alla gloria, come si diceva prima.

La fanciulla di Spina è un messaggio di dignità per chi lavora, l'immagine il contrassegno della storia umana com'era e com'è; il ritmo tende ad un libero scambio musicale di assonanze, il periodo ricorda
l'ampiezza del pensiero coltivato nel silenzio dell'amore, il linguaggio è quello del tempo dei tempi come la storia dell'uomo: è veramente esemplare. L'eccetera segna l'apice della poetica del disincanto, che in La Veglia con l'ultima raffica di parole dispiega tenerezza. Insomma, il linguaggio di Alfonso Gatto conta come espressione di sentimenti, tecnologia di un pensiero politico e morale, stile di mezzo fra la lirica e il dramma, perché essa può essere cantata o recitata a più voci in pubblico, pur provenendo da una manifesta solitudine di monodia. E' poesia bifronte, perché serve l'uomo e la società, ma si trasfigura da se stessa, e perciò piace.

Tutta la ragione estetica di questa poesia sta nella passione che è l'anima nel sistema del comunismo, ma non un sistema in sè, piuttosto, oggi, un fervore vivo di pietà e di amore per la salvezza della civiltà, alla cui continuità, certo, non può provvedere, è chiaro, il solo comunismo, perché si prospetta da più parti l'esigenza di un sistema che superi tutti quelli esistenti. Comunque, per tutto quello che si riconosce nella linea di questa poesia, la dottrina di Alfonso Gatto è ancora escatologica e potrebbe rimaner tale fino a quando non ci si libererà dell'incubo, proprio dell'era atomica.

Ci pare, dunque, di vedere questo poeta chiuso nel suo orgoglio ma aperto con entusiasmo al rinnovamento. E' già tanto, rispetto a ciò che gli uomini possono.

* Progetto EDIESSE (Emeroteca Digitale Salentina) 

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