Giovanni Raboni | Parti di réquiem
per mia madre Quadratura Se è di questo che parliamo, e se è cosí che continuano a vivere – nei morsi d’ossido alla lamiera, o come muffa la...
per mia madre
Quadratura
che continuano a vivere – nei morsi
d’ossido alla lamiera, o come muffa
lambendo le bottiglie –
hai ragione: si sprecano dei soldi. Ma sul conto dei morti
si tramandano ancora altre notizie:
come se rimanessero vicini
ai loro corpi, incerti, diffidando
di una provvisoria corruzione,
aspettando segnali... E allora vedi
che i conti tornerebbero, piú in là.
Creditori
in due minuti, mentre qualcuno aggiusta
le tende alle finestre e gli amici
sono già per le scale. Sempre c’è
poco tempo quando dobbiamo fare
i conti con i morti. E cosí dico
a mia madre di aver pazienza – a lei
che vicina a morire, ancora
vuol sapere com’era la mia cena...
Troppo poco profondo
di conoscerla: gli occhi
che guardano in dentro, la fronte
rischiarata da un acido. Non c’è
da stare allegri, è tanto se riuscite
a mettervi di fronte (una
un po’ piú in basso) e nel vuoto, bisbigliando
con accenti di colpa, tentare
di discolparti. – A volte non affiora
che un rocchetto di polvere, ritagli
d’una specie di plastica, ossicini... A cosa
serve, vorrei sapere, chi ha tempo
di interrogarli?
se in alto, sulla sabbia,
reclamano pale, secchielli,
si mettono a scavare.
Sezione della scala
o forse altrove, ma forse proprio lí – freccina semovente, baluginosa nel
percorso
un gradino dopo l’altro salivo
per godermela in pace la penombra
a fiatare nell’asciutta penombra che era
lo zero millimetrico del percorso nel buio
risalito vivo in verticale verso corte all’oscuro
cinguettare osceno fonografo della tua agonia.
Anima
in stampatello – anima rimasta a far da palo
ai limiti, diciamo, della competenza territoriale
in presenza della garitta slabbrata, ventosa che
il crepuscolo incenerisce... Bel posto
per incontrarsi, mezzo
piattaforma spaziale mezzo pattumiera
da un lato a picco (una
discesa è ricavata)
al quale sbuca la mulattiera
opera militare dei tedeschi in parte, per anni
smangiata dalle frane
finché vien giú tutto una primavera o l’altra.
Cosí sia. Ma per quella
cosa che dovevo
dirti (tu viva
ancora per poco)
vedi quanto mi tocca – fino
a quando
compatirti da morta?
Che tu m’abbia voluto
tenero, sporco, impotente
affogare in un bicchiere,
che io stesso continui nel tempo a volermi come
dolcemente mutilavi
la mia persona di figlio avvicina
anime prima del giusto divise,
te ferma negli spruzzi, sulla vertigine dei pescecani
alla mia paura.
Come cieco, con ansia...
il temporale e la grandine, una
dopo l’altra chiudevo
sette finestre.
Importava che non sapessi quali.
Solo all’alba, tremando,
con l’orrenda minuzia di chi si sveglia o muore,
capisco che ho strisciato
dentro il solito buio,
via San Gregorio primo piano.
Al di qua dei miei figli,
di poter dare o prendere parola.
Trasloco
a un passo dal cancello, non ricordo
se in strada o nel giardino.
Non era chiuso, né aperto. Poteva
essere molto tardi. Poteva esserci vento.
Bisognava rincorrerli – gridare
slittando sulla ghiaia,
darsi slancio sui pali delle dalie,
abbattersi sui platani, volare
su tre gradini di graniglia,
svelto, piú svelto! prima che qualcuno
(la Gondrand, anche allora?) bestemmiando
per troppo noce,
ansando cieco per le scale,
portasse dentro – prima la testata,
poi le molle, le sponde –
il letto di mia madre.
I cugini
sempre piú alti, piú stinti, la testa
leggerissima, come bucata,
quasi soltanto nasi e bende, ormai.
Sentito dire
un po’ un pesce fuor d’acqua. Era diverso
quasi tutto, anche il modo
di grattugiare il pane. Di nascosto ridevano
dei tuoi parenti, nobili in malora
o venditori di dolciumi. All’alba
ti calmavi, come si calma una che ha pianto fino all’alba.
Anniversario
Chi piscia sangue, chi ha
troppi globuli bianchi nelle vene
e batte i denti nella gran calura
prega: non aver fretta, non volere
che il conto sia saldato.
Accontèntati (non è un’elemosina) di queste viscere appassite, di questi fiori.
La bara
può essere cosí calda, davvero, come è stato
questa notte in un sogno –
dico calda da dentro se per ridere
cerco di sollevarla, se la tolgo
al furgone, alla fossa,
se l’abbraccio, sapendo nel legno che sei viva.
Amen
in una casa vecchia. L’ascensore non c’era. C’era spazio
da vendere per pianerottoli e scale.
Dunque non t’è toccato di passare
di spalla in spalla per angoli e fessure,
d’essere calcolata a spanne, raddrizzata
nel senso degli stipiti. Sparire
era piú lento e facile quando tu sei sparita.
Parecchie volte, dopo, mi è sembrata
una bella fortuna.
Eppure, se ci pensi, in poche cose
c’è meno dignità che nella morte,
meno bellezza. Scendi a pianterreno
come ti pare, porta o tubo, infílati
dove capita, scatola di scarpe
o cassa d’imballaggio, orizzontale
o verticale, sola o in compagnia,
liberaci dall’estetica e cosí sia.
(1957-1974)
Da: Cadenza d'inganno (Arnoldo Mondadori Editore: 1975)
GIOVANNI RABONI è nato a Milano nel 1932 ed è morto nel 2004 a Parma in seguito ad un attacco cardiaco. Prima di dedicarsi alla letteratura, ha studiato legge ed esercitato la professione di avvocato. La sua carriera di poeta inizia nel 1961 con Il catalogo è questo, presentato da un'introduzione di Carlo Betocchi. Le successive opere di poesia sono: Le case della Vetra (1966), Cadenza d'inganno (1975), II più freddo anno di grazia (1978), Nel grave sogno (1982), Canzonette mortali (1987), A tanto caro sangue: Poesie 1953-1987 (1988), Transeuropa (1988), Versi guerrieri e amorosi (1990), Ogni terzo pensiero (1993), Devozioni perverse (1994), Quare tristis (1998), Rappresentazione della croce (2000), Tutte le poesie (1951-1998) (2000), Barlumi di storia (2002), Ultimi versi (pref. di P. Valduga, 2006). Raboni è stato anche critico teatrale per Il Corriere della Sera. Per il palcoscenico ha scritto anche vari testi, l'ultimo dei quali, Alcesti o la recita dell'esilio. Notevole anche la sua attività di traduttore di testi importanti come I Fiori del male di Baudelaire e di tutta la Recherche di Proust.