Carlo Emilio Gadda: Eros e Priapo*

— I — Li associati cui per più d’un ventennio è venuto fatto di poter taglieggiare a lor posta e coprir d’onta la Italia, ...






— I —

Li associati cui per più d’un ventennio è venuto fatto di poter taglieggiare a lor posta e coprir d’onta la Italia, e precipitarla finalmente a quella ruina e in quell’abisso ove Dio medesimo ha paura guatare, pervennero a dipingere come attività politica la distruzione e la cancellazione della vita, la obliterazione totale dei segni della vita. Ogni fatto o atto della vita e della conoscenza è reato per chi fonda il suo imperio sul proibire tutto a tutti, coltello alla cintola.

Si direbbe che la coscienza collettiva, e la singula, oltraggiate dal coltello, dal bastone, dall’olio, dall’incendio, e di poi messe in bavaglio da disperati tramutatisi per scaltrita suasione in soci nel grido e nell’armi, dalle carceri, dalle estorsioni, dal veto imposto per legge, se legge fu quella, a ogni forma del libero conferire e prima che tutto alle stampe, dalla sempiterna frode ond’era spesa la parola e l’intendimento e poi l’atto, dalla concussione sistematica esaltata al valore e direi al decoro formale di un’etica nicomachèa, (1) dalla tonitruante logorrea d’uno o d’altro poffarbacco, dalla folle corsa verso l’abisso e, ad ultimo, dalla strage, dalla rovina del paese, si direbbe codesta coscienza l’abbî trovato ricetto, quasi oltre lor lagune i Veneti, così ella in una zona munita dall’acque, contro la storia spaurata. Si direbbe riparasse, codesta coscienza, di là dall’odio e dalla bestiaggine: tra profughi, perseguitati, carcerati, oltraggiati e congiunti e figli di deportati e di fucilati: e la risorga alfine come dal nero fondo della miniera alla luce, chiedendo a Dio di poter proferire le parole della vita.

Con proibire tutto a tutti, la delinquente brigata ha garentito a sé ogni maggior comodità e sicurezza, dello illecito contro eventuali masnade concorrenti; simile a chi crea una riserva da cacciare e da raccogliere a sua posta, senza tema e senza pericolo, e’ suoi adepti simulare grinta e ringhiare, dormir soavi o sedere al gioco senz’opera quanto gli è piaciuto e paruto; e dar di mazza o di stocco, fucilare, deportare, bavare e gracidare nelle concioni e delirare nelle stampe; il Vigile dei destini principe ragghiare da issu’ balconi ventitré anni, palagiare la campagna brulla di inani marmi e cementi, e voltar gli archi da trionfo, anticipati alla cieca ad ogni sperato trionfo e assecurata catastrofe. Seminato il vento machiavello d’una sua brancolante alleanza, ricolse tempesta issofatto dalla maramaldosa pugnalata inferta a un morente popolo. Ruggente lïone di tutto coccio stivaluto e medagliuto, lungimiranza ve’ ve’ di tremebondo bellico lo strascinò di forza alla smargiassata africana, a spargere ne’ deserti feral morbo con porger l’otre alla sete degli eroi e de’ martiri, non anco patita la volontà del socio di ferro di cui, vaso di tutto coccio, così ciecamente s’era costituito prigione. Securo come il fulmine di quel tal securo, largì alti alpini del Piemonte alla morte senza scarpe, poche mitragliatrici bastarono nella tormenta e nel luglio senza scarpe, i tremila metri aiutando. Tempista ed arùspice de’ più dotati di bel tempo, ora viene il bello. No, no, no, Polonia, Danemarca, Norvegia, Franza, Scrotoslavia, Lucimburgo, Turchia, Sguizzara, tutta Grecia e Spagna, e dimenticavo Portogallo, e fino l’Andorra e ’l San Marino, che son minime repubblicuzze ne’ monti, no, no, le non si sono alleate alle belve, le non sono slittate sfinctericamenie alle guerre omicidiali dell’imbianchino. Egli, dico il Cupo nostro, e’ volle da prima alla su’ gloria, minacciosa gloria, la baggiana criminalata ad Affrica: ch’era del caffè poco pochino e dello istrombazzato e inesistente petrolio: e dell’oro e del platino, gràttati!: e del carcadè: paventando la ciurma non si stesse cheta, mobile e tumultuaria ch’ella fu sempre e divertita alle fanfare e agli svèntoli, se non a gittarle quell’offa dentro le fauci isciocchissime, (1935), di quella bambinesca scipioneria: dove andarono al sale da ottanta a novanta miliardi lire, in asfaltare le bassure clorurate della Dancalia, dopo aver pagato, per ogni sacco di cemento, oro, il passaggio a i’ ccanale.

Be’, i crimini della trista màfia e di tutti li «entusiasmati» a delinquere avendo raggiunto o me’ dirò permeato ogni pensabbile forma del pragma, cioè ogni latèbra del sistema italiano (con una «penetrazione capillare», oh! sì, davvero), è ovvio che tutte le nostre attività conoscitive e le universe funzioni dell’anima debbano intervenire nel giudizio del male, patito e fatto. Tutti i modi, i metodi, le tecniche, le singule operazioni e le discipline della mente sono chiamati a soccorrerci. L’atto di conoscenza con che nu’ dobbiamo riscattarci prelude la resurrezione se una resurrezione è tentabile da così paventosa macerie. Quest’atto sacrale si attiene a tutte le ripartizioni del conoscere, a tutti gli argomenti del dire. Tutti i periti, e d’ogni sorta medici, hanno e aranno discettare sulla maialata. Il giurisperito in primis, come di fatto accade già nelle corti e ne’ plàciti: e quegli altri periti, o peritesse, che a espedire la procedura vorrebbono traghettare ad Acheronte, per forche piantate a mercato, o trabuccare in fiume più vero e più dimestico li assassini de’ lor figli. Lo storico delle religioni ci si farà, con lampada sacra ed antica, da perscrutare nella sua intensità ed estensione la indifferenza ateistica (a-gnòsi) della banda stivaluta: che si vestì per la Messa de’ minchioni, e andò così paramentata e vestuta a sbravazzare in nel postribolo della Terra universo, coltello a la cintola. L’economista, da indagare, conoscere e certificare il nocumento e gli irreparabili guasti e mal’anni da cotai Soloni e Licurgi alla economia pubblica e alle private sustanze inferti, i presenti e i rimoti e scordati, con la rovina e con la distruzione di quella. Lo studioso di scienza delle finanze, da misurare con il metro del terrore la caduta de’ bilanci di stato, ch’erano ottimi od almeno onesti, e in genere l’entità e la natura contabbile delle concussioni: e ’l discredito, anzi la totale abrogazione del credito: e la menzogna dell’autosufficienza sive αὐτάρκεια, e la inflata carta e lo sperpero, e gli altri infiniti malestri: combinati e comportati dalla fanfaronesca gestione. Ipotecava il futuro da rattoppar le tasche, le buche tasche al presente: carpiva imprestiti e sovvenzioni ai fondi matematici delle assicuratrici da cavar piscine nei monti dove nissune genti vi guazzavano, ch’il potei constatare con gli occhî mia, ch’era di domenica e a mezzogiorno, e al tepidario di tutti marmi intepidiva l’acqua e bagnava sé stessa: carpìvali a’ banchi del popolo, e a le casse dette di risparmio, da pagare medicina agli adepti. E da poi l’igignere ci dirà la sua, il militare la sua, il marinaro la sua, l’agricultore la sua: e con tutti questi aranno cicalare pure i medici, massime lo psichiatra o frenologo e ’l dermopata. La Italia la era padronescamente polluta dallo spiritato: lo spiritato l’era imperialmente grattato e tirato a prurigine dal plauso d’un poppolo di quarantaquattro milioni di miliardi d’animalini a cavatappo. Ch’era le millanta volte meglio… vo’ vu’ m’intendete sanza parole. Ergo: la Italia ventitré anni quello animalino la mandò. E che il giudice mi tagli mano, se questo che qui non è sillogismo diritto, di misura stretta. Il suggeritore fu lui il Ministro, Primo Ministro delle bravazzate, lui il Primo Maresciallo (Maresciallo del cacchio), lui il primo Racimolatore e Fabulatore ed Ejettatore delle scemenze e delle enfatiche cazziate, quali ne sgrondarono giù di balcone ventitré anni durante: sulle povere e macre spalle di una gente sudata, convocata birrescamente a’ sagrati maledetti, a’ rostri delle future isconfitte, incitata alle acclamazioni obbligative: compressa al raduno come la gente acciughiera in nel barile, spersa, in fatto, tra i segni di demenza: a veder lontanare il futuro, il nutrimento della carne, dello spirito futuro. Una istrombazzata di parole senza costrutto, ch’erano i rutti magni di quel furioso babbèo, la risarciva de’ contributi sindacali «in continuo e promettente sviluppo», cioè via via magnificati alla chetichella «per legge», o «per decreto-legge», cioè ad arbitrio d’un tratto di penna di essi despoti. La Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia abbozzava: ingollava e defecava la legge.


Una sorta sozza di bugia, una mentira senza scampo e senza riscatto veniva intessendosi e trapuntandosi in que’ raduni. Porgeva egli alla moltitudine l’ordito della sua incontinenza buccale, ed ella vi metteva spola di clamori, e di folli gridi, secondo ritmi concitati e turpissimi. Kù-cè, Kù-cè, Kù-cè, Kù-cè. La moltitudine, che al dire di messer Nicolò amaro la è femmina, e femmina a certi momenti nottìvaga, simulava a quegli ululati l’amore e l’amoroso delirio, siccome lo suol mentire una qualunque di quelle, ad «accelerare i tempi»: e a sbrigare il cliente: torcendosi in ne’ sua furori e sudori di entusiasta, mammillona singultiva per denaro. Su issu’ poggiuolo il mascelluto, tronfio a stiantare, a quelle prime strida della ragazzaglia e’ gli era già ebbro d’un suo pazzo smarrimento, simile ad alcoolòmane, cui basta annasare il bicchiere da sentirsi preso e dato alla mercé del destino. Indi il mimo d’una scenica evulvescenza, onde la losca razzumaglia si dava elicitare, properare, assistere, spengere quella foja incontenuta. Il bombetta soltanto avea nerbo, nella convenzione del mimo, da colmare (a misura di chella frenesia finta) la tromba vaginale della bassàride. Una bugia sporca, su dalla tenebra delle anime. Dalle bocche, una bava incontenuta. Kù-cè, Kù-cè, Kù-cè, Kù-cè. Cuce il sacco delle sue vantardige un gradasso: capocamorra che distribuisce le coltella a’ ragazzi, pronto sempre da issu’ poggiuolo a dismentire ogni cosa, a rimentire ogni volta.

Questo, ventun anno! Ventun anni di boce e di urli soli del frenetico, come ululati di un bieco lupo in tagliola: o di que’ sinistri berci de’ sua compiacenti, in ogni piazza, e de’ sua bravi acclamanti. E ’l rimanente… muto e scancellato di vita. Ventun anno: il tempo migliore d’una generazione, che è pervenuta a vecchiezza a traverso il silenzio. Per silentium ad senectutem.

Vorrei, e sarebbe il mio debito, essere al caso d’aver dottrina di psichiatra e di frenologo di studio consumato in Sorbona: da poter indagare e conoscere con più partita perizia la follia tetra del Marco Aurelio ipocalcico dalle gambe a ìcchese: autoerotòmane affetto da violenza ereditaria. Da discrivere e pingere in aula magna que’ due mascelloni del teratocèfalo e rachitoide babbèo, e l’esoftalmo dello spiritato, le sue finte furie di tiranno che impallidiva a uno sparo. Da giuntarvi, a tanta lezione, un’altra ancora non meno vera circa la ebefrenica avventatezza del contubernio e della coorte pretoria: ed altra ed altre circa la demenza totale d’un poppolo frenetizzato: che prestava le sue giovani carni, muscoli e petti in parata, a tutti i mimi imperiali del mortuario smargiasso, avendolo inargentato salvatore della Patria. E vorrei e dovrei pur essere un frenologo di quelli da mille lire a consulto: vedutoché a valerci tanta destruzione delle vite e delle fulgide cose la non è suta altra causa, o ratio, che la incontinenza alcolica di un bicchierante.

Frenologo non essendo, e tanto meno sifolòlogo, farò icché potrò.

Gaio Tranquillo Svetonio e Gaio o Publio Cornelio Tacito e’ non furono psichiatri d’aula, né a Bologna né a Padova. Pure la sudicia e sanguinaria follia di Nerone, e la psicosi cupa di Tiberio, senescente in suspicione e in libidine, resurgono ad atto da le lor pagine: quasi nella distretta evidenza d’un referto peritale. Revivono, operatrici folli, non soltanto per sé, voglio dire enucleate in figura, ed espunte da un contesto pragmatico: anzi in relazione a quello, e a le vicende aliene del poppolo e a tutto un coacervo di dati apparentemente estrinseci alla persona del Nero e alla persona di Tiberio: dacché l’uno e l’altro de’ duo principi era propiamente una venenosa drupa in sull’albero, venuta matura e a livore dopo vicine e dopo lontane premesse: etiche, famigliari, sociali, instituzionali, politiche, demiche. Rivive nelle pagine del duca di Saint-Simon, con tutta la mirabile galleria de’ ritratti e de’ nasi, de’ parlanti e semoventi nasi e ritratti, ci rivive e ci siede in mezzo e si accomoda ancora le brache, distolto a pena il sederone di seggetta, quella tacchinesca maestà («une majesté naturelle…») del decimoquarto Luigi dalle trippe doppie («ses boyaux… doubles… que d’ordinaire…»). Facciamola a intenderci: né le mia penne di pàpero si crederebbono di poter mai agguagliare le loro, in que’ lor voli ad ali ferme e in chelle cadute a piombo, di nibbio; né il cucchiarone di maldigesta retorica di che s’è ieri l’altro inzaccherata la Italia non può, neanche da gioco, venir comparato alla tronfiezza e alla sublimità decacatoria di Luigi, fastosa e pur vivida e in certa misura chiara in una idea. Donde, a livellare duchi a Versaglia, e a coagularvi in una reverenza a palazzo le disperse e multiformi posizioni del diritto vecchio, quella pompa centrogravitante, quel ragnatelo del cerimoniale, a seggetta e a sala, ed a tavola: e i subjuganti festini.

Tanto meno poi la potrebbe accodarsi, dico la funeraria priapata di codesto cervellone, a’ moltiplicati moduli d’una reticenza pensosa, d’uno stanco desiderio della solitudine propria, d’un disdegnoso dispregio delle mandre e delle dignità molli e corrotte, curuli e plebee, d’un già valido senno, d’un fraterno lutto, d’un rancuroso delirio persecutivo, d’una fantasiosa girandola di turpitudini senili: in che poco a poco s’avviluppò, e declinò e lenta si spense, a Capri, la cruda fierezza oltreché la recidente sagacia di un Claudio: «nil claudiae non perficiunt manus»: già tribuno adolescente alla impresa vindelica e sicuro macchinatore delle consecutive, in Germania e in Pannonia. Che avea gestito la responsabilità viva del comando, e ne recava in sé la faticata sperienza. Claudio Nerone Tiberio Cesare, agli anni suoi, rampollò d’uno de’ più acri e de’ più nobili ceppi della vecchia terra italiana, non nacque in un antro. Ripeteva il suo sangue, e il cognome, dal liberatore d’Italia: il cognome claudio lo si leggeva nel greto del Metauro. Non cercò lo impero. Avutolo, a cinquantase’ anni, lo resse. Militare, e quale!, non ministrò guerre alla sua propia impennacchiata glorionzola vendemmiando, a predisporre le isconfitte, del giovine sangue fraterno: affrenò anzi le sollecitazioni periferiche de’ suoi Mavorti con il freno di ragione, e quella lor vanità professionale del menar la coorte a’ fracassi: eccettoché un tanto, un micolo, da conoscerne assecurata e la maestà dello ’mpero, e tutelati i confini. Posasse in pace, rifiatasse almeno qualche anno ancora, per venire ad aratri, il vecchio carcassone romuleo! Tiberio Cesare antepose per tal modo la incolumità e le fortune vere dello stato alla jattanza d’un propio fanfaronesco trionfo. Ne oblivimini, quaeso. Date suum unicuique.

Questo qui, Madonna bona!, non avea manco finito di imparucchiare quattro sue scolaresche certezze, che son qua mè son qua mè, a fò tutt mè a fò tutt mè. Venuto dalla più sciapita semplicità, parolaio da raduno communitosi del più misero bagaglio di frasi fatte, tolse ecco a discendere secondo fiume dietro al numero: a sbraitare, a minacciare i fochi ne’ pagliai, a concitare ed esagitare le genti: e pervenne infine, dopo le sovvenzioni del capitale e dopo una carriera da spergiuro, a depositare in càtedra il suo deretano di Pirgopolinice smargiasso, addoppiato di pallore giacomo-giacomo, cioè sulla cadrèga di Presidente del Conziglio in bombetta e guanti giallo canarino.


Pervenne, pervenne.

Pervenne a far correre trafelati bidelli a un suo premere di bottone su tastiera, sogno massimo dell’ex agitatore massimalista. Pervenne alle ghette color tortora, che portava con la disinvoltura d’un orango, ai pantaloni a righe, al tight, al tubino già detto, ai guanti bianchi del commendatore e dell’agente di cambio uricemico: dell’odiato ma lividamente invidiato borghese. Con que’ du’ grappoloni di banane delle du’ mani, che gli dependevano a’ fianchi, rattenute da du’ braccini corti corti: le quali non ebbono mai conosciuto lavoro e gli stavano attaccate a’ bracci come le fussono morte e di pezza, e senza aver che fare davanti ’l fotografo: i ditoni dieci d’un sudanese inguantato. Pervenne. Alla feluca, pervenne. Di tamburo maggiore della banda. Pervenne agli stivali del cavallerizzo, agli speroni del galoppatore. Pervenne, pervenne! Pervenne al pennacchio dell’emiro, del condottiere di quadrate legioni in precipitosa ritirata. (Non per colpa loro, poveri morti; poveri vivi!) Sulle trippe, al cinturone, il coltello: il simbolo e, più, lo strumento osceno della rissa civile: datoché a guerra non serve: il vecchio cortello italiano de’ chiassi tenebrosi e odorosi, e degli insidiosi mal cantoni, la meno militare e la più abbietta delle armi universe. Il coltello del principe Maramaldo: argentato, dorato: perché di sul trippone figurasse, e rifulgesse: come s’indorano radianti ostensorî. Sui morti, sui mummificati e risecchi dalle orbite nere contro il cielo, (di due rattratte mani scarafaggi al deserto), sui morti e dentro il fetore della morte lui ci aveva già lesto il caval bianco, il pennacchio, la spada dell’Islam, fattagli da’ maomettani di Via Durini a Malano. Per la pompa e la priapata alessandrina. E la differenza la sapete bene qual è, la differenza che passa tra Lissandro Magno e codesto brav’uomo: che l’Alessandro Magno l’è arrivato (sic) ad Alessandria col cocchio: e lui c’è arrivato col cacchio. Si tenne a dugèn chilometri di linea. Riscappò via co’ sua cochi e marmellate dell’ulcera, Scipione Affricano del due di coppe. Non direi «pilotando perzonalmente» stavolta: la caccia di Montgomery, bastava appena che glie ne balenasse l’idea, al buon uomo, che lui subito si sentiva i borborigmi nella epizümìa. Mi duole (per modo di dire) non aver partecipato la guerra a fisarmonica della via Balba futtuta: o guerra a pendolo, se più vi aggarba: dacché mi garentiscono che la libertà di linguaggio degli esasperati, dalla Cirenaica alla Libia, era tutt’al contrario che balba, in barba a tutti li spioni del Caino. Attinse anzi a giorni tal fase di fulgore e di colorata espressione, in contrasto ai flans della servilità leccacula e della fanfaronante scemenza, che di chella disperata rabbia aver tenuto il registro farebbe oggi un documento de’ rari, e de’ preziosi: ad ogni effetto politico e storiografico, nonché filologico. (Storia di alcuni stati d’animo: momenti di coscienza dei morenti di sete: dei sacrificati al pernacchio. Che è la prima storia avremmo ’l debito di scrivere.)

La rotta, la disperata anàbasi. La corona del martirio inutile dopo l’assurdità breve d’una vita, cioè d’un’adolescenza da sillabario. Coi pantaloncini del ballila: e con lo schioppetto: bono, chello! Al varco dei ventun anni la tenebra. Il vivo sangue, così, per una priapata a cavallo della Gran Pernacchia, profuso alle arene. Priapata in rientro, con tutte le porche pive nel sacco. Profuso vanamente: salvo che a confessare il coraggio, l’astratta dedizione a una storia mancata. Confessori del dovere militare! questo cilicio antico! questo che gli brucia, che gli escrucia via l’ultima ora di conoscenza e di spiro: come suol fare quel cielo senza ragione: quel foco, là, che arde solo, onnipresente, nello implacabile cielo. Dentro la luce sanza fine, lungo i millanta milliarii della via Balba, ecco, a vent’anni, la sposa nera. Mareggia ivi la Sirte al deserto: dal piano di lapisazzurro la cimasa inane delle spume si avventa, latrando, contro il foco e la inanità bruciata della duna.

Correvano con i visceri arsi e con affocate vene la sponda, «la quarta sponda», là dove il Napoleone fesso e tuttoculo li aveva sospinti lungo l’ardore del deserto, senza ghirba, a dover bere la piscia: lui intanto sorseggiava e tirava di festuca limonate giazze co’ le sue drude gentili, sotto cielo più propizio a’ limoni, in terra più ferace di bietole da zuccaro, e non da zuccaro: tra i marmi delle fresche fontane, dopo e’ vïaggi per la campagna de’ liberali aquedutti. Spaparanzato in sulla prima sponda, sicché il pernacchio dell’emiro, o del maraggiàa che fusse, quello, Italiani, ponetelo ben bene in conserva, da bravi, che l’è bon per on’altra volta. D’in sulle sponde del suo sacro fiume il Gangàride aspetta ancora le minacciose ambascerie, paventa le scuri albane: albanasque timet secures. Così, cadauna due volte, andarono prese e poi riperdute a foco ed a sangue la Libia e Pollonia; (2) due volte servite e disservite cadauna e trionfate, di que’ due lidi incorporandi ossia sponde, le genti:
bisque triumphatas utroque ab litore gentes.

Non sono psichiatra. Avendomi natura ed astro, con luna in sizigia e da vederla intera, purtuttavia provveduto d’un naso, andò il detto naso braccando a campagna infin dagli anni cchiù giovini, e si palesò atto quant’altri furono a percepire il lezzo d’ogni disgregazione e d’ogni corrumpimento, se pur sottilmente filtrato da fuora l’occhî voti a’ bucranî, in ogni metope, e da tutte le commessure de’ templi e delle gran bugne curuli, e de’ marmi triunfali. Permodoché in ne’ bugiardi clamori d’una vita finta, al precipitare di quella istoria sacrificata verso il vacuo del nulla, di minuto in minuto, di dolore in dolore, di rabbia in rabbia, di ejja in ejja, di tamburo in tamburo venivo a mano a mano a raggiungere la mia disperata conoscenza: tra le fanfare e le pompe, e’ visacci del despota di ogni nulla issatosi a bravazzare lassù a cavallo ne la livida magnificenza d’un rospo. Di là dal passo romano, di là da le cosce villose dei diecimila, oltre l’ambio stento d’un qualche brocco generalizio dal collo d’asino e dal deretano infarcito di voglia di far la cacca, ch’era una sfornata di polpette da seminarne l’impero infino al Colisèo, disceveravo per mezzo tutti gli allori e gli oleandri del Baccelli il sentore gangrenoso, fiorito fuori come un repentino annuncio di tenebra e nei cieli e dai marmi, e dalle trombe della parata in asfalto e dagli indelibati sederi (quelli di bronzo) de’ Cesari. Grufolavo pazzo in quell’Aventino di glorie, ne rifuggivo fustigato da non iscorgevo Chi, attingevo in un’allucinata silloge il meccanismo vero e secreto della consecuzione: sopra le quadrighe dorate e le ghirlande, il nero configurarsi della vendetta.

La nube fumogena delle frasi celò a tutti, nella caciara dei retori e degli apologeti, nonché lo zelo redditizio degli obbedienti ma il sopravvenire del destino: che già n’era sopra, ferocemente, da dritta: gli ascose a tutti infino all’ultimo la prora terribile, il tagliamare aguto di quel caccia che fu battezzato «Nemesis». Che consegna ad abisso qualunque si addà mentire a la ragione, mentire a sé stesso. Alla barra, gua’! ci sta il Logos: ch’è altro e di più sagacia armirato non fusse il tubino, il fàss tutt mè, il son chè mè: pilota e bagnasuga del cavoletto. Lui, il lungimirante, impose prima (curtello a la cintola), di poi avea l’aria d’implorare da tutti, guaiolando, come un canin pestato, il silenzio.

Tantoché dato dunque sto naso, e chiedendomi taluno il mio (tardivo, ahi!) contributo a quell’atto di conoscenza di che si ragionava pur dianzi, bene, ecco qua.

Dimando interpretare e perscrutare certi moventi del delinquere non dichiarati nel comune discorso, le secrete vie della frode camuffata da papessa onoranda, inorpellata dei nomi della patria, della giustizia, del dovere, del sacrificio: (della pelle degli altri). Mi propongo annotare ed esprimere, non per ambage delfica ma per chiaro latino, ciò che a pena è ’ntravisto, e sempre e canonicamente è taciuto, in ne’ nobili cicalari delle perzone da bene: que’ modi e que’ procedimenti oscuri, o alquanto aggrovigliati e intorti, dell’essere, che pertengono alla zona ove l’errore si dà vestito in penziero: quegli impulsi animali a non dire animaleschi da i’ Plato per il suo Timeo e per il Fedro topicizzati nello ἐπιθυμητικόν, cioè nel pacco dello addome, ch’è il gran vaso di tutte le trippe: i quali impulsi o moventi hanno tanta e talora preminente parte nella bieca storia degli òmini, in quella dell’omo individuo, come in quella d’ogni aggregazione di òmini. Non palese o per più meglio dire non accetto alla sublime dialessi di alcuni pensatori ed istorici, un putrido lezzo redole, su dal calderone della istoria: al rabido, al livido, allo spettrale dipanarsi della tesi, dell’antitesi, della sintesi. Tesi vana, antitesi barocca, e ruffiana sintesi. Che ci ballano, a stratti, la loro ossitona e zoccolata giga d’attorno: d’attorno al sangue, alla vergogna e al dolore: come le tre versiere shakespeariane da torno il caldaro de’ loro malefizî:
double, double toil and trouble:
 fire, burn, and cauldron bubble.

«Italiani! io vi esorto alle istorie!» Tra le quali ci guazzano di molte bugie, mi pare a me. Sì, sì, vi esorto alle istorie. Pure io. Mo’ arriva la mia. Non è la istoria del Logos: e nemmeno lo agghirlandato elenco dei fasti: e né la compaginata istoria dei puri di cuore, e di naso, poarini!, che d’ogni più fetido relitto i lor buoni modi e prencìpi e’ l’isvogliano d’annasarne il fetore: e né l’apologetica de’ bene istrutti e de’ meglio intenti e applicati a riconoscere tutte perfezioni del mondo: e né il falso in atto e in archivio delle decretali d’Isidoro o delle donazioni di Costantino, che ’l piacentino Valla e gran Lorenzo ha sbugiardato primamente. è il povero atto di chi leva la sua lampada sopr’alle cose e al loro abominato coacervo, e dice a i’ fratel suo: «Fratel mio te tu vedi icché l’è.» Te tu dirai: a che rimestare codesto imbratto di che s’è ischifito lo universo; dove tanto dolore n’è addosso che a reggerlo a pena devi aver l’animo a la libertà felice della morte? Bene, ti dico, statti cheto: sta’ bono: ché il transitus da follia a vita ragionevole non potrà farsi se non prendendo elencatoria notizia delle oscure sentenzie, che hanno scatenato gli oscuri impulsi: e’ quali, dirotti i vincoli d’ogni costume e fugitivi e nel giorno e nel secolo, di penne aliene e de’ fasti delle lor bugie si credettono poter vestire la luce della vita: ma erano tenebra e perdizione.

E poi codesti istorici de’ mia stivali me faranno uscir da’ gàngani, un dì: sì come oggi codesti meticolosi e peritosi giurisperiti, e’ quali vi consumano ventotto giornate di Corte per non arrivare a punire uno sbirro assassino: mobilitando a ogni assisa del gran plàcito trecento a quattrocento capi e capocce, tra guardie, bidelli, cavalli, giudici, apparitori, testimoni, patroni, riportatori, stenografi, sanza computare l’altre cinquecento madri dei fucilati, degli escruciati ed arsi: che, nere, all’impiedi ascoltano a nasicchiare la giustizia tra cautele e more infinite, davanti la legge brodolona. Quanti giorni o mesi hanno i tiratori indugiato, dalle lor fenestre e dagli abbaini, da stendere in sulle selci per le vie di Firenze le donne, o i giovini volontari d’i’ Mmugello e d’i’ Vvaldarno che salutavo a i’ ppalagio, nella triste luce? che fu, per molti, la ultima luce? Un attimo: e il mondo spento, e per sempre. Gli storici magni non hanno registro ai concussori e falsarî, a’ ladri, ai truffieri, a’ biscazzieri, alle accomodanti femine, a tutti coloro che barattano parole per merce, che dicano altrui la virtù, la patria, il sapere, il coraggio, i destini futuri, e vivano mosci ganzi, militari imboscati per tabacco all’ascella, somari eterni, e spaurati nell’esangue lor viso: che al volto de’ combattenti e dell’Isonzo e del Carso e dell’Altipiano e dell’Adamello dican l’onte della lor natura maligna: che alla tavola degli amici, e de’ compagni in vino, isiedono spie. Certi istorici non fanno computo bastevole del «male»: e del «problema del male»: parlano come se tutto andasse per il suo verso, come se non le fussero tutte le deviazioni infinite che conosciamo, i ritardi, i ritorni, i ponti rotti, i vicoli ciechi della storia. Così un elettròlogo il quale, riscontrata in nel su’ circuito una dispersione di corrente, verbigrazia inverso terra, non curasse di emendarne il circuito.

L’atto di coscienza al quale vogliamo e dobbiamo pervenire comporta un’analisi della furbizia umana che resulti la più permeante possibile. Noi vogliamo ricostituire, meglio anzi, costituire una buona società: facciamo dei bei ragionari: di begli edifizî leviamo, con tutte torri, nel vacuo de’ nostri sogni più sognati: e codesta società utopica la scodelliamo calla calla dalla pignatta delle nostre mejjo intenzioni, de’ nostri dilicati sentimenti, de’ nostri encomiabili proponimenti, del nostro prurito di giustizia: che d’è un pruritino, fin tanto le son parole, de’ più piacevoli a grattare. Ci si accatta quasi più gusto a iscrivere la storia del Logos, massime poi la futura e inzognata, che a grattarsi le spalle a’ cantoni.

Ma te ti dimandi mai, o a vespero o a mattutino, quanti di noi fussino o in facto sono e’ ladri? quanti i lor complici? quanti gli assassini e predoni? quanti i concussori? quanti i bari? quanti i simoniaci e compromettitori, agli uffizî e a le chiese? quanti i maquero, sive parasiti a le poarine? quanti soltanto anche i poltroni, i giuggioloni, i pavoni beati a passeggio in sul Vittorio Emmanuele? quanti i bevitori di bitter? quanti i cik-cik, ma dicano in brache larghe e ’n camicia porpurina d’aver udito sparo a Bezzecca? Dico quanti percentualmente?

Te tu fumi, puf puf, dandoti di grand’arie per questo. E allor che vai a bottega di tabacchi, o entri, pavone, il caffè, là dove c’è la tu’ nicchia ad accoglierti, con il nimbo di fil di ferro già predisposto a nimbare la santità gloriosa d’i’ ccervellone d’un tanto piccio, be’ te tu t’ha’ mai noverato tutti l’omìni che vi stanno? E zervinotti di poche castella, e di meno voglia a murarne? E chi gioca, mesto, le dame: e chi scaracchia: e chi si gratta i ginocchi: e chi non dice nulla, e t’isguarda, perché la Sibilla non dice se non dimandata e remunerata ad anticipo, e anco quel poco per ambage. Ed è all’ore di luce e di lavoro: che in sull’opere si batte ferro: e che il capo maestro garrisce i giovani d’in sul palco lassù. E di codeste iscioperate razzumaglie te tu vuo’ rizzar la republica perfetta? O Plato, cùrati.

Quanti? Quanti? Dico quanti sul novero? E d’altra parte quanti i tubercolotici, meschini!, co’ i’ ccazzo ritto: quanti gli uricemici e gottosi: quanti i colitici: quanti gli epatici: quanti i diabetici: quanti i nefritici: quanti i cancerosi, li acromegalici, i basedowoidi, i luetici: quanti li oppilati sive pilettici: quanti, poi, quelli che fanno ciriegie e peperoncini: quanti con privazione d’una gamba: quanti i nevrotici, gli psicotici, i maniaci, li ossessi, li ebefrenici, i pazzi: e quelli che per dire Caribaldi e’ dicano bah bah, poarini! Quanti i gobbi? Quante, e tòccati, le quattromila maladette gobbe de la città di Scarica ’l ciuccio: che d’una svolti e t’imbuchi e dell’altra svicoli e scappi? E non fai a tempo a toccarti le stelle?

Manicomi, sive hodie «cliniche psichiatriche» e’ loro abitatori, carceri e’ sua frequentatori, ospizî e spedali, tubercolosarî, pie case e instituti, ricetti e asili di deformi, seggiole co’ seduti loro in ne’ caffè, guardie addormite, e inoperanti giudici per tutto! E tutto grava sul lavoro e sulla coscienza dei pochi (non io di certo) e capaci: atti a fornire alla società umana un lavoro normale, una prudenza esperimentata e normativa. E dirò non meno de’ beneficanti negozî, o ’stituti, ma anche lo scrupolo giuridico, in ne’ laberinti infiniti delle leggi, e lo immenso macchinone degli uffizî dagli ambulacri e dalle dimore del sonno, e’ mantrugiano e tritano il loro compito lento e le più volte inane, isminuzzando le particole a’ paragrafi e leticandole a’ commi, e d’ogni virgula facendo verga (al prossimo, e colà là là indove sassi) e ruminando il tempo col sedere: a spese di chi può, dopo l’ore e l’opere e i giorni, versare zecchino d’oro di lavoro, e di buon senno in nella ciotola del comune profitto. Dico anzi della comune vivibilità.

Però non so concipire una storiografia, né una teleologia, cioè una speculazione de’ passati eventi e né una perscrutante divinazione de’ futuri, se non a patto che una dispietata analisi la precorra a ogni storia, a ogni teleologia politica. Il male deve essere noto e notificato. E nuncupàtolo con trombe dal monte, allora e soltanto allora il meccanismo secreto d’ogni consecuzione ci verrà fatto saperlo, e quasi vederlo ad opera di sotto alla fragile crosta della dialessi di superficie, e al caramello de’ bollettini degli uffizî. Dove ci sta di cioccolato: Buona Pasqua! Che sì, buona Pasqua! Il male noto e sparato fuora di tromba. Gli ostacoli di ordine gnoseologico o pratico i quali vietano raggiungerlo devono andar superati, o rimossi. Ove tra i detti ostacoli figuri il disiderio, legitimo, di «non udire certe sconcezze» che è propio d’alcuni galantomini bene educati e de’ loro mughetti di figlioli, o d’alcuni papi dalla prosa piscatoria, e de’ loro scivolosi mugini e scòrfani di diaconi, be’ né a gli uni né a gli altri vu’ gli farete né manco annasare il mi’ libro; ch’io non vo’ piati. Ma piuttosto ragionare d’amore e levar bicchieri con gli amici, all’alba nello sperato simposio.

Lo spirito di nettezza, la voluntà di edificazione è tale, in taluni, che nemmeno vonno udire di certi diportamenti de’ birbi. Pure i birbi birbeggiano. Sicché quei taluni il bel torrione della loro purezza catafratta (di prosciutto nelle orecchie) lo vanno edificando sul molle: me’ che la torre a Pisa: pervenuti al fastigio la turris eburnea la pencola. Costoro a me mi paion quelli che toccandogli a dormir tra le cimici, si proponessero non percepirne le pinzate. Stanno lustri! Appena spengere il lume…

Ove, poi, certo stato nevrotico, o di flogòsi d’utero, con certa ottusa e fabulosa fissazione in sulle frasi fatte, vengano concurrenti a felicitare di cotestoro il candore, la «moralità», la dignità, la buona fede asinina, e quello ischifeggiante riparar del nasino o del nasazzo in nel fazzolettino, o al bottiglino de’ sali, e allotta lo ’ncriminato, (ed io son tale), può andar securo a condanna: bah! Costoro non la perdonano a cui ragiona infino al termine, e «dice certe cose…»: né a vivi né a morti. E’ repudiano chi conosce e chi denuncia il malestro, o più il malefizio, non già chi l’ha premeditato e posto ad atto. Il quo modo e il qua re sarà veduto a’ capituli che seguono. Te t’hai a legger di Giacomo, dico del gran conte Liopardo, a’ Pensieri, I, verso i’ ffine: «Anche sogliono essere odiatissimi i buoni e i generosi perché ordinariamente sono sinceri, e chiamano le cose coi loro nomi. Colpa non perdonata dal genere umano, il quale non odia mai tanto chi fa male, né il male stesso, quanto chi lo nomina.»

Ebbene: me ne duole per que’ gigli, ma io «devo dire certe cose». Il mi’ rospo, tre giorni avanti di tirar le cuoia, devo pur principiare a buttarlo fuora: il rospaccio che m’ha oppilato lo stomaco trent’anni: quanto una vita! Sarà un parto difficile, vecchio, e da questa bocca istirata a le creanze, e da poi ammutolata al bavaglio: e dato poi che ’l batrace in discorso gli è dimolto verde, e tutto rigonfio i’ bbuzzo di fràcido: e l’è grasso e l’è però de’ più pesi, de’ più biliosi, de’ più schifosi, de’ più venenosi!… abbino mai albergato ne’ secoli a pancia d’uomo.

Dovrò percorrere gli oscuri cammini. Più che degli stati erotici coscienti, palesi ad omo, be’ mi propongo invece seguire il filo ariadneo de’ latenti, non registrati e né pure forse avvertiti dalla esimia dialessi. Anche de’ primi e noti mi piacerà tuttavia far menzione, specie ove travestiti da nobile parvenza, o intrugliati in ne’ sughi della gloria, o avvinti a’ bei nomi, alle sonanti parole, a’ «magnanimi sensi»: quali funghirono di tutte stampe, coevi all’amore delirante e a’ raduni oceanici, e a tutti gli archi del Bombetta: quando menò per via sacra il suo caval bianco (tòccati!) e antecipò e’ scenici triunfi del suo Mavorte buggerato alle folgori annientatrici del gastigo d’Iddio: il triunfo gallico, ad Alpe in diacci e a predar le case a Mentone, il libico, l’illirico, il ruteno, l’ellenico. Tra’ marmi lustri e romor di fanfare, e tamburi e pernacchî: e i ragli sua di Somaro infiniti.

M’incresce un carciofetto alla vostra indulgente pazienza aver dimandato alcuno indugio, per questa coda di questo primo capitulo, che dirò inlinitivo e propedeutico. Non già dichiararvi per punti icché intendete bene da voi, e meglio ancora conoscete ch’io conosca, potevo né volevo: ma debitamente significarvi ’l mio scrupolo. Latenze erotiche subsistono, operatrici indefesse, al nostro vivere e al nostro morire d’ogni giorno: a’ modi, agli atti, a’ penzieri, a’ sogni, a le mestizie, a le angosce, a le brame: vo’ vu’ me lo potete impertire: e non osate. Movono i diportamenti «normali» de le genti «normali», delle persone ragionevoli e della società ragionevole. Eros è alle radici della vita del singulo e della mente individua: ed è fonte all’istinto plurale e a la sociale pragmatica d’ogni socialità e d’ogni associazione di fatto, e d’ogni fenomeno qual vo’ vu’ dite «collettivo».

I rapporti in tra «l’uno» e «gli altri» sono eros, quando magari contratto, quando magari trasfigurato e sublimato: e taciuto o detto, o rinficuzzito a poema: dopo esser suti una poppata, o uno zampillo in grembo, (a la balia), e avanti maturarsi in mito e in dialogo o lagna lunga per monna, cioè dicendone Plato e Ficino, e ’l Petrarca: o sonetto e in onor di Febo (di Poggio a Cajano) quando vi s’intrica Michel Agnolo. La percezione che «l’uno» ha di sé medesimo che d’è, nisi amore, dopo che sazietà gastrica agli anni d’i’ llatte, e deliziosa frescura de’ duo pisellini, e dello infarinato cocò? e prima d’essere, e le non molte volte ci arriva, autocoscienza? L’io collettivo, al quale in determinate sedi del discorrere (alcuni filosafi, alcuni sociologhi, e dimolti speculatori d’Utopia) si suol attribuire un processo e una voluntà razionale, e però una coscienza ralluminata all’atto in fra le ondose dicotomie dello spirito, be’ l’è bene spesso un baron futtuto ma di quelli! Tu chiacchieri, e lui ruba. E poi! avessi campato a i’ ddeserto! Ma ho campato col mio rospo in corpo dove l’io collettivo faceva de’ molti millioni di sue rara spezie coagulo, e levitava in piazza, e gonfiato a pasta di demenza annitriva: hi-hà, hi-hà. Per poco benefizio. Ché ’l gonfalone del comune di Milano l’era al pepe e a la canfora. E le palle al pallaio.

Una veridica istoria degli aggregati umani e de’ loro appetiti, dico una storia erotica dell’uman genere e degl’impulsi fagici e de’ venerei che lo suspingono ad atti, e delle sublimazioni o pseudo-sublimazioni pragmatiche di quelli, io mi credo ci rivelerebbono le cose inaudite: altro da «non voglio udire certe cose»! Il grande valore e ’l difficilmente contestabile merito di molti mémoires, come anche di quel genere di scritture che dimandiamo «romanzi» e confessioni, ed autobiografie, o lettere di madama a madama, in ciò consiste: che ne danno in vario modo e registro una imagine totale della vita (quando la danno): le non si chetano alla simplicità d’alcuni temi, o punti, e né si contentano d’abstrarli per nobbile e pure alquanto asinino arbitrio dal totale contesto d’una biologia. Intendi romanzi e mémoires e lettere lunghe d’oratori (3) a palazzo e imbasciatori veritieri e di chi sappî fare, e prima l’abbî l’occhî a vedere: e ’l naso aguto a fiutare. Se uno l’è un cervellino d’un càgnolo che mi va zoppo alla cerca de’ tartufi, e si crede che i’ ttartufo l’è il fungo venenoso che gli sta sopra a piombo, e fuor da terra, dove di sotto gli è ascoso i’ ttartufo, be’, allora. Ma se uno gli è un porcello bono d’imbasciatore o di memoratore, lui non ha manco fiutato il sitìo, che già principia a rugumare, a biasciare, e soffiare, e ad annasar co’ i’ ggrifo, e a raspar con l’ugne de li zoccoli, che ci hanno codesti scrittori, codesti imbasciatori e codesti porci a le lor zampe davanti; e dài, e grufola, e fiuta, e soffia, e biascia, e raspa, insino a tanto non gli ha cavato fuora la patacha: senza pure lui l’abbi tocco, quel papavero d’un fungo ritto.

«Certe cose!» Vien via! Hè, hè: una veridica istoria degli appetiti e degli impulsi delle anime! e degli aggregati di anime!

A far principio dalla colendissima famiglia, «base della società»: com’è veduto; quando la spartana madre o la spartana zia un gli parea vero di darglielo ar Baffo, il nipote o ’l figlio: da farne cadavero a gelo, o a mare nostro, o a la duna d’i’ ddeserto: per la immortale gloria del Baffo. A principiare dalla «santità della famiglia», che da cantarne le laudi e letàne eterne mai ti bastavano i più dilicati adiettivi, nomi, verbi, sorrisi, dentifrici. Cui s’adiungessino gargarizzi infiniti, e tremori, e rossori, e scodinzolamenti e sculettamenti e basci, con profonda e interior commozione de le budella, catarri, broda, cacca e soffianasi. Nulla mi è più caro della famiglia (che non ho): ma la verità va proferita anche incontro a famiglia.

L’io collettivo è guidato ad autodeterminarsi e ad esprimer sé molto più da gli istinti o libidini vitali, (che sono le fasi acquisite e le arcaiche e di già compendiate del divenire), cioè in definitiva da Eros, che non da ragione o da ragionata conoscenza (che d’è la fase in atto, o futura che tu te ne fabbrichi). Questo non ovunque, non sempre, ma di certo ove la gora del divenire si ristagna: e dove s’impaluda nelle sue giacenze morte la storia, e la «evoluzione» del costume. Ché te t’hai a ritenere un prencipio: gli impulsi creatori e determinatori di storia grossa e’ si immettono in nel miracolato suo deflusso per «quanti di energia», e non già in un apporto continovo. La storia grossa conosce le sue paludi, le more de’ sua processi, i ritorni, i riboboli inani, le stanche pause. Dovendo dire ne’ termini dell’algebra, dirò che l’impulso storico ed etico di storia grossa non è una funzione continua del vivere ossia del manicare e del defecare degli òmini. Si dinotano nella discesa storica le determinate e partite immissioni di contenuto, alterne a periochi morti o stanchi, debili o nulli. Così nel fiume reale vi discendono i sua fiumi influenti, ma l’uno appresso all’altro, e distinto ognuno per propia foce dal precedente, e seguente: duo Dore, Sesia, Ticino, e l’Adda e l’Oglio, e ’l Mincio: e Stura, e Bormida con Tànaro, e Trebbia.

In codesti lachi di storia grossa, dove non è chiamata del futuro, ivi Eros ammolla, e più facilmente infracida e bestialmente gavazza. Si credendo andare; e sta. E bada: non significo nel nome di Eros una pratica e spicciola e dirò comune dissolutezza e del dire e del fare, che le qualche volte ha funzione purgativa, o limitativa di bugia maggiore, o dirompente gli apodittici vincoli del gran castello de le bubbole (Plauto, Boccaccio: et similes). Che no, che no. Vo’ intendere tutt’al contrario la sicinnide, e l’orgia bacchica di tutti i sussulti affettivi non mediati: quando il modo ne venga recato a canone, a paradigma e a sistema di vita. (Prosunzione di dementi e di malfrullate: asini che si credano Mosé: facili affetti, facili parole, bona intenzione che non la costa nulla, subita avidità degli onori e de’ guadagni cavandoli del sangue fraterno; spedienti criminali da indorar la vulva alla ganza o da magnificare per marmora i’ ppropio cesso: fede [finta] in ne’ vangeli contradditorî l’un dell’altro: libidini travestite di patria: fingere il non avvenuto e il non a venire col farne mimo in asfalto e balletto di Via Culiseo e gabellare velleità per voluntà, e prurigine e inane sogno per opera perfetta: e berci, e trombe, e ragli: e spari di cannone voto di nave Puglia da tenere addietro i’ ttudesco, e lo schiavo.)

C’è poi da dire, amaramente, che i secondati istinti del vivere comune e, ben più, il magistero che ti viene da una sperienza lungamente professata o patita nel comune, servano, a volte, infin la causa di Logos. E me’ la servano, a volte, che lo infinito almanaccare e bavare e disquisire e disgiungere dello intelletto, sopra all’oceano infinito de’ sua lemmi, e de’ sua commi, bicorne o quadricorne ma cornutissimo di certo ch’egli è. A più spesso quaderno una analisi de’ documenti molti che possano, che debbano confortare l’asserzione. Valga qui essa non altro se non a ribadire come buon chiovo la opportunità di chesto consumato capitulo: del richiamarci, dico, a codesta diffusa «erotia» de la vita («normale» o anormale, però comune a tutte i vivi) prima di poter torre ad essamina la erotia d’una banda estrovertita nelle loro mostre.

L’atto di conoscenza, in genere, ha da radicarsi nel vero, cioè in quel quid ch’è stato vivuto, e non sognato, da le genti: ha da radicarsi in quel ch’è suto l’enunciato della storia, e con potenti ed onnipermeanti radìche: sì come di faggio, d’antico faggio, in ne’ cui rami superni fragorosamente, ma vanamente, lo stolto vento prorompe. Non può chetarsi a un bel sogno, o all’astrazione della teoretica pigrizia, da che l’omo buono è condutto, pur nolendo di suo cuore, ad errore. Dacché l’astrarre con abuso di lambicchi arbitratamente dagli involuti ed innumeri motivi della causalità una decina magra magra di preferiti motivi, coartandone d’una iscrittura di storia vera e vivuta una finta, e di poco inchiostro annotata e l’addarsi a filosofare e a giostrare intorn’a quelli, e ’l mingervi sopra tuttodì da man manca non costituisce filosofia, né storiografia, né politica: sì mero arbitrio, gnoseologico e pratico. Il desiderio e la prescia di edificare (e vada per i difici, as you like it!) non devano bendarci gli occhi sulla natura del terreno, quando l’Arno, da sotto, lo isvuota: sui «mezzi economici»: sui materiali e stromenti disponibili, cioè qualità vere (e non finte) delle anime, delle animacce nostre balorde: e men che meno sui limiti, alquanto scarsi all’opere e corti all’evento, o ritardati ad imagine di casa aliena, della nostra perizia di pappagalli, e sagacità di architetti da Babele.

Mba’, il mi’ ragionamento non è se non parte di uno più generale discorso: minima contribuzione a quel conoscere (novi, novisse) di cui maturerà la totale coscienza di un poppolo, ov’ella daddovero nasca, un giorno, e sussista: al quale atto, io ve l’ ridico, aranno eminente parte i periti, dagli istorici ai fisici, e lettori a Padova allo studio.

Con il qual dittato miro ancora a «fissare» nella loro luce bugiarda e lividamente funerea, e nella loro eternamente risibile bischeraggine, alcuni tripudiati e pomposi o perentorî e giacculati motti, con frasi e paràvole e formule, quali controsegnarono in nelle bocche de’ beventi (a chella fiasca) e per tutti muri della Italia vituperatissimi, doppo i richiami de’ naranzi e delle purgative pozioni, la fraudolenta verbalità de la cricca. Alcune esempia, intendo: ché una silloge compiuta la dimanderebbe l’ampiezza totalitaria d’un Lèxicon: ed io lo raccomando in idea, codesto Lèxicon, a quale de’ soprastanti vuomini l’abbî più viva ed esumante memoria, e intera e intrepida facultà d’ore e di studî ch’io non mi ritrovi a penna: stanco, e pervenuto al commiato. Ed e’ farebbe buon brodo di filologo, e a un medesimo andare di annotatore de’ costumi: le quali scritture vanno pari.

Paràvole e formule che non anco il blaterante Mosé se l’avea cavate di corda, un la istonato – in luogo d’òmini fussono suti fere gli prendeva le dimonia a la tribù – e in chella vece, e senza patire alcuno indugio, la gran cassa armonica del chitarrone italiano la principiava risonargli e poi multiplicargli la nota.

La burbanza delle frasi lapidarie: della imperatoria grinta. L’ebbrezza dei dissociati psichici imbottigliata e intappata nelle formule e negli apoftegmi asinini.

Tuono di gran patria, in arengo: e in privato parlare il vocabulario della popina e del lupanare. E la lungimiranza del gradasso ipocalcico, tutto appoggiato all’umor dell’ora. Il quale, di dieci bombardieri del Ticino, non s’avvisa ne fa diecimila il Missouri. E di balcone e di podio a piazza le sentenzie e le formule, da eternamente iscriverne il monte, e da venirne dittaggi a le genti: con la repentina prolazione di chella proboscitata carne buccale, di che, in un grido sùbito, le si esaltavano le multitudini. E a confortare l’enunciati ’mperiali della bocca, la maestà e la eleganza julia del porgere: l’apodittico e venustissimo o-riga della man destra in sermone, alfiere e araldo a la suasione dittatoria: di due diti fatto, l’indico e ’l pollice, che avuto di natura alquanto spiro in nel mezzo, lui te li ricongegnava a le cime: e protendeva la mano incontro a’ mutoli, incupiti e fatti feroci ad ascolto. E quel simbolo così virilmente digitato e infichito era tutto ’l dono e l’ostia da lui potuto offrire e di fatto potuto oblare al su’ poppolo, gran donatore essendo (pontifice massimo ad ogni sagrifizio): e magnanimo erogatore, e d’arbitrate leggi, e del denaro e del sangue non suo. Ed era ’l poppolo satisfatto e come ferocemente saziato a riceverlo, un tanto premio della fede, della pazienza, della speranza: e della sempiterna simplicità. Ché di quel simbolo o gettone ovverosia jattata riga d’i’ ggran fico ruminale o romuleo poteva conoscerne avvicinato, anzi soprastante, ’l gran gaudio: cioè l’acme della flogòsi verbifera del Bombetta.

Sgrondava giù chel gran verbo di balcone o di podio su la moltitudine «delirante», incamminata a la bersagliera verso i destini dello ’mpero (qual fu con certe nespole, in sul Campo Marte, che ancora me lo sento a notte e più a giorno chiaro).

Mba’, isgrondava, il verbo. Di colassù di balcone i berci, i grugniti, i sussulti priapeschi, le manate in poggiuolo, e ’l farnetico e lo strabuzzar d’occhî e le levate di ceffo d’una tracotanza villana: ch’era senza sustegno di cervello, né di potere alcuno da tenere addietro l’inimico, o, più, l’alleato. E al mezzo, al centro scenico del mimo, andatene ad onni vento il dolore, atto catalitico e resolutorio in fra tutti la esibizione del dittatorio mento e de la panza in orpelli: lo sporgimento di quel suo prolassato e incinturato ventrone, il dondolamento ad avanti-indietro, da punte a tacchi, irrigiditi i ginocchî, di quel mappamondo suo goffo e inappetibile a qualunque. Indi la reiterata esultazione di tutto ’l corpo, come lo iscagliasse ad alto una molla, e di tutta la generosa persona: a parer più grande emiro in cima ai zoccoli: indi poi chella fulgurata protuberazione di chella sua proboscide fallica, e grifomorfa in dimensione suina, che dell’abundanzia di carne dell’apparato buccinatorio e del buccale sfinctere e labiale bucco gli era con tutto giolito e deiezione patria d’ogni disceso de’ Malfrullati assentita. Propugnando a Francia, o a la bieca gente britannica, d’un suo pugno fabrile, e inchiovatosi il tudesco chiovo dov’e’ lo si potéa chiovare di verguenza, ecco ecco ecco eja eja eja il glorioso e ’l virile concitarsi del non più veduto manustupro: e la consecutiva polluzione (maschia) a la facciaccia de’ molti, degli innumerati e acclamanti. E da basso, e per tutto, tutti i grulli e le grullerelle fanatizzate della Italia a gargarizzarsene, a rasciacquarsene l’anima, di chel bel collutorio: che il Gran Maestro, tumescente in basedòwico esoftalmo, aveva coriandolato dal podio, o balco, o arengo, della novissima erezione sua.

Eretto ne lo spasmo su zoccoli tripli (juché sur de triples talons, Fernandez nella N.R.F.), il somaro dalle gambe a ìcchese aveva gittato a Pennino ed ad Alpe il suo raglio. Ed Alpe e Pennino echeggiarlo, hì-hà, hi-hà, riecheggiarlo infinitamente hè-jà, hè-jà, per infinito cammino de le valli (e foscoliane convalli): a ciò che tutti, tutti!, i quarantaquattro millioni della malòrsega, lo s’infilassero ognuno nella camera timpanica dell’orecchio suo, satisfatto e pagato in ogni sua prurigo, edulcorato, inlinito, imburrato, imbesciamellato, e beato. Certi preti ne rendevano grazie all’Onnipotente, certi cappellani di cappellania macellara; certe signore, quella sera, «si sentivano l’animo pieno di speranza». A chiamarlo animo, il sedano, e a chiamarla speranza, chel sugo.

Talché amici, o forse inimici, non sarà stupore dopo quanta bile!, dopo interminata vergogna, d’un tal quale serpentesco iridarsi della mia suite: voi arete a danzare con vostre donne ad agio, ad allegro, e a presto: levare indi il bicchiere, il colmo ancora o il già trasparito bicchiere di vostra giovanezza, a la faccia de la sdentata eternità. Ché la suite la si partirà secondo e’ patti e gratterà lungo tutto il festino conoscendone rigodone e perigordino, indi arlesiana: con ciaccona, pavana, chiarentana, ciciliana e lamento a dondolo: bergamasca, seguidiglia, passacaglia, tarantella, tattarello, polacca, punta e tacco. E sarabanda: e giga.

— II —

«La causale del delitto», cioè i torbidi moventi che hanno costituito per la banda euforica l’impulso primo verso una serie di azioni criminali, è una causale non esclusivamente ma prevalentemente «erotica» (nel senso lato che, come avrete avvertito, io conferisco al vocabolo) nel suo complesso: segna il prevalere di un cupo e scempio Eros sui motivi di Logos. A una disàmina esterna, tutta la ventennale soperchieria è contraddistinta dai caratteri estremi della scempietà, della criminalità puerile, della mancanza di senso e di cultura storica: non diciamo del senso etico e religioso. Essa è una netta retrogressione da quel notevole punto di sviluppo a cui la umanità era giunta (in sullo spegnersi dell’epoca positivistica) verso una fase involutiva, bugiarda, nata da imparaticci, da frasi fatte, dalla abitudine di passioni sceniche, da un ateismo sostanziale che vuole inorpellarsi di una «spiritualità» e «religiosità» meramente verbali. Ora questa caratteristica denuncia precisamente che il pragma della banda e del capintesta è un pragma bassamente erotico, un basso prurito ossia una lubido di possesso, di comando, di esibizione, di cibo, di femine, di vestiti, di denaro, di terre, di comodità e di ozî: non sublimata da nessun movente etico-politico, da umanità o da carità vera, da nessun senso artistico e umanistico e men che meno da un intervento di indagine critica. Si trattava per lo più di gingilloni, di zuzzurullone, di senza-mestiere dotati soltanto d’un prurito e d’un appetito che chiamavano virilità, che tentavano il corto-circuito della cariera attraverso la «politica»: intendendo essi per politica i loro diportamenti camorristici. Esenti, a volte, da ogni obbediente disciplina interiore, privi, a volte, d’ogni preparazione specifica come certi ragazzacci abbandonati dell’oggi, non essendo (né potendo essere) né marinai né agricultori né giuristi né commercianti né medici, disadorni financo del misero addobbo d’un diplomuccio di scuola media, essi tentavano col dimolto bociare e con l’infilarsi un par di stivali da cavalliere appiedato alle gambucce mence e stortine e con la facile agitazione e gracidazione totalmente inutile alla compagine nazionale e ai fini del lavoro comune. Tentavano di scavalcare nella «gerarchia», ma non nell’impegno e nella fatica e nell’intelligenza dei fatti biologici, le persone preparate aventi sulle spalle anni di lavoro e di sperimentato mestiere. Altre volte detenevano di già i primi titoli ed ufficî e patacche e brevetti: e allora tentavano farsi più avanti con prestazioni verbose, poliziesche, con uno zelo verboso e poliziesco. Erano i «corti-circuiti» dell’ascesa.

Ora questa bassa prurigine non fu virilità conscia de’ suoi obblighi, ma improntitudine di violenti disposti a tutto per tirare a casa una sovvenzione e per esibirsi stivaluti e armati di coltello al corso: disposti a tutto e in primis a plaudire chi è «in alto» (cioè i ladroni prelati dalla fortuna e dalla scaltrezza) e a far la spia e lo sbirro «a ’n collega mio». Cominciavano ad agitarsi nel guf, che era il seminario, la pépinière delle spie: facevano la spia ai docenti e ai compagni: fiduciari di gruppo, cioè ladruncoli e concussori e spie cantonali, a ventun anni: federalastri a venticinque, prefetti a ventotto. Tutta la nazione è stata posta in mano a codesta ragazzaglia: con il motivo del ritornello giovinezza giovinezza, primavera di bellezza: come una claque di scalmanate mamillone che, naturalmente, all’intravedere non dirò qualità «maschie» ma ornamenti fallici e vescicule seminali in quei ventitreenni perdevano completamente le staffe: «Io sono fascista, io amo la mia Patria… » dicevano con anima speranzosa fremente nell’attesa.

Ora tutto ciò è Eros, non Logos. Non nego alla femina il diritto ch’ella «prediliga li giovini, come quelli che sono li più feroci» (Machiavelli, Il Principe) cioè i più aggressivi sessualmente; ciò è suo diritto e anzi dirò suo dovere. Non nego che la Patria chieda alle femine di adempiere al loro dovere verso la Patria che è, soprattutto, quello di lasciarsi fottere. E con larghezza di vedute. Ma «li giovini» se li portino a letto e non pretendano acclamarli prefetti e ministri alla direzione d’un paese. E poi la femina adempia ai suoi obblighi e alle sue inclinazioni e non stia a romper le tasche con codesta ninfomania politica, che è cosa ìnzita. La politica non è fatta per la vagina: per la vagina c’è il su’ tampone appositamente conformato per lei dall’Eterno Fattore e l’è il toccasana dei toccasana; quando non è impestato, s’intende. Talune gorgheggiavano e nitrivano gargarizzandosi istericamente di «Patria», talaltre di «’nghilterra deve scontare i suoi delitti».

Questi accenni denunciano il mio pensiero: Eros nelle sue forme inconscie e animalesche, ne’ suoi aspetti infimi, e non ne’ sublimati e ingentiliti, ha dominato la tragica scena. Vent’anni. Logos è stato buttato via di scena dalla Bassaride perché inetto a colmare la di lei pruriginosa necessità. Ma la funzione di Logos non è quella di satisfare alle vagine, ma di predisporre l’andamento generale del laborioso incedere umano. Tutte le grandi e operanti collettività della storia e direi della biologia non affidano la gestione del proprio travaglio a’ giovani, ma a’ maturi ed esperti, o, se volete, meno immaturi o meno inesperti. I nomi stessi «senatus» e «presbiterium» lo dicono. La signoria veneta e la repubblica romana non erano governate da venticinquenni. Né li principi della Chiesa vestono la porpora a diciott’anni: anche se il primo de’ due alti prelati Borromeo ha potuto vestirla a ventuno per i buoni uffici della Gloriosa Memoria di Pio Quarto dei Medici di Marignano (Pius Pontifex Quartus Medices Mediolanensis) che era fratello di sua madre: cioè s’aiutarono, come avviene, di zio Papa e nepote: anche Giovanni di Lorenzo de’ Medici di Toscana (Lorenzo di Piero il Gottoso) la vestì a 4 di età sua. La edilità, la prima del «cursus honorum» era incarico di relativamente piccola responsabilità rispetto alla pretura e al consolato susseguenti. La propretura e il proconsolato, cioè il diretto governo delle provincie, erano affidati a maturi, anche se l’impazienza delle «nuove generazioni» cioè delle nuove ondate di appetenti, poteva muovere una seria e dannosa concorrenza ai già cotti dalla vita.

Il giovane ha da prepararsi nella disciplina (da «discere»: in latino «disciplina» significa apprendimento teorico) e nella pratica (usus) («usus ac disciplina, quam a nobis accepissent» – Cesare) famigliare e scolastica da prima, poi militare e civile; negli ufficî specifici, nelle carriere scientifiche. Voi, lo vedo, mi dite, con animo attento a compiti ben determinati e non con la bocca protesa verso generici slogans che queste cose sono superflue da notare e ben sottintese al discorso: eppure il costume della cricca le ha sistematicamente ignorate. Fare del giovine italiano una spia e uno sbirro, paroloni in bocca e coltello alla cintola: e della spia e dello sbirro un prefetto e un ministro: paroloni in bocca e coltello a la cintola, questa è stata, nella realtà, la pratica politica ed etica della baldanzosa camorra.

Tuttociò è turpe Eros, non Logos: è corsa precipite verso una preda di polli e di luganeghini, appesi in fondo al palo sul mare, al molo come nella sagra del Forte dei Marmi, con capitombolo a panciarotta nel mare. Così nella tragica sagra nostra non si verifica un meditato e premeditato guardare alle fortune fraterne che si richiede a chi opera in sommo della «gerarchia»: sguardo che, negli spiriti più alti, è sempre commisto d’una certa generosa tristezza, direi d’una materna e carezzante malinconia, come il presciente sguardo delle Madonne verso la Croce futura. E il futuro non è fatto di imparaticci istrombazzati a vanvera o di appagate libidini, ma è una laboriosa, dolorosa creazione del nostro spirito che si macera e si sublima nelle buone opere.

E chi comanda o richiede il sacrificio agli altri, ha da sacrificarsi per primo: se non nel senso letterale di offrirsi primìpilo allo strale nemico, almeno però nel senso di costruire e vivere dentro di sé l’angoscia, lo sforzo, la verità vera della battaglia. Il solo generale ammissibile è colui che suda sangue. L’inspirazione di chi chiede altrui la vita per buttarla nelle sue scipionate del cacchio, alla conquista dell’inesistente petrolio e del roseo fiore del carcadè, io non ammetto lui la possa toglier su come fece il Pirgopolinice dagli spettacoli e dalle fanfare: l’inspirazione per il comando viene da una dolorosa e perspicace contemplazione del «minor male possibile». Non sono le rubeste cosce de’ giovini, per quanto un po’ pelose, che sfilano con le guide di plotone lungo la riga bianca di Via dell’Impero «in allineamento perfetto» (fotografi e cineoperatori appostati) a dover inspirare la politica d’una nazione che vive difficilmente la sua recente unità nazionale e le sue costose e indigeste «conquiste», vaso di terracotta destinato da Dio a viaggiare in compagnia di vasi di ferro. Questo inspirarsi alle cosce, ai calzoncini corti, a’ bei deretani mantegneschi degli òmini e de’ cavalli, è Eros ginnico e pittorico e se tu vuoi mantegnesco, non Logos politico. Amo il Mantegna degli Eremitani e ammiro il suo crudele vigore (pittorico) e i suoi esecutori di giustizia, ma non provocherei una guerra per procurarmi la soddisfazione sadica ed omoerotica di buttarvi a morire i figli di quelle… a cui si è largito il premio nuziale perché facessono figli: figli, figli, figli, tanti figli, infiniti figli, da mandarli a morire nella guerra, guerra, guerra, guerra, contro i «delitti delitti delitti della Inghilterra Inghilterra Inghilterra Inghilterra». Eros arriva al regno di demenza. Eros è ben brutto quando il minimo cavatappi gli sguazza nel liquor.

E basti questo a significare la ragionevolezza psicologica e storica d’un asserto. Una lubido, una foja pittorica e teatrale ha condotto l’Italia al sacrificio durante il catastrofico ventennio, non una ratio, un νοῦς, una coscienza etica, uno spirito religioso. Religione non è l’accomodarsi col Papa per l’averne o sperarne licenza o assistenza alle sbirrerie e alle ladrerie, non è il battezzare le navi da guerra con l’asperges, non è il berciare da i’ balcone «la santità della famiglia» per poi sparapanzarsi adultero ai tardi indugi di un sonnolento tramonto. «Religio, religiones» (scrupoli o perplessità che ci «rilègano» al mistero) muovono a meditare sui destini umani e sulle fortune civili: non sono pratica che si esaurisce nell’inquadrare cappellani militari e vescovi castrensi da tenerli pronti e buoni per il dì della strage, nel comandare la Messa al campo, il presentat’arm al Santissimo co’ fucili mitragliatori, nell’invocare Cristo a benedire il siluro. No. Religione è una profonda attitudine a meditare sui destini umani e a servire la causa infinita che alcuni eletti (non io) hanno sortito da Dio. è un sommettersi a quel misterioso ignoto cioè non sempre razionalmente consapevole che sospettiamo essere, nella deserta luce della vanità, la presenza invisibile di Dio. Questa presenza di troppo supera l’arbitrio di taluni birri o delle loro spie dissiminate fra il pòppolo.

Se uno scempio Eros ha potuto sospingere la Italia a ruina, è logico il ripartire l’analisi degli aspetti che il basso impulso ha assunto nella variopinta sua fattispecie: è logico ripartirla secondo quella stessa ripartizione (schematizzante, eludente i trascurabili) che ho adottato al primo capitolo nel suddividere la fattispecie erotica della vita umana in generale. In altre parole la pietra di paragone dell’eros della banda, sarà l’eros «consueto» o almeno già noto della umanità. Ciò potrà fornire anche delle «attenuanti» al giudicio instituibile sui diportamenti della banda: in quanto si concedono attenuanti a chi opera sospinto da impulsi comuni a molti: e nello stesso tempo mettere agli avvisi il nostro spirito con una segnalazione di «pericolo»: poiché quando d’un fenomeno erotico della vita in generale sarà palese la similitudine col corrispondente fenomeno erotico del ventennio converrà dire a noi stessi: «Piano, Giovanni!» «Adagio. Attenzione!». La esperienza «deve» essere condotta a profitto: altrimenti si vàgola, si vàgola, bambocci sperduti, verso il buio inane dell’eternità.


— III —

LATENZE E NON LATENZE DELLA EROTIA NORMALE


è ovvio che l’aspirante tiranno o il τύραννος si volga preferentemente agli omini e a’ giovani, i quali, adeguatamente insigniti di coltello, possono venir promossi a strumenti precipui della sua birbonata. Dovendo predisporre la tirannia con gli scherani e coi complici, egli cerca, seduce, corrompe, assolda, inquadra scherani maschî e associati maschî nelle milizie, negli uffici, e li sparge con orecchio triplo di spia in mezzo al pòppolo. Senonché il Poffarbacco si preoccupò de le femmine. La sua esibita ed esibenda maschilità, sovreccitata da stimolo insano lo sospingeva a rivolgersi ancora alle femine che lo incupivano nel desiderio. E avvertito della importanza che le donne possono avere nell’«organico» della famiglia e della società, col suo fiuto di furbo di provincia sente che potrà tirare un qualche profitto dando a bere a le grulle che talvolta le sono ch’esse pure hanno senso e capacità politica, talché poi le donne gli vanno mugolando d’attorno col pretesto del comune amore per il pòppolo, in realtà sospinte da una certa lor ghiottoneria ammirativa per il virulento babbeo che regala d’amoroso guiderdone le amiche, ma insomma ne tiene a bada la vedovata lubido. L’organizzazione della Chiesa, che con la sua liturgia, le sue discipline, e col Sacramento della Confessione agisce o agiva efficacemente sulla eminave di sinistra, gli è in certo senso di esempio, di ammonimento pratico nell’atto in cui raggiunge la cadrèga. La donna «instrumentum regni». Il Cristianesimo ha indubbiamente «elevato» la posizione della donna nella società rispetto non soltanto a quella che è la posizione della donna nelle tribù nane dello Zambesi e del Niger, ma forse anche a quella che fu nella Grecia di Pericle e nella Roma della prima repubblica. Ciò anche quando le dispute de’ Germani ponevano all’ordine del giorno la spinosa «quaestio»: «se la donna abbia un’anima», o se sia unicamente un’appendice fisiologica dell’uomo, un rimorchio del camion. Il concetto moderno ha prevalso e la parificazione di diritto a parole, – sì, a pparole – è avvenuta. La concezione orientale (che segna forse una fase storicamente più arretrata del costume) ma che attraverso la Bibbia si affacciava sul Cristianesimo è rimasta a casa sua. Il Cristianesimo e la Chiesa Romana Apostolica si sono preoccupati della donna, sia per l’alto compito morale che essi intesero e intendono svolgere e di fatto svolsero e svolgono, sia per necessità e prudenza politica non potendo abbandonare le donne all’esclusivo mancipio dei rissosi e recalcitranti lor padroni naturali (i maschi) tanto difficili a domare e a trattenere, dato il loro fugitivo egoismo che si esprimerebbe nei detti: «Cosa fatta, capo ha: passata la festa, gabbato lo santo.» A chi si propone di sorvegliare e di migliorare una scolaresca, p.e. la bamboleria totale del villaggio, non può venir fatto di trascurar le bambine. Inoltre, checché si dica, le femine son più facili da tenere e da catechizzare, amano paravole e frasi che vengano pronunziate da vocione autoritario di maschio, ripetono preci e letàne (litanie) con più pronta ecolalìa, si spauriscono dello inferno con più pronto pavore; e da uno stato di soggezione etica e psicologica al mastio sacerdotale passano, con l’assiduità della seduzione loro, a indurre verso la buona causa il mastio maritale, il figlio, il fratello, in genere il cervellone domestico. Sono anime più «docili» (da «doceo») e più utili al proselitismo. E alcune delle terre della nobile Romagna, e della nobile Cesena a cui il Savio bagna il fianco come altri borghi delle Legazioni e certe terre dei Beni Patrimoniali conobbero a lungo la tecnica susurrante che il sacerdozio romano adibiva a tener savie le lor donne. Dopo l’antica e ombrosa sperienza, la nova e tumultuaria de’ rigurgiti di pòppolo, delle femine latranti, delle cravatte e de’ capegli nel vento, delle bandiere, de’ canti, delle biciclette e de’ volti incendiati. La donna il τύραννος furioso la conobbe e la annasò anche costì: il pavido idolatra del numero e della forza s’avvide che le femine gli potevano raddoppiare il su’ numero e la su maledetta forza. Se cento mastî urlano cento evviva, cento mastî più le cento femine urlano dugento evviva. E siccome la tendenza al proselitismo talamico vige e vale anche nel «liberato mondo» (Carducci), i cento evviva muliebri hanno forse un valore più sostanziale o almeno più promettente dei cento de’ mastî.

Si aggiungano le «intellettuali» del proselitismo professo e della «agitazione»: donne impavide che girano l’Europa: da lunghi treni e da Lugani di lapisazzurro recano al provinciale saturo di malessere e di furori blasfemi, di invidia di imparaticci e di bassa furbizie, gli recano un che di nuovo, di ardito, di serenamente umano e direi di virgineo se il tratto non vi facesse ammiccare: e il fiore mai vano della speranza, e il profumo (non ridete) del sesso. Sono russe, sono ebree: per lo più appartengono a classi colte, o almeno coltivabili: talora venute dagli agi, dai tappeti, dai grandi samovar di rame, dal commercio delle pellicce. Sanno stare a tavola amabilmente, grasse e pallide, qualche volta dottoralmente. Quelle, dalla loro anima autenticamente sognante, autenticamente commossa, germinata dall’Eros e dal Logos cristiano della stirpe infinita, estraggono una carità-sogno o un sogno-verità che sembra illuminare il buio degli anni a venire; queste, le ebree, dal loro millenario intellettualismo estraggono il tenace sussurro, il succo amarulento e letale della corrosione critica, che porterà allo sfacelo un caravanserraglio di bestioni: dall’ondata del millenario messianesimo e dalla sua risacca apocalittica la certezza mai spenta d’una palingenesi umana, che mai verrà. Parlano non come La Fontaine o come Shakespeare le più vivide lingue d’Europa: le cose «più “moderne” d’Europa», le lingue e le cose dei romanzi e dei treni, dei parlamentari e delle torri e delle banche e dei trattati e dei congressi di endocrinologia e di psichiatria, le lingue in cui si dibattono i «problemi sociali», i «problemi del futuro». Le lingue che permettono di improvvisare uno «scambio di vedute» con la lingua di qualunque donna, su qualunque battello del lago. L’accento non sarà sempre quello di Châlons o di Siena, ma insomma è un accento più liberato e più puro d’una bestemmia padana o d’un gesto osceno da mestapopolo rompiscatolese: anche se questi assumono parvenze generosamente populistiche e per contro la parvenza dinamica venga scaraventata fra le gambe dei carabinieri dei Savoja: detti allora «sciacalli monturati». Fra un mal di testa e l’altro.

Così l’essere che poveraccio non sa stare a tavola, i cui pantaloni hanno perduto il «fondo», il futuro smargiasso furioso e cazzioso, lepido arrivista, intimamente e inguaribilmente plebeo, riceve l’imagine di queste «donne gentili» (per quanto un po’ esaltate), che si coagula e si fissa, come la decalcomania d’una santa senese, sul vetro opaco del suo generoso cervello. La sua futura manganellite si accende e si affoca in tenui virgulti. Una foja e un appetito impiastricciati di umanitarismi e di filodemie meramente verbali, buccali. «In profundo» l’idea di estorcere lor consenso agli abbienti, di arraffare a sé le loro posate d’argento, di vendicare sulla loro pelle mellificata, rasata, rosata, la demente protervia regalatagli dall’esperienza della protervia altrui. L’ ossedente imagine del chiasso, della folla in berci, delle minacce, delle corvatte, delle biciclette, l’ossedente sogno del numero e della violenza, l’idea fissa del verbo «stroncare», la reazione borghese, l’intervento antistatutario dello Stato Maggiore, del generale che allora (1912) chiedeva i cannoni necessarî alla difesa e alla guerra, forse. Già il suo sciagurato bazar gli sta ribollendo dentro le meningi, tre o quattro idee, una trentina o quarantina di formule, quarantaquattro milioni di trilioni di minacce a chi non risponde, non può rispondere.

L’ex agitatore ed agitato-sempiterno, quando pervenne a cadrèga, si ricordò delle brave cuoche d’Emilia e delle intellettuali cui aveva sbafato, in Isguizzara, parole difficili, incoraggiamenti facili, e appetitoso rosbiffe. Esse avevano tenuto a balia il suo marxismo verboso evolutosi, codesto, a «concezione romana della vita». E presidenzialmente incadregàtosi, dilatò le nari in una furia machiavellizzata: aspirò a lungo, fremendo, quel tramontano delle paravolanti minacce, rimembranze passionate. Il discepolo di messer Niccolò buggeratissimo si esibì, chiericastro, alla messa furba: ma il codice e il pentàcolo da asservirsi le femine li aveva già nell’anguinaia. Profittò, amatore ottimo, d’una sperienza mediata e di mandràgola non sua, e d’una perenne e sua. Da reggere lo comune incarco eran pochi gli anni, in primavera di bellezza, nulla la disciplina durata e però nullo il cervello: e dimolto invece il prurito: verso il vaso muliebre lo portava fatalità ormonica di giande e pituita, per quanto dolorosa d’istinti. Lui lavorò con donna e con donne. Il Costruttore principiò costruire.

Le femine, per converso, trovarono ch’egli era il mastio de’ mastî. Grate sempre a chi di loro si occupa o fa le viste occuparsi, elle perdono addirittura le staffe se quello le isguarda e le vagheggia ha tra le gambe un cavallo, o sotto il deretano del cavallo un sediòlo donde gli venga il bronzo alla faccia, quel bronzo che è l’unico vigore politico del Poffarbacco. La donna ama, sopra tutto, l’uomo a cavallo, dacché costassù ci sta chi comanda gli omini e li antecede per magnificenza del torace, anche se li trae verso la ruina e la rotta e il due di coppe al galoppo: la donna ama e sogna il militare a cavallo, il colonnello a cavallo, il tenente e il cavallerizzo a cavallo: gli sproni e’ fanno un suggerimento crudele di quella inesorabile pressura che il mastio su di lei esercita, indagandone il mistero e isforzandone a voluttà la dilicata renitenza: il colbacco gli è un super-segno villoso e inusitato dell’ardire e del grave compito bellico, da far invidia a tutte l’altre che si contentano aver ganzerino d’un fante: gli alamari e le multiple ulivine che li fermano allo sparato paiono enigmate di vasi e di giande; drupe e bacche fruttificate dal mistero organante, faventi amìgdale sopra la oblazione e la cura precipua. Lancia, o spada, poi, neanche parlarne, le propongono il più bel verbo. Ch’è il verbo infilzare. E quel caracollare e saliscender le reni, il busto, il collo, nell’alternazione cinematica comportata dal trotto sono il simbolo ossia la imago d’un altro cavallare e progredire, in un’altra disideratissima alternazione.

La donna ama e reverisce chi comanda, chi trae dietro di sé i rimanenti. Sogna la moglie, sogna che il su’ marito all’entrar ne’ banchi riscota il saluto de’ bidelli, del maggior numero possibile di bidelli. Voi mi direte che ciò comporta dinaio. Dirò che sì. Il geometra lo chiama ingegnere, lo studente trombato lo chiama avvocato, il cavadenti lo chiama dottore, l’empirico dell’erbe e de’ cerotti lo chiama specialista e archiatra, il sonatore di mandolino lo chiama professore, e il sonatore in generale lo chiama un «jeune homme de beaucoup de mérite», un uomo di grande ingegno, com’è giusto. Da che lo ingegno è la parte studiata della chiave, e se quello sia un uomo di gran chiave lei lo può sapere sì o no, ch’io daddovero non so.

Le femine hanno preferente affetto a chi appare loro espedito nelle cose sua: diliberato a parole e risoluto agli atti: anche se la diliberazione l’è quella di chi andrà capofitto, e la risolutezza la si sarà resoluta alla peggio. Perché le due cose le fanno immagine d’un sesso mastio vigorosamente adempiente agli offici sua, che sono l’attacco, la rottura e la penetrazione. Perché la loro anima l’ha d’uopo appoggiarsi a chi la sustenga, e non gli pare essere sustentate se non dal vocione e dall’imperio e dalla assicurata grinta dell’uomo. Le femine hanno in uggia i filòsafi, odiano ogni maniera disquisitrice degli ispelacchiati intelletti e ogni forma di critica, la ragione per loro è sofisma, e il riserbo civile lo chiamano impotenza. Guai al Tentenna! Davanti l’Areopago delle donne, il Tentenna è perduto. Il principio solo è un maschio: e il maschio ha da essere principio risoluto. Chi tentenna o balbetta incorre nella colpa: dacché porge loro la imagine d’un altro tentennamento e d’un’altra balbuzie, ch’elle fastidiano a tutte le ore e più che ogni cosa nelle terre.

Simili alle femine, poi, sono dimolti omini assetati di dottrine, vogliosi non altro che prosternarsi a un enunciatore di dottrine, libidinosi ripeterne la formula dalla autorità d’un caprone grosso, che resulti più autorevole somaro di loro. Ma di ciò, meglio, avanti.

Puoi comandare, insomma, la barca di Boffalora sul Naviglio: purché te tu comandi. «Sevôm tra Castelètt e Gagiàn,» narra i’ Senofonte, «quàn ch’el Capitàni el vôsa: tira a la riva! che ven sü la büfera!…» Oh, l’avesse gridato daddovero, tira a la riva!, («Fortiter occupa portum», Orazio) codesto pilota che a inabissar la nave ne richiedeva il silenzio. Le donne le non ridono de i’ capitano: né di quello del barchett de Boffalora, ch’è una persona seria e da bene dentro la su’ vajana di cavalier Carlo Códega, e nemmanco di quest’altro babbione e istrione.

Le femine scelgono: dacché la seduzione dei sessi è reciproca: e iscegliendo concorrono a una selezione, che porta avanti la qualità, la cifra di merito della stirpe, «stirpe fertile in opre e acerrima in armi». (4) Il loro istinto soccorre al travaglio della specie. Ma questa loro scelta o prelazione è una scelta soavemente passiva: consiste piuttosto nell’accettare le posizioni raggiunte dal maschio preferito d’istinto, nel ripetere dal maschio preferito lo schema della imagine e il verbo e il suono delle parole, moltissimo il suono, che non nell’indicargli i nuovi compiti, il rinnovato dovere. La donna, in genere, non crea il futuro: porta a perfezione il passato con un certo ritardo di fase più o meno apprezzabile, rispetto al reperto delle avanguardie maschili (Virgilio, Eneide, donne abbandonate nell’isola). La donna comune è compagna di casa ed utile a percorrere la strada consueta, non a inoltrarci nel buio. Savia conservatrice e accumulatrice, essa «ci è di conforto e di sprone» a servire la causa santa del pane e della minestra, la più angosciosa delle cause universe: anche a servire un’altezza del foro spirituale, che sia però un’altezza già acquisita, già riconosciuta per eminente dalla opinione del branco. Essa tempera in noi e talora divide con noi «la fatica quotidiana», la pena e il coraggio e la dolorosa fatica d’ogni giornata del nostro vivere. Puerpera o madre, essa sa che deve formare e nutrire la creatura e la famiglia anche nell’invernata, e non può indulgere a esplorazioni d’avanguardia che comportino il rischio di un ripiegamento catastrofico. «Lavora, progredisci,» vi dice. Ma intende progredisci sul solido, sul «già noto». [Importante, A.]. Le scavallate verso la tenebra de’ doveri nuovi, le incursioni nel mondo delle conoscenze e de’ modi nuovi, sono disciplina nuova de’ maschî. Il maschio sembra essere «più in là» nel cammino della specie (almeno per taluni vertebrati superiori): e questa è opinione corrente de’ fisici, de’ biologi: sembra aver raggiunto una caratterizzazione più forbita, dunque la «forma», forma temporanea s’intende, della specie; forma che nella evoluzione sempre gli sfugge più innanzi, come a Rinaldo l’Angelica dentro la oscurità delle selve.

Se il maschio è «forma» o detiene la momentanea «forma», la femina sembra essere la elaborata ed elaborante «materia» della specie (Bergson, L’évolution créatrice). Si interpreti al giusto. In entrambi è un soppalco non differenziato, un Io bruto e necessitato: questo soppalco e questo Io nel maschio ha per àpice un comandamento formale e una spinta (impulso) autonoma verso la ricerca, nella femina ha per suggello un ossequio alla forma reperita e una capacità d’archiviarne e di riproporne i dettati. Il maschio è l’elemento euristico (il ritrovatore) della specie, la femina l’elemento cicatrizzante dopo la «ferita da esplorazione» che la specie ha sopportato ne’ pruneti e nel serpaio del più là, nel buio insicuro del domani. Così lui ha fatto: ha agito sulla femina valendosi appunto di questo meccanismo: mettendo a tacere gli «altri maschî» (cioè il gruppo etico dei maschî pensanti) e imponendo alla recettività della femina-materia organizzante la imagine sua propia. La scarsezza di facoltà critica, la minorità della femina (minorità necessitata dal meccanismo di natura) ha accolto il dogma falso, la imagine jattante della «forma falsa».

La jattanza machiavellizzata del furbo, quando lui si sentì a cavallo, si rivolse dunque alle femine lasciandosi portare dal meccanismo descritto come sùghero dalla maretta. Proporre loro la sua imàgine sola mettendo al silenzio e alla vergogna gli «altri maschî» col denigrarli nella imaginativa di quelle: e gli «altri maschî» erano il gruppo etico o, se volete, il meno disètico. Alla «recettività» singulare della femina egli portò l’unica oblazione di sé medesimo. Ed ebbe faccia da proferire, notate, da proferire verbalmente, con l’apparato laringo-buccale la sporca e bugiarda equazione: io sono la patria; e l’altra: io sono il pòppolo. Lui solo, a sentirlo, impersonava la patria, lui solo impersonava la causa de i’ su’ poppppolo con quattro p. Egli si autopromosse e si antepropose ad epònimo della patria e del popolo che soli il sacrifizio de’ sacrificati aveva e il travaglio de’ travagliati arebbe, per quanto fortunosamente, portata a salvezza. E questo per esser venuto a luce, secondo il poeta D’Annunzio, con testa di ciuco e codonzolo di verro. Per aver «sofferto» cioè imbroccato al malcantone la nottìvaga da du’ lire che gli versò nel cervello i destini imperiali della patria.

Lui si antepropose alle recettività di alcune femine. Andò verso di loro. Parlò loro, mascelluto, stivaluto, la sua bugiarda sinéresi: io Patria. E suggerì al loro inconscio (ma non tanto inconscio) quell’altra sinéresi che poi le ossedé per un ventennio. Io non sono un cornuto, anzi il contrario. Elle videro in lui il portatore, il gestore del sublime acquisito (la patria, il popolo): acquisito alla loro intelligenza o meglio al loro ovario di ochette, di spiritate ochette. Elle videro in lui il padrone, il verro che si sarebbe vautré sul loro inguine fremente di attesa. Gli altri maschî, portatori o gestori d’altri e più aggrovigliati perché meno bambineschi sistemi di idee, erano alla sua misura poltroni impotenti, poveri esseri regrediti a un grasso cianòtico, a polisarcia e ginecomastia, a eunucoidismo femminilizzante, in quella disfunzione del lobo anteriore della ipofisi che vien dimandata di Fröhlich, sindrome di Babinski-Fröhlich.

La carenza di facoltà critiche, l’assoluta incapacità di documentarsi criticamente, che è propria di certe donne oltreché di moltissimi uomini, lasciò aperto il ricettacolo delle loro psico-fiche riceventi. La dedizione minorile al super-maschio, al padre, al padrone, accolse e introitò il dogma. Il dogma fallico ossia il fallo dogmatico pervenne a depositare nell’utero di talune poverine lo scodinzolante zoo, il germe della certezza canonica. «Questo e non altro.» «Questo è verità santa e tutto il rimanente e bugia.» «La patria lo esige. Morte al Tentenna!» Grate al padre, esso padre o padrone divenne il totem idolatrato dalla loro idolatria che non ammette disquisizione critica. Dal loro gorgozzule di isteroidi patriottarde uscivano singhiozzi venerei all’indirizzo del Priapo Ottimo Massimo del Super Balano che aveva «tonificato la vita nazionale», cioè a dire insufflato suoi carmi ciurmanti in un certo numero di ovarî di esse loro, poverine.

La facoltà cicatrizzante a cui ho fatto cenno cicatrizzò l’imagine del burbanzoso Bombetta. La «forma» raggiunta dalla specie era «quello là» che ululava (qui gueulait) dal podio. Elle le non volevano sentire di incidenti a battaglia, di incerti del mestiere, di malauguranti disgrazie. Il male è sanato dall’arsenobenzolo, dal neosalvarsan; il male di Nietzsche e di Federico il Grande (?) e di Donizetti e di Baudelaire, e di Maupassant e di Eugenio von Savoy. Sicché talune così chiudevano il ragionamento loro: «Il male incontrastabile è il genio: e il genio è incontrastabile.»

Nei confronti di codeste necessarie ammiratrici, di codesta gratuita claque feminina egli agì dunque allontanando, eliminando «i concorrenti» cioè «gli altri maschî» col denigrarli o col toglierli dal novero dei vivi, con seppellirli nelle sue carceri, con render loro impossibile ogni uffìzioso travaglio come l’insegnamento pubblico, la docenza universitaria: soprattutto ogni pensata e libera parola. Giunse a far credere a codeste osannanti di essere lui il solo genitale-eretto disponibile sulla piazza, il solo cervello pensante capace di ululare dal balcone. Egli era il portatore del sublime, la «forma» raggiunta dal sublime nella evoluzione storica del paese e delle sue genti (itala gente da le molte vite secondo messer Giosuè); egli l’araldo dalla tromba d’argento; l’agente commissionario, con «esclusiva», della patria e del poppolo. Egli era d’altronde l’organo generatore dominante, il fallo paterno padronale e precipuo: e al nome stesso della Italia o Vitùlia o Vitàlia, splendido nome della vita, fu accodata la giunta d’un attributo, d’un elogio patronimico sgrondato dal nome suo: Italia mussoliniana.

Ce n’era più che non bisognava, da far istarnazzare codeste poche ochette. Su nella piccionaia, ne i’ colombaio, una claque delle Sofonisbe fanatizzate. Una claque gratuita. Giù, nel cortile, un paperaio di Sofronie: principiarono ad ancheggiargli e a deretanargli da torno, tutt’ingiro tutt’ingiro pè pè pè pè pè pè, qua qua qua qua co’ i lor becchi spalancati e le lingue cantanti dal gozzo, di che fuoresce talora il canto ginecofesso della storditezza e della scemenza.

D’altra parte non è a credere quegli entusiasmi luteici, o luteovaginali, si chetassero soltanto a parole. Molte, delle classi più agiate del Settentrione, o con villa più o meno appenninica, o a’ Parioli o a Posilleco o a Capri, avendo di casa loro vittuaglia e vestito quanto bisogna, e più anche, si fecero per l’occasione oche pure o isteriche pure. La genesi del morbo secondo il meccanismo descritto (cicatrizzazione del creduto sublime + entusiasmo fallico) appare in loro isolata a caso classico o condannata a specie clinica, a tipologia esemplare. Un disinteresse economico quasi assoluto contraddistingue i loro nitriti di mammillone malgré-elles, ove non si voglia portare in conto l’interesse «statico» del saper rispettate dalla possidente le posizioni economiche di sua casata.

Che questo o altro modo dell’interesse, comunque, sussista almeno in alcune, lo dimostra la facilità ebbra e quasi la voluttà con cui elle offerirono il loro sangue alla bella guerra, «orgogliose» di barattare il cadavere del figlio (del marito, del fratello) con un cenno di assenso del tumescente Giove Ottimo Massimo che le chiamava madri spartane, madri romane, e simili baggianate. Guiderdone alla pena antica de’ lor visceri, schermo alla tenebra repentina che aveva avviluppato il vivente sorriso d’un figlio era un «presente!» ugolato da un federalastro in orbace, era un diploma di morte con ghirigori, un dischetto di metallo appuntato loro sul seno, debitamente nero, dal generale Fessetti.

Ma su molt’altre, invece, mogli o figlie di futuri profittatori, di cogerenti dell’Idea, sull’ovario di molt’altre il Priapo-Imagine agì con distribuzione reale di doni e di favori tangibili, e tatti. A traverso gli «speciali meriti politici» o i «delicati incarchi» o la già acquisita «influenza» dei loro protetti, dalla cornucopia inesausta del Verbo sterile sgrondolò fuori per esse dono di susine e di rotolanti noci e corbezzoli e pomi con giuggiole, mellìache, pere e peronzoli e castagne delibatissime e fichi: materassi nuovi, automobili, quartieri e quartierini, pellicce e renards e renardini, ori, villeggiature, crociere gratuite e bidets di lapislazzuli: quando molte vie in molte città e cittadine della Patria recavano l’onomastico Martiri di Belfiore, Don Enrico Tazzoli, Pier Fortunato Calvi. La mania del possesso e dell’introito fu stimolata e satisfatta dalla Grande Imago da cui fuorusciva carme ciurmante che le irretì.

E ad altre innumeri fu provveduto, poi, alla folla delle mezzecalze. Venute da gentucola che mal sapeva come risolvere il quotidiano problema degli spaghetti, o del risotto, esse si sentirono a un tratto, non soltanto tacitate di spaghetti o di risotto, ma anche addobbate di vesticciuole, pelliccette, calzette e perfino lingeria di lusso. Riuscirono ad avere corredini di ricambio di biancheria intima, talune raggiunsero la quattro cilindri che le rapì via lungo l’Aurelia e la Cassia, la Flaminia o la Salaria o la Appia: si scarrozzarono ai laghi e ai lidi o alle dolòmie, il vento di corsa gli circolò tra le belle gambe che erano ammuffite i lunghi anni in una insantocchiata stamberga. E tutto il ben di Dio per aver accettato sostegno maritale d’uno spioncello del Guf o d’un avvocatonzolo più o meno corporativo o d’uno schedarista meccanizzato delle ricerche industriali (chi cerca trova) divenuto luminare dell’autarchia (campa cavallo!) d’un libero docente di diritto corporativo cresciuto in sofo e in Solone e in Numa capelluto dentro la Sede del Diritto, detta anche Culla della Civiltà. Non diciamo d’un birro, d’un federaloso stivaluto, coltelluto sul ventre e ricattatore della provincia radunata coi «presente!» urlati nei raduni: neri, tetri, funerari raduni di certamente prestanti giovani, ma travestiti per l’occasione in nerobandati beccamorti.

Il grido ku-ce ku-ce, ch’era il precipuo tra i doveri ufficiali del maritiello arzillo (arzillo dati i raggiunti o raggiungibili spaghetti), il ku-ce ku-ce maritale propietanza divenne grido esasperato, fuor della strozza della gentile coniugata che di quel grido aveva subito inteso venire in tavola fumo e arrosto e fiato bastevole a emettere il grido medesimo. Dall’entusiasmo metà vero metà simulato di codesta misera e, in certo senso, rispettabile furbiciattoleria di borghesuzzi a ventre vuoto germinò l’entusiasmo iperbolico scenicamente ululato di borghesi a ventre pieno: entusiasmo per il ku-ce, entusiasmo per l’arrosto. I radiosi destini del pollo in aureola di parole senza luce: il pollo aureolato funzionò da croce di Costantino al Ponte Molle: fu il segno di un avvenire indefettibile, garantito dal ku-ce. «In hoc signo vinces.» La nulla educazione, l’appetito sempiterno e zefiro e zefirucci gradevolmente serpolanti tra intimine e delicatissime cosce nei ferragosti assetati operarono il miracolo del ridare un fiato effimero al morto, un barlume di gastrofagica speranza a secolare abulia. E tutto si conchiuse in una fede e la fede in una formula: «Che sarebbe mai la nostra povera Italia senza quell’omo! Vie’ a mmagnà Zefirì, ch’è pronto. Viette a strozzà, Zefirì, si no se fredda.»

No, non voglio irridere a quelle sciagurate moltitudini di denutriti e di malarici aspiranti statali (AAAAA statale distintissimo bella assolata affittasi, fine pensione. Via del Gelsomino 119-B piano ultimo. Escluse donne) che dalla superpopolata affocata terra di fuori venivano chiedere un pane da deglutire e un affitto da pagare con o senza fine pensione all’Urbe. Urbs Caput Mundi o anche più su alla metropoli lombarda detta anche Milano. Nemmeno vo’ irridere a quegli altri poveri cristacci fumatori di mezza sigheretta alla volta che non potendo sublimarsi statali si contentarono di appollaiarsi parastatali a fare paglia, negli uffici e ne’ ministeri infiniti. Non vo’ irridere alle lor donne, a cui devo per dovere civile tutto il mio rispetto di essere umano, con la simpatia di chi ha del pari sofferto nella sua carne, e in quella fraterna: e incontrato del pari disperati giorni e anni e umiliate lacrime e fame.

Voglio dire che il φαλλός, ben conoscendo che chi ha fame non adora più lui, ma piuttosto il fornaro, si studiò convitare agli uffici inutili e alla misera mensa le multitudini de’ foranei (nel mentre ululava avverso l’inurbamento); dando loro intendere ch’egli aveva in giurisdizione e balìa propia, che dico aveva mancipio d’ognuna mano Cerere e Pale, a no contare Mercurio; sicché il ripartitore del pubblico denaro era lui, e il mietitore degli universi frumenti. Lui Sovrano seminatore e trebbiatore pometino. Il beneficiente solo era lui. Il fondo aureo e le cartafabulanti farfallazze della Bankitalia erano venuti da lui. La idròvora e l’alternatore e la trebbiatrice erano in lui. La mucca milanese la mungeva lui. Quella mucca, che più la mungono, e meglio si sente. Anzi era lui la mucca. Vo’ vu’ direte: il problema dello sfamare il popolo italiano, cioè i quarantaquattro gloriosi milioni che tirano quotidianamente la carretta tra la rena de’ duo lidi e lo spelacchiato monte a Pennino e bestemmiano con incredibile turpiloquio il nome santo della Madre, detta altresì da taluni loro Maronna e seguitano rifigliare tra un cataclisma e ’l seguente; il problema dello sfamare e del chetare al sonno de die in diem codesta maravigliosa popolazione italiana che fatica e ansima un po’ pertutto e s’industria al meglio, codesto problema è angoscia antica e perenne, che si propone a qualunque reggitore della Italia. Ma non il dèspota statolatra lo risolvette, col vietare l’emigrazione, col macchinare la sua bambolesca scipionata.

E torniamo alle nostre care donne. «Donne, e voi che le donne avete in pregio.» Elle videro in lui il portatore del verbo oltreché del nerbo, il portatore del modello formale del branco o specie, il vessillifero della spaghettifera patria co’ ’a pommarola in coppa, il mastio unico, l’empito spermatoforico della stirpe gloriosa divenuto persona.

Ma, obietterete, avendo ognuna a bordo il suo proprio collo de pollo e l’empito singulo del rispettivo Zefirino, più tangibilmente sorbettabile e sorbettato che non la truculenta imago del podio, come potevano disporre di una siffatta speranzella da investirne ancora, dopo la battana del lettuccio coniugale, anche quell’altro provolone del dittatore colassù, sul suo balcone colmo di certezze? O podio? Quello, vu’ dite, gli è un sogno in nelle nuvole, dove danno giravolte i rondoni, mentreché questo che qui gli è un virgulto vero nel giardino d’amore.

Be’, lui, il furbo, lu’ la intendeva bene codesta obiezione e la comparazione che la essa comporta. E a pararla, s’impennacchiò: stivalò, speronò, scavallò con opprimente sederone sul su’ brocco, levò grinta che parea dicesse «cótica a te», burattinò cosce nude di quadrate legioni per via dello ’Mpero: torvo, mascelluto, buggerando e dittante: minacciò inglesi, francesi: e borghesi cui aveva cavato denaro per salire a i’ balcone, ossia per discendere nella sua ignominia infinita. Il fotografo lo fotografò e il cinematografaro lo cinematografò, ritto, impennacchiato, impriapito. Il tumefatto balano balanò, alla facciazza del Papa pien di stizza.

Mi sovviene d’un numero della «Illustrazione Regionale», con un bel provino, in coperta, delle di lui bucche, e protuberazioni labiali e d’ogni sua smorfia baggiana; scelto e pubblicato con felicità rara da i’ direttore cui una felice ispirazione fotografica avea segnalato infino all’ultimo briciolo il senso del ridicolo: quattordici o venti prese del babbeo finto epilettico mm. 4 x 4, da strofinarsele sull’inguine, in delirio, tutti gli umoristi e i vignettisti d’Italia. (Tuberone ha sempre ragione!) Tiremm innanz.

Le care donne colsero così il salubre respiro del marito o del confidente, con il pensiero al kuce. Nel gioco pareva loro che fosse il kuce a governarle. Il kuce, il kuce in pelle e in siringa di Zefirino. Quel forte despota era il kuce. Lo Zefirino magrolino e’ prestava la materialità dell’amore, ma l’empito vittorioso e’ protuberava da Colui «che aveva insegnato agli Italiani ad essere uomini», il kuce! detentore de i’ barile unico e centrale dello sperma. Come gli orologi elettrici in ogni canto di strade sono mandati e sincronizzati da una centrale modulatrice (secolei per non veduti fili coavvinti), così esso il kuce e soltanto esso il kuce, per tutti i talami e i divani letto e i lettucci e le piazzemezzo e le sponde e le prata dette pratora e i camporelli detti campora d’Italia, era lui vitalizzare messer Mastro Pùngolo alle sue sfruconanti bisogne, alle più efficaci bisogne. E talvolta, bastava il sogno, la imago. Le più pazze, le più prese dalla imago, non bisognavano marito, né ganzo, né drudo. Checché. Gli bastava la Idea, la Idea sola della Patria, e del kuce. Gli bastava imaginare il kuce nell’atto di salvar la Patria per sentirsi salvate e pregne anche loro in compagnia della Patria. Una di codeste pazze riuscì a fare un figlio: col ritratto del kuce. Ed ebbe il pupo, al nascere, le quadrate mascelle del Mascellone, tanto che lo ricovrarono al Cottolengo. Dove il mostriciattolo pisciò, cioccolattò, crebbe e proferì apoftegmi: in tutto simili a quelli del Padre.

A molte vedove o vedovate o comunque disertate dal Conforto il ritratto del kuce, dicevano, «mi riempie la vita» (se non la pancia). «Quello è un Uomo!» dicevano. «Che bel maschione!» sclamò un giorno, commossa, la padrona di casa d’un vicino. L’aveva avvistato sul tavolo una cartolina con l’Ex-Bomba in pullover (un pullover a scacchi) e in knicker-bockers, da parere un ciclista disceso dopo il traguardo. Non vi dico la pulloveresca e knickerbockeresca eleganza del maschione.

Per lui kuce, l’onnipresente effigie era stromento alla conquista del primato. Perocché la donna, quando isterica e oca, subisce come non altra cosa il Ritratto: piange sul Ritratto, si bea del Ritratto, gavazza nel Ritratto: figliata dal Ritratto concepisce e rifiglia dopo essersi coniugata col Ritratto.

Lui lo sapeva. E te tu non potevi, a quegli anni, appiccar a un chiodo di tu’ casa né dello studiolo, e nemmeno del rustico, il Dante o i du’ Giuseppi e i’ Ppapa o la regina Margherita: te tu dovevi issarvi quella grinta co’ i’ pernacchio e i cordoni sua, e tutte le olivine e gli alamari e le bubbole che sono la significazione dell’Imperio.

Lui fece tutto un involto di Patria di birri e di femine, machiavellò e ragghiò potentemente davanti a le femine in entusiasmo, da poterle contentare e ciurmare (charminer, charmer): di bucche, di smorfie, di paravole, di cantafole e di moine. Occhieggiò, labiò con tintinnìo di speroni ai calcagni. Speronò cavallo: e cocò dimenò: da tenerle buone e da redurle «entusiaste», cioè onninamente fascinate di lui. Le sono da tener buone, le femine: sia in conto lor proprio, sia per il gran novero e suffragio loro proprio, sia in ausilio moltiplicato, da tener cheti i lor baggiani di vuomini.

«La mia signora… l’è infolarmada per il kuce.. Lü le cognoss, no?… Madona santa! l’è domà lée e kùce!… L’idea della Patria, per lei,… per lée l’è tütt… Lée, basta che ghe tôchen no la soa Italia…»: un’alzata di spalle: «non le do torto, del resto… La patria, se sa, dopo tütt…» Così la domenica mattina l’indüstriàa, in camicia serica, dal barbiere di lusso.

Ciò che la legislazione umanitaristica dei «paesi più progrediti» aveva da tempo almanaccato, proposto, sperimentato in fatto e impastocchiato in ragioni, ciò che il socialismo chiedeva e richiedeva da anni, che la medicina suggeriva da secoli, lui l’Estrovertito se lo appropriò in tre mesi. Con quella pronta mimesi ed espedita procedura del furbo che sembra ai gonzi una imitazione del cuore: ed è una imitazione del calcolo. Sovvenire a la donna povera, massime a la lavoratrice nel tempo della gravidanza inoltrata, alimentarla durante l’allattamento: che segna, non meno della gestazione e del puerperio, un lasso di depauperanti fatiche per l’organismo feminino. «Matri longa decem tulerunt fastidia menses.» O forse venti, e non diece. Alimentare e portare all’asciutto il bambino!

Perciò Maternità e Infanzia.

Premî nuziali d’un qualche migliaretto di lirucce: ad alcuni, si noti, non a tutti (parlo i bisognosi ed i poveri): a quelli di che avea motivo paventare o sperare, a chi bercia ne’ raduni «kuce kuce» «scandendo i’ nnome di Cavolini in un delirio d’amore» a quelli sì: e a quegli altri canavesani o valdostani che no, perché non hanno imparato a delirare e scandire, come la comanda la Patria del delirio. E poi, a’ monti manco v’ha luogo da radunarsi a berciare: e i berci, se pur fussero, se li porta come festuca di letamaio il vento del monte. Poi, sia i premî nuziali che i bilanci dell’ONMI e’ non eran premî né bilanci fioriti fuora di scarsella a la benemerita prosapia: né da capitale né per lavoro che fusse suo o di sua mano, dico del tiranno vaniloquente. Ché anzi la casata sgranocchiava per sé, da le misere pannocchie de la Italia, quel meno peggio le venisse fatto ogni giorno: e puppava di tetta destra più che Gabriel in allori non puppasse. Nissuno lavorava là entro, se non a buttar paravole e risa da sberleffo a’ gonzi. I premî e le largizioni dell’Opera erano cavati dalle dure tasse che il popolo italiano pagava. Venivano spietatamente estorte come nemmeno Spagna-spugna, nemmeno il rapinatore d’Ajaccio ne estorsero, quel nanónzolo. Non dico d’Austria, che ministrava gretto ma onesto, (tecnicamente): non dico i Borboni collatori cauti e a modo loro paterni o almeno patriarcheggianti, in tra la poveraglia de’ monti.

Questi premî e queste largizioni compromissive eran presentati alle aggiudicatarie madri come dono del kuce, emanati da la bontà propia e da la propia scarsella del kuce (che lui come lui, viceversa, del suo nonavere non avea mollato un centavo). E ogni volta in quel premeditato intento: di instillare nell’animo e nei visceri della donna: che se lei l’avea trovato quello eccetera eccetera, se tra tutt’e due insieme gli veniva fatto far cigolare il letto eccetera eccetera, tutto codesto sfruconare, e cigolare, e anfanare e sudare dipendeva tutto dal kuce: dal Gran Khan! Ed era lui il motore primo, lui la vis prima ed autoctona, l’empito glorioso che mandava tutta la macchina.

Te tu vedi: la imago del dittatore (Cacchio) la si univa, la si saldava per tal modo, ne la memoria fisica e ne le carni delle Sofronie, al ricordo viscerale del Tauro zefìreo. Il kuce, la patria, lo impero etiopico, il carcadè, le verghe littorie, i cannoni protesi della Littorio erano per sempre incorporati, consustanziati e saldati nella protensione dello Zefirino. Così come i duo fili de’ duo metalli-coppia si saldano nella coppia termoelettrica.

Te tu vedi, ora, i’ ggioco? Se fu ben giocato? Incorporare la propia immagine nella vivente sollecitudine de i’ ssu’ marito, de le femine, talché tutte vi s’avvinghiassero assicurate al littorio per l’eternità. A l’imagine dogale: la qual immagine, beninteso, per essere incapsulata ovvero fissata ovvero coagulata nell’eterno feminino dogale, sopravvive alla defunzione zefìrea di quelli.

Non è dunque stupore le femine l’abbino così avuto nel fegato, in del fìdik, come dicono a Milano. Lui era il genio tutelare della Italia, – (qual viceversa ruinò, e la redusse a ceneri ed inusitato schifìo) – lui ne aveva insegnato essere vuomini; ché prima di lui erano donne, e l’Adamello e ’l Mandrone e il Lèmerle e il Cengio e il Fàiti ci camminarono sopra e per entro sotto al cielo in saette, con animo di donna: lui cavalcatore di cavalli e di femine in gloria: lui sì sì, lui sederone a cavallo, lui bellone, lui mascellone, lui fezzone, lui buccone, stivalone, provolone, maschio maschione cervellone generalone di greca tripla. Questo sognavano, questo talora ti dicevano le fraudate ammiratrici.

E la multitudine delle dame gli tarantellò e gli trillò d’attorno, pazze o, altre, callidamente ridenti: kù-cè, kù-cè, kù-cè, kù-cè: colà giù ne le melme rasciutte e nel zanzarume a la trebbiatura pometina, e in sulle aree ed aje: alle bagnature di Riccione o di Ostia o d’altro qualunque lido della Italia dov’egli apparisse ignudo del torso co’ tettarelli sua, che niuno infante appetiva: o negli ospitali e nelle cucine pubbliche dove si ministrano a’ poveri le minestre magre della carità (non sua) o in nelle scuole dove si tirano cantatine di gola all’unisono agli innocenti: o in nella sala del Mappamondo, doveché aveva allogato a far tutto il mappamondo suo dittatorio. A la trebbiatrice, a inghirlandare il Trebbiatore e a tessergli d’attorno lor festevoli carole, eran le donne de’ cinquecento fidi travestite da ciociarine, o pometine villanelle, con cappelli di paglia ondulanti ne l’efimero spiro del mare: ch’erano di quei larghi e dolcemente floreali e messidorati dei vaudevilles d’antanno (Le chapeau de paille de Florence): e un nastro o banda velluto-Como tutt’attorno il cocuzzolo. E i tepidi, i divini seni ripresi e, ahimè, ristretti da lo scialle che ne vietava il trabocco: e gli occhî dolcemente ridenti, per quanto brave mogliere de’ fidati. Oh! i bei cappelli di paglia come quel di Minuzzolo addormito che se lo divorò l’asinello! Oh! nastri e carole e corsetti velluto-fiori, e dolci e arditi stornelli e melanconici canti, un poco nel naso per l’appunto: nenie e querimonie del faticato ricolto, nel fulgore sommo dell’anno! E lievi gonne che uno spiro solleva, come un desiderio maritimo, venuto dalle astinenze, dalle diuturne penitenze navali, approdato quasi un contrabbandiere a le febbri, al convegno sotto la Cisterna, per la Pratica di Mare. Lievi gonne, tra il polverone delle trebbie, di mussola stampata. Sopra, gambe da non si poter dire, da non si poterle guatare: lasciamo, lasciamo. Compermesso. Compermèss che me ven fastidi.

E lui lassù, tumescente, a torso nudo. Mentre sanno tutti, per tutta Italia, che cosa è la gonna, la povera gonna, e quali sono i piedi e il ventre e il fazzoletto annodato! delle mature mietitrici e delle falciatrici, sull’Alpe o sul bruciato monte a Pennino; qual è la incurva e dolce e stupenda povertà delle mondatrici e ripiantatrici in risaia sotto al canale Cavour o al canale Villoresi o a’ Navigli. Lo sa il Parini e lo sa il Verga e lo sa il Fattori e lo sa De Madrigal.

E lui ridente, là, con un cappello d’ortolano sul provolone, là, là, in coppa a la macchina, torsolo ignudo, poppe in fuori, a esibire quel che poteva esibire, dalla cintola in su: du’ pelucchi (che altri n’ha un bosco) torno torno i capèzzoli.

Ma erano i capezzuòli del kuce e bisognava gridare!

Fornite le pometine caròle, a Madonn’agosto l’Alpe (da vedere co’ i’ canocchiale) e il nudo monte a Pennino: poi le vendemmie, tempore vendemmiae. Poi… poi cadeva l’ora e la stagione delle scole, e della riforma scolastica: del libromoschetto e delle Giovini Taliane. I battaglioni di gonnelle nere, calze e giubbetti bianchi, neri fezzuoli e scarpaccini a tacco piatto bebé, con occhioni roteanti e d’avorio denti in un isciocchissimo aere di Vispoteresìa, da rimanerne incitrullito il Creato, «sfilavano ai canti della Rivoluzione»: (secondo suonava allora il dittaggio). Un corale di vocette nel naso puerilizzate anche più dalla scioccaggine di quegli enunciati. Una coralità ecolalica andava andava con vispoteresoidi panattoni mal tegumentati dalla vispa gonnella, in pieghe e nera, sculettando e gambocciando «a passo marziale» per via dello ’Mpero (del Cacchio), sculettando e naticando a tutto vapore con tutto il macchinozzo del bacino e de’ cluni, tanto mal conformato per quella sorta di footing: perepepè perepepè le trombette, ona ciapa de kì ona ciapa de là le nanónzole, voici mon cul voilà mon cul ad ogni passo dietro alle fanfare del rincoglionito Quirino. Polpute gambocce annaspavano con marinettiano simultanismo lungo l’asfalto guerriero, polpone e cicce che bisognava chiamarle «maschie» e mavortine anche loro. Dacché tutto era, allora, maschio e Mavorte: e insino le femine e le balie: e le poppe della tu’ balia, e l’ovario e le trombe di Falloppio e la vagina e la vulva. La virile vulva della donna italiana.

Andavano, andavano verso lo scheletro de i’ Coliseo, le festose naneròttole e cantavano gli inni della Revoluçao, cantavano cantavano a coro: infantili, ecolaliche, emanando scemenzuole non più ascoltate nel mondo. L’era una rivoluzione di bravazzi e l’erano delle povere grulle di figliole retrogradate a bambine di du’ anni, almeno quanto a i’ canto e a i’ cervello. Il pietoso mimo riempiva tutte le contrade d’Italia, la via nova, la via dello Impero trombatissimo.

I maschî, insonnoliti, rattratto un labro, isguardavano con un volto pien di tedio a quelle «inquadrate» creature. Si studiavano discoprire, da sotto l’abito della modesta uniforme quanto ancora potesse esprimere e caratterizzare la singularità d’ogni feminina persona: di sopra i tacchi sciatti bebé tutta quella ciccia ovarica naneggiava incontro alle ruinose altitudini dell’anfiteatro, che in capo la via vana, sotto i nuvoli, pareva lo scheltro de i’ mondo delle frottole.

    Vanitas vanitatum, et omnia vanitas.
In volgus, cioè comunemente, te tu sentivi, poarine, per tutta Italia le dimandavano con affettuosa familiarità «le piscione». Ma quello era il nome loro ne i fori della Italia, conferito loro da i’ vulgo, che ha lingua aggiustata agli istinti fondi, e non alle verbose cantafàvole.

Ne dice, quel nome, che la donna, in Italia, non è da farne battaglioni di viragini o amazone senza cavallo: ma da lasciarla fiore singulo e splendido, desiderato per sé: ove l’amore vostro si plachi, ne’ baci e nelle braccia della disiderata persona: mentre e’ non può saziarsi nel catastro generico d’una vulveria collettiva, che la si succinga, al dì ventuno o al dì ventotto, dei panni officiali ed obbligati per la ginnastica streppona. Ne dice che cervello di donna, e fortunatamente, dice De Madrigal, non sarà cervello di Plato: ma pur sempre cervello: da non lo retrogradare alla ecolalia della bimba treenne quando la ricanta la poesiola. Anima di donna la non sarà l’anima di Enea padre: ma un’anima, per quanto fica, pur sempre la è. Quale anima, noi lo discerniamo in quelle donne splendide che hanno medicato al dolore, compatito le angosce, interpretati i pensieri, fatte sue le speranze, condiviso il volere, presagite le delibere, confortati gli atti. Assistita e miserata la miseria, e la battaglia e la morte: dato il sangue, data la creatura alla vita.

Di tra le donne il sesso nostro ha da iscegliere, come le scelgan loro a noi: non a Madrigal di certo lo predilessero, e fecion bene. Non è, il sesso, per una cieca e pluralizzata meccanica: e, a certo punto, è dell’uno penetrar l’una: né può l’uno e acuto, e proteso nella elezione, penetrare le infinite e le quali si vogliano: ché, se fusse, basterebbono pupazze a satisfarvi. Pupe di gomma, tali e quali che ne la novellina di Tom. E ne potremmo commettere alla grande Pirelli, di appropriata o varia misura, con un usciolino o vo’ dir valvuletta da fianco come quella de’ budellini di bicicletta, da si poterle enfiare con la pompa di questa, lorché bisogna. Fuh, fuh, fuh, fuh: e quando l’arriva giusta, te tu le chiudi quel bucolino co’ la càpsula: e poi la carezzi e te tu la basci, e ci piangi sopra, e speri icché tu voi.

E, fornito il bascio, te tu la disenfi e riforbisci e ripieghi e riponi, come una camiscia stirata. No, no, no. Maschio, in quella che toglie e’ vuol sentire un’anima, un io biologico, una renitenza e un assenso particolare, singolare. E poi se codeste le ricantano e le strillano ch’eja ch’eja a le baionette, mane a sera, come le grulle che sono, e le «inneggiano» a lo inturgidito Modellone, oh allora che ci stanno a fare codesti altri? co’ i’ pennacchio in vetta? La scelta è gelosa della scelta, l’amore è geloso dell’amore: e vuole reciprocanza di sensi: se ti dai briga a scegliere e quella che t’hai prediletto l’ha nell’anima il Modello, be’ se lo tenga il su’ Modellone che tu ten vai per l’altra. Ell’è come una serratura dove già ci sia chiave rotta di drento, che te la tua per quanto annaspi, te tu non arrivi infilarcela.

Talché codesti gambocciati battaglioni se ne vadano a i’ loro Culiseo.




* capitoli I-III In: The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)


Note

1. Etica di Aristotele per il, dedicata al, figlio Nicòmaco.

2. Vallona.

3. Rappresentanti diplomatici stabili: per esempio del duca Estense a Roma.

4. D’Annunzio, in uno de’ suoi momenti migliori.




CARLO EMILIO GADDA, è stato uno scrittore, poeta e ingegnere italiano. Nacque a Milano il 14 novembre 1893, presso un famiglia di buona borghesia, originaria dalla provincia di Varese. Si iscrive al Politecnico di Milano, ma interrompe gli studi per partecipare alla Prima guerra mondiale. Dalla vita in trincea nasce il Giornale di guerra e di prigionia, scritto tra il 1915 e il 1919 ma pubblicato parzialmente solo nel 1955. Gadda ritorna a casa nel gennaio 1919 e solo allora apprende dalla madre la tragica notizia della morte del fratello Enrico, tenente pilota, avvenuta in un incidente aereo. Nel 1920 Gadda si laurea in ingegneria elettrotecnica e fino al 1940 esercita, per necessità, la professione, insieme a quella, sempre più convinta, di scrittore. Compie lavori di ingegneria in Sardegna, in Argentina e a Roma. Dal 1926 inizia a collaborare alla rivista letteraria Solaria su cui pubblica diversi racconti nei quali prende in giro i comportamenti della società borghese. Alcuni di questi scritti sono riuniti nel 1931 nel libro La madonna dei filosofi, che segna l'esordio ufficiale di Gadda nella letteratura. Nel 1936 muore la madre. All'indomani della morte della madre, Gadda inizia a scrivere il romanzo a sfondo autobiografico considerato il suo capolavoro: La cognizione del dolore (pubblicato su rivista tra il 1939 e il 1941). Dal 1940 alla fine del 1949 vive a Firenze dove, nonostante gli anni della Seconda guerra mondiale, trascorre un periodo relativamente tranquillo vicino agli amici letterati. Dal 1950 si trasferisce a Roma dove muore il 21 maggio 1973 a Roma. È sepolto nel cimitero acattolico di Roma.



La Madonna dei filosofi, 1931.
Il castello di Udine, 1934.
Le meraviglie d'Italia, 1939.
Gli anni, 1943.
L'Adalgisa, 1943.
L'Adalgisa - Disegni milanesi, 1945.
Il primo libro delle favole, 1952.
Novelle dal Ducato in fiamme, 1953.
I sogni e la folgore, 1955 
Giornale di guerra e di prigionia, 1955 (ed. aum. 1965).
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, 1957.   
I viaggi e la morte, 1958.
Verso la Certosa, 1961.
La cognizione del dolore, 1963    
Accoppiamenti giudiziosi, 1963 (Racconti 1924-58).
I Luigi di Francia, 1964.
Le meraviglie d'Italia - Gli anni, 1964.
Eros e Priapo (da furore e cenere), 1967.
Il guerriero, l'amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo, 1967.
La meccanica, 1970 (1928-29).
Novella seconda, 1971.
Meditazione milanese, 1974.
La verità sospetta. Tre traduzioni, 1977.
Le bizze del capitano in congedo e altri racconti, 1981.
Il tempo e le opere. Saggi, note, divagazioni, 1982.
Un radiodramma per modo di dire e scritti sullo spettacolo, 1982.
Carteggio dell'ing. C.E. Gadda con l'Anonima Casale S.A. (1927-40), 1982.
Racconto italiano di ignoto del novecento, 1983.
Il palazzo degli ori, 1983.
Lettere agli amici milanesi, 1983.
Lettere a una gentile Signora,  1983.
L'ingegner fantasia. Lettere a Ugo Betti 1919-30,  1984.
A un amico fraterno. Lettere a Bonaventura Tecchi, 1984.
Gonnella buffone, 1985.
Azoto e altri scritti di divulgazione scientifica,  1986.
I miti del somaro,  1986.
Lettere alla sorella 1920-24, 1987.
Lettere a Gianfranco Contini a cura del destinatario (1934-67), 1988.
Taccuino di Caporetto, 1991.
Poesie, a cura di M. A. 1993.
Opere, a cura di D. Isella, 1988-93, 5 vols.
Disegni milanesi, 1995.
Romanzi, 1997.
Carissimo Gianfranco. Lettere ritrovate 1943-63,  1998.
Un fulmine sul 220, 2000.


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