Nanni Cagnone | Alcune poesie

Da: Doveri dell’esilio (2002) I Libro scontroso una volta. Diminuito se volesse unirsi. D'altra parte, quale opera potr...



Da: Doveri dell’esilio (2002)

I

Libro
scontroso
una volta.
Diminuito
se volesse unirsi.

D'altra parte,
quale opera
potrebbe risvegliarci,
stancarsi con noi,
farsi inesperta?



IV

Sale e diventa
scende e diventa
si oscura.
È questa la forza
che volle lentamente
non agire?

Lingua del presente,
forma che manca
dopo tutte le forme.
Potessi almeno lasciarvi
un colore imperfetto.


XIII

Va bene —ora cammino,
disegno una strada
che perderà qualcosa
ad ogni curva, strada
avanti come bosco
intorne alle rovine.

Ma lungo stelo
prima di ogni fiore
che dica sí
senza la nostra
intonazione, senza
la particolare povertà
del sí.


XXI

Credere nel falso
non sarebbe allontanarsi
piú che credere nel vero.

Conosco, nella difforme
comunità del prato,
il bisogno filosofico
che unisce
le mitologie dei grilli
e del grande formicaio.

Senza capire—
al modo del chiaro
che segue lo scuro.


XLII


Qualunque arte,
se non si fa smemorata
e senza mezzi, attenta solo
a seguire il movimento
vale meno della sua materia.


Anche un albero,
fotografato
con troppa cura,
si allontana.





Da: Penombra della lingua (2012)

  
VIII

Infine non si dica
lo scandalo del tempo
ci ha colpiti,
ché sarebbe naturale
cangiar colore, e désti
ridare al tempo
la sua voglia, coloritura
e spasimo, guardare
a qual punto si avvicini
quel che speranza
fece timoroso
e ansietà volle negare—
siamo noi il valico, il varco,
il punto in cui passa la neve.


XI

Luna, e nient’altro
da dire, per ora,
dagli orti di Bomarzo.
Ma si aspetta un vortice,
una deliziosa catastrofe.
Vedi, fan ritorno
senza colore di sconfitta
quei vagabondi vinti,
decantando
loro somiglianza con noi;
ci precedono nel sonno
che strepita sotto la luna,
nel dimesso mormorío
o saranno canzoni
dei giorni di pace—
sarà l’ospite-noi,
quel rischio generoso.


XII

Morso generoso del possibile—
ma nostra mal nata speranza,
o cagionevole, non poté bastare.
Siam caduti invano nelle forre,
tra gente
intenta a spolpare cadaveri.
Briciole di sale
nessuna sulla lingua,
ma l’amaro-sempre
della Storia,
benché volpi e tigli
ci raggiungano ancora
e il mondo sappia tutto
dell’abbraccio.


XIV

Somiglianza
se prepara una discordia,
luce piú tardi opaca
su vie che diramano
in pietraie senz’orme
senza fiato, e queste penne
che stridono alle carte
per dire d’inutili vessilli
d’insegne che inerti
di grandi intendimenti.
Non sapremo quali sogni
avessero diritto
a consumarsi giustamente,
invece che schianto súbito
agli scogli—era una barca
da poco, ma sapeva vantarsi
della brezza.


XVI

Amante è colui,
sovrano de l’amato,
che per lui indietreggia,
e piú amorose le parole
della nostra quiete,
musica d’acqua nella gronda
o quei saluti di balza in balza
a seminare ricordi—siamo
altrove, ne l’innominato
precipite universo
delle aride doglie,
non volendo siamo altrove
e lontani da misericordia.



Da: Le cose innegabili (2018)


XXIX

E trasognando le vedi,
figure scarse,
livide come un delitto
o per sortilegio amorose.
Invidia d’una vita
senza le mie vertebre, un
non orgoglioso scorrere
facendo del sorriso
un’abitudine—come
in certe locande fuori mano,
sai, quando sbagli strada
e chissà dall’errore
cosa speri.


XXXI

Vegliare accanto ai solchi
ove semi insonni maturano
senza rumore, senza sognarsi
spighe, poi andar via,
orme superstiti
su rovesciate zolle, simili
al coltivatore dell’inverno,
orfano di terra, che inutile
andrà verso una casa
come farebbe la grandine.


XLI

È simile a un assedio
questa luce,
a un volitare in arnie,
e nessun ridosso per noi
che verremo espugnati
prima del crepuscolo.
Cosí ripensi all’inverno,
all’invenzione del buio
che mise in pericolo
i nostri sentimenti,
li costrinse nel respiro
ma li promise a marzo—
marzo che irrompe
come un teppista
nel cagionevole noi.


XLIII

La forza che vibra
– poi risonante per dire
fra assordati rumori
una stentata parola,
con suo ignoto pungolo –,
è lei, a indursi
nella convulsa fonazione
del pianto, il piú ostile
dei nostri richiami, che
non finirà con queste lacrime
non può mettersi d’accordo,
perennemente ci séguita ci spia,
come un adolescente in fregola
tien dietro alle donne sulla via,
aspetta che lo vogliano.


LX

Anni invernali, da cui
per falsamento di luce
non si vede la soglia.
Uno di noi, cullato
e già rimpianto
da dolenti stridule parole,
riconosce infangate
le sue scarpe.


LXII

Spazio finito, orlo di tamburo.
Ti conviene incarnarti finché puoi,
racimolare luce anche di notte,
far cammino nella bruma
e non lasciarlo mai solo
l ’istante, se no punge ogni cosa.
In fondo, in fondo al mareggiare
dei tramonti, al maturare insicuro
bruciore senza trama delle pene,
il solenne episodio delle foglie—
stormire e basta. Stormire.

LXXI

Nello sguardo
di chi si ferma
e non saluta il qui,
stremato il divenire.
Poi, nel tempo fra gli anni,
frastuono di fiumi sotterranei
e orme di terra sui pensieri,
e tutti questi libri da sfogliare
da non lèggere, perché
corroso contorno del cuore.


Da: Mestizia dopo gli ultimi racconti (2019)


I



Tutto prese avvío da una parola. Ma non si resiste a lungo entro una parola. Attendi nel mondo esterno il segno d’una corrispondenza, attendi completarti in un atto.
Le parole sono bisognose. La parola ‘bacio’, ha bisogno di materia, le serve un’altra lingua, ha bisogno d’un bacio. Compiango chi s’impiglia nel contrario.

Tentare in chiusa voce
e non all’aperto,
ne l’universo mondo,
equivale a mancare.
Prestigiatori di sillabe,
sospesi, controluce,
ci sono brezze anche per voi.


II

Per il fervore
degli antichi dèi
e le stridule pretese
dei conseguenti,
premuti ancora
su divini aculei.
Anelito
a lasciar in via
gli antenati
dei nostri dolori.

D’ore senza scopo
il balsamo paziente.

III

Cielo, pensato culmine,
concavità a cui s’imposero
leggende, mi volgo indietro
per vederti alto nel tempo
santificar colline,
fermo sui tumulti
con tua volubile eternità.

Altorivolgersi, credersi
accolti, poi ruzzolare,
all’orlo ultimo scoprire
che i libri servono soltanto
a ricordare le parole.

IV

Símia, cognitivo specchio,
trascurata opaca somiglianza,
manca a tua cultura
una teologia, e non c’è zoo
che possa indurti a devozione—
in verità, per umano scempio,
non posso sostenere
il tuo sguardo.

V

Ci sono popoli
che tengono con sé
i loro antenati,
orecchio e soffio,
ed altri, smemorati
pur de l’ultima onda.
Ci sono popoli per cui
sacro ed ebbro il suolo
come il tamburo—
non sapremo raggiungerli.

VI

Impara a pazientare,
sarai sempre tu
ma lentamente.

No, t’affretti
al pulsar de la notte,
alla ventura—
frutti acerbi
e ditirambi nel buio
contro la disparità
il torto del giorno.

Svolando addietro,
ora lo sai—
hai svuotato per anni
un vuoto canestro.

VII

Dovrai subir ancora
la furibonda gioventú,
gli sprechi i nobili assalti
e quel che non ricordi
o meglio non comprendi,
poiché ad ogni età
si cambia continente
e non ci sono
imbarcazioni sicure
e senz’accoglimento
sei sparso ogni volta
qual lacerato intero,
e non c’è pace alcuna,
ultimamente.


Da: La genitiva terra (2019)



I

In un giorno
che spiffera colori,
tu destinato oscuro.
Vorresti dire
anzianamente addio,
e pur c’è un seme
rimasto seme—
rivolgiti alle spighe
(quelle d’un tempo,
prima del progresso),
chiedi se maturità
a noi convenga.


II

Qui—sciupata
anche la parola,
se abbattuto
si toglie all’amicizia
un altro albero—
non ha patria
la candida violenza.

E tu, diversamente
umano, a cosa
potresti appartenere?
Sei spinto nell’intrico,
generato senza materia
da una figlia, le tue parole
non vogliono pensare.

III

Fredde, piú volte,
le mani. D’altronde,
costosi talismani
i sentimenti.
Ci distingue lo spreco,
di semi del possibile
dissipazione avara.

Urgente imaginare
oltre questa povertà,
crederle
animate e dormienti,
le rovine.

IV

Lentamente, son
giorni di novembre,
n’y voir que couic,
e pur ti si deve qualcosa,
se non del tutto tua
questa stanchezza.

Non sai se chiuso
o dischiuso
(non cigola), ma
ove cede il maltempo
sei tu la tua ombra.

Lento – ti stanca –,
il morire.



V

Laude
a minimi universi,
insinuati respiri.
Son loro le cellule
le imprese—vedi,
balugina un sorriso,
donna mollemente
il cui fianco
sposta confini.

Sapete, dal suolo
non si cade.

[…]

XXVI

Quando cosa sperata
si fa oscura, e temer
si deve, passa accanto
una folla indifferente.
Solo, a dubitar
della tua stanza,
sgomente le lodi
rimaste nella gola,
né sgualcito
può avvenire un sonno.

Brace invita cenere.

XXVII

Corpo morto
o corpo d’un morto?
Dipende dalle palmulæ
d’infanzia, se fu raccolto
di nevischio o rugiada,
non aver pretese
oltre respiro,
o – meine Seele! –
non del tutto qui,
essendo di passo.

Un animale finito,
bocconi su foglie
arrese ad autunno.
E uno come lui,
ma simulacro
di trasmigranti sogni.

Qui o altrove—
superati
li credo entrambi.

XXVIII

Ricordi quando,
prima volta, ti piacque
quella parola latina
– dissipare –
da cui erudito.
Imagina il contrario:
a Pectoris Angustiæ,
nella moralità
d’oltreconfine,
un uomo accorto
che mai non si rivolge—
un salvadanaio.

[…]

XLIII

Ora, da vicino,
estranea la terra.
Generar come possono
le zolle,
e accettar le impronte
dell’umano bestiario?

In tempo di guerra
giocavi col fango,
stavi piú vicino,
praticamente fidanzato,
non c’era presunzione
a separarti.



NANNI CAGNONE (Carcare, 10 aprile 1939) è un poeta e scrittore italiano. Dopo aver debuttato come poeta nel 1954, ha scritto libri di poesia, opere teatrali, romanzi, racconti, saggi e aforismi, da I giovani invalidi (1967) a The Oslo Lecture (2008), a Discorde (2015). Attualmente vive a Bomarzo. OPERE: A, in altre parole B, saggio sulla pittura (Genova 1970);  What’s Hecuba to Him or He to Hecuba?, poesie, saggi e aforismi (New York 1975);  Andatura, poesia (Milano 1979); L’arto fantasma, saggi (ed.) (Venezia 1979); Vaticinio, poesia (Napoli 1984); Notturno sopra il giorno, poesia (Milano 1985); Armi senza insegne, poesia (Milano 1988); G.M. Hopkins: Il naufragio del Deutschland (ed.) (Milano 1988); Comuni smarrimenti, romanzo (Milano 1990); Anima del vuoto, poesia (Bari 1993); Avvento, poesia (Bari 1995); The Book of Giving Back, poesia (New York 1998); Il popolo delle cose, poesia (Milano 1999); Gangart, poesi (Oslo 1999, 2004); Enter Balthâzar, racconto (New York 2000); Pacific Time, romanzo (Milano 2001); Doveri dell’esilio, poesia (Pavia 2002); Questo posto va bene per guardare il tramonto, commedia (Pavia 2002); L’oro guarda l’argento, opere scelte (Verona 2003); Index Vacuus, poesia (New York 2004); Index Vacuus, poesi (Oslo 2005); Ça mérite un détour, prose (Milano 2007); Penombra, racconto (Roma 2009); Undeniable Things, poesia, edizione d’arte (Modena 2010); Aeschylus: Agamemnon (ed.), edizione d’arte (Modena 2010, Lavis 2015); Penombra della lingua, poesia (Roma 2012); Perduta comodità del mondo, poesia (Roma 2013); Tacere fra gli alberi, poesia (Torino 2014); Discorde, saggi (Lavis 2015); Penumbra de la lengua, poesía (Mexico City 2015); Il naufragio del Deutschland (ed.) (Milano 1988, Lavis 2015); Aeschylus: Agamemnon (ed.) Lavis 2015); Tornare altrove, poesia (Lavis 2016); Corre alla sua sorte, prose (Messina 2016); Cammina mare, racconti (Lavis 2016); Dites-moi, Monsieur Bovary, prose (Torino 2017); Ingenuitas, poesia (Lavis 2017); Le cose innegabili, poesia (Roma 2018); Parmenides Remastered (Lavis 2019); La genitiva terra, poesia (Lavis 2019).

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