Luigi Di Ruscio | Poesie operaie
da: Non possiamo abituarci a morire (1953) 1 Raccolgono la neve con le mani coperte di sangue guasto la mettono sulla bocca per tutti i ge...
da: Le streghe s’arrotano le dentiere (1966)
Ovunque l’ultimo
per questa razza orribile di primi
ultimo nella sua terra a mille lire a giornata
ultimo in questa nuova terra
per la sua voce italiana
ultimo ad odiare
e l’odio di quest’uomo vi marca tutti
schiodato e crocifisso in ogni ora
dannato per un mondo di dannati.
*
Otto ore moltiplicate per tutta la vita
che copre il coraggio degli eroi e di tutti i santi
uomini intercambiabili e danzanti
la macchina è l’anima nostra
nel cartellino delle timbrate
sono le date della nostra storia
la produzione è il diario nostro
che raspa su tutte le coperture pagliaccesche
tutta l’anima nostra tra quattro mura rivoltanti
dove l’Iddio del duemila crepa perpetuamente
e perpetuamente rinasce
ogni nostro giorno per questo Iddio che è voce nostra
il Dio che è nelle nostre mani
il Dio fresato e saldato ogni giorno
e non vi è nulla di più incantato
di quando questo furore s’arresta
colta da paralisi mortale
la macchina ferma mammut scannato
lo sciopero votato nelle riunioni dei sindacati
s’è arrestato l’Iddio
e il suo manovratore e la terra trema
la fabbrica ferma
butta sulla terra il terrore dell’ultimo giudizio
e se oggi timbrare è il verbo
è sospeso il giorno della vittoria nostra
per questo giorno viventi
viventi per questa attesa.
*
Per la gatta in calore
le cavalcate dei gatti sopra i tetti
e l’allegria cancella le crepe delle case
la luna è insieme ai canti dei galli
il fischiare è questo voler ammutire i cani
che abbaiano e si agitano come volessero addentare
il vento di questa notte che porta l’odore della cagna
la luna passa tra le nubi e dà la luce a occhiate
e cosa dovrei decidere in quest’ora di notte
che non giunge mai al suo termine
i pensieri s’attaccano ai muri e alle pietre
le streghe s’arrotano le dentiere sopra i tetti.
*
In questo sole che in compatte ore illumina il giorno
con la felicità che mi strozza sulla gola
io entro in queste giornate d’amore
e tu mia compagna sei il mio giorno accecato
il sangue sembra che passi in più ampi giri e mi rinnova
ed amo tutto oggi che il chiarore
si allunga sino ad un perpetuo giorno
oggi sono capace di amare tutti gli uomini
amo moltiplicato per dieci tutte le donne
moltiplicato per cento tutte le donne che vedo
moltiplicato per mille la donna che oggi dorme con me
amo tutto moltiplicato per tutto
gli atti della mia giornata li godo
godo tutto quello che consumo
mentre il cervello in leggerezze stupende
mulina allegramente mostri
nel gioco santo della giocata eterna.
da: Apprendistati (1978)
XVII
battere su questa macchina da scrivere sino ad ammattirli battendo scrivendo
approfondire una poesia significa voler bucare la carta
scartare le velleità e non rimanere neppure il buco sulla carta
non c’è nulla da rimpiangere l’unica dignità è essere fuori e contro
ecco la pietra seminarci sopra anche quando le pietre germoglieranno
tutto provocava sbalordimenti bagliori
caricato in mondi di estrema lucidità e ottimismo
battendo sul cuneo sino a far schizzare la creaturina
vetri metalli plastiche alzo un braccio alzo una gamba
ma mentre scrivo posso solo scrivere le provo tutte
piombano i diti sulla tastiera troppa precipitazione nell’inseguire l’ispirazione
le levette dell’olivetti lettera ventidue s’intrecciano
su tale carta scrivere e ripetermi tutto mentre mi faccio la barba
quando preparo la faccia per uscire in queste strade
finita una produzione ne inizia un’altra il sottoscritto scritto anche sopra
con le fedi quasi sempre perse c’è una ultima fede
in qualcosa di vegetale e vacuo fede nel non poter morire arrotato
dondolare tra le due fedi opposte e le salto tutte e due
sono certo che esisto anche se le prove sono vacue e se preciso scompaio
per essere un sopravvissuto bisogna essere esistiti prima e anche dopo
fede vacua che mia moglie esiste mi ci metto in contatto e rimane incinta
cercare l’invenzione che casualmente centri un personaggio reale
che casualmente centri me stesso
non esiste un centro ogni colpo mi colpisce in pieno
sono capovolto non voglio raddrizzarmi
da: Istruzioni per l’uso della repressione (1980)
da: Enunciati (1993)
1
il pianeta è nella sua splendente chiarezza
il periodo dell’oscurità sta per precipitare verso la fine
vedremo il sole spostarsi verso la costellazione del capricorno
vedremo l’asteroide passare tra l’orgoglio dei pianeti
l’asteroide passerà tra i pianeti morti a precipizio
la gioia in tutta questa disperazione
gli sprofondi infiniti con le lucciole nelle loro palpitazioni
essere il meno possibile lasciare orme d’uccelli sulla neve
orme d’uccelli nell’aria leggeri nelle leggerezze uccellari
in questo mondo tremante ora che termina
la moltiplicazione dell’erba e delle rane
l’acqua (in questo mondo la moltiplicazione) l’acqua
2
quando nel paesaggio ancora invernale morso dal gelo
improvvisamente esplode la fioritura del mandorlo
la precocità e l’estrema debolezza del tuo splendore
la minaccia è sopra di te i primi sono in pericolo estremo
la fioritura del mandorlo brilla nostro debolissimo vessillo
tu vessillo di morte precoce e di tutti gli inizi
poca materia viva circondata di morte
i nostri debolissimi segni della speranza pronti a finire
i primi di un nuovo mondo splendidamente vivi
con la gola serrata dalla morte
8
quando improvvisamente rivedo una mia poesia
ho l’impressione di leggerla per la prima volta
e tutto si ripete e s’ingioia in vortici spaventosi
oppure quando Adrian mi viene improvvisamente incontro
ho la stranissima impressione di vedere
me stesso treenne che mi viene incontro
ed è tutto prima del linguaggio
più chiara e precisa è la sensazione
più incerto e balbettante il verso
il compito è impossibile
come descrivere la propria agonia.
da: L’ultima raccolta (2002)
CXXII
se non fossero esistite queste notti terribili
non avrei potuto scrivere una riga
l’urlo può essere belo
ma non ha nulla a che fare con l’arte
poi quando uno alza la voce è difficile capirlo
scrivono poesie come fossero dei grandi uomini
con le gambe per terra e la testa nel profondo del cielo
si tratta quasi sempre dell’infatuazione ottica
causata dagli antidepressivi
normalmente chi scrive poesia
è più debole della media nazionale
ha una vita difficile sofferta
più che un gigante veggente
è il cardellino accecato nella gabbietta
e non era affatto necessario
tagliargli anche le ali
CLX
mi trovo bene in questa vita
non saranno le gazze e tanto meno i cretini
ad avere l’onore di guastarmi la gioia di essere vivo
e gli enti non dovrebbero moltiplicarsi oltre il necessario
neppure se benedetti da un pio dodici
che ha benedetto anche i piccioni
e vennero benedetti anche i tiratori al piccione
venendo considerato eretico
ogni dovere morale verso le bestie
anche le auto senza scorta vengono benedette
ma i gatti i serpi anche non tigrati
le sorche assolutamente mai
CLXXV
non è destinata a noi una lunga e spettacolare agonia
non sarà per noi l’insulto di essere vivi senza coscienza
i clinici più rinomati
non appresteranno a noi lunghe strazianti agonie
la nostra miseria ci salva
dall’insulto di essere vivi senza più lo spirito nostro
ritorneremo tranquillamente nel niente da dove siamo venuti
è già tanto se il miracolo della mia esistenza ci sia stato
riuscivo perfino a testimoniarvi tutti
da: L’iddio ridente (2008)
1
vengono alla superficie pensieri neri tenebrosi
volare dalla finestra
inabissarmi in quell’albero di ciliege
che nasce sotto casa
splendente
luminoso nelle primavere
improvvisamente senza un segnale fiorisce
grappoli di vita felice
inizia così la stagione
dove nessuno immagina di dover morire
43
i cattolici visti dal sottoscritto
erano solo dei poveri necrofori e feticisti amatori di fiori
e nonostante il tutto eretico riuscivo
allegramente a rimanere in vita alla faccia vostra
non esistendo vita eterna
è già un miracolo che uno scemo come il sottoscritto
sia riuscito a nascere
e alla fine in una veloce cremazione
non rischiare che una cellula del sottoscritto resti viva
un mucchietto di cenere è una eredità più che sufficiente
per deludere i vostri vermi
72
un “io” di cui non sappiamo niente
che fabbrica tutti i nostri incubi
un “io” tanto nascosto da sospettarne l’esistenza
una specie di esistenza inesistente
che ci precipita nella più folle paura
come se fosse assolutamente necessario
per alzarmi con tanta gioia
passare una notte di incubi
79
mosche e zanzare a nuvole spaventose
costituivano il tramite d’immancabili infezioni
il lezzo nauseante ossessionava i passanti a tutte l’ore
le acque non facevano altro che far divampare
maggiormente le fiamme
la disperazione della vittima non conosce confini
il palco dove si appressavano i tenori fu intaccato
era evidente a tutti che un buco nel muro esiste
e spalanca l’inferno
87
tra la vita e la porta
avviene solo l’imprevedibile
con due sottoscritti
uno che fa i sogni e l’altro li guarda stupito
e compare perfino un terzo ignoto
che cerca di darsi una inutile
spiegazione del tutto
108
mio padre era muratore
e quando vedo i muri delle chiese
non penso a Dio
ma ai muratori e a mio padre
ed ora tocca a me diventare un padre
dopo essere stato figlio per troppo tempo
con una identità irrepetibile
come i piccoli segnali luminosi
pronti a sparire per sempre
121
ho visto piombarmi addosso un corpo
che sembrava volasse
rimbalza sul parabrezza
sfonda il vetro e mi viene addosso
la ragazza ha visto solo un’ombra piena di sangue
ed essendo sotto shock per l’incidente
è stata violentata dai passanti
136
la casa di mia nonna
pullulava gli scarafaggi
uno s’era introdotto sul fondo della tazza del caffè
e mi è finito in bocca
lo sputai con estrema violenza
e feci molto male essendo lo scarafaggio
il simbolo dell’eterno
ed era l’eterno che mi era caduto in bocca
169
con la poesia non ho mai guadagnato una lira
la poesia del sottoscritto
è un gesto gratuito e disinteressato
a disposizione di tutti gli uomini
comprese le donne amorose
preferendo le donne grasse che sono più allegre
meno lugubri meno disperate delle secche
dovendo attraversare
tutta una vita ridendo
211
sognavo di essere in un ascensore
che precipitava continuamente
alla fine mi scaraventa
nel reparto dove ho lavorato
ecco l’inferno spalancato
che ho attraversato tutti i giorni
per quaranta anni rimanendo incolume
nonostante avessero programmato
la mia morte per la vita loro
225
e mary continua ad urlarmi
che devo diventare normale
dovrei smettere di scrivere le poesie
e prendere la cittadinanza norvegese
ed io intestardito
persisto nell’orrore.
273
salteranno sugli occhi degli ultimi azzannati
per sopportare la catastrofe
si bucava continuamente fino a spararsi in bocca
non era un male misterioso che ci perseguitava
era semplicemente il male
275
il nemico implacabile di tutti i nostri nemici
poi mi accorsi di non avere più nemici
attenagliati dall’angoscia continuavamo a sperare
in un futuro meno vecchio
appiccando manifesti inneggiando a libertà sconsiderate
le case si richiudevano
e le vagine rimanevano spalancate
278
la mia lingua quotidiana è il norvegese
l’italiano diventa quasi una lingua morta
le persone reali con tutto il sottoscritto
diventano i personaggi di un sogno
spalancando un precipizio senza fondo
con poesie sdentate e sgarrate
come sputate bene distribuite
sulle facce altrui
*
inutile tenerla nascosta
per paura che venisse derubata
sostenerla con versi blasfemi o sferici
e alla fine delle composizioni
come sbattendo il coperchio
di una cassa da morto
per chiudere tutto
LUIGI DI RUSCIO Poeta e scrittore autodidatta italiano nato a Fermo nel 1930, al tempo della dominazione fascista e in un ghetto di sottoproletari, nel 1957 è migrato in Norvegia, a Oslo, dove per quarant’anni ha lavorato da operaio alla catena di montaggio di una fabbrica metallurgica. Per il suo doppio mestiere, Di Ruscio si definiva «poeta operaio metallurgico». Apprezzato tra gli altri da F. Fortini, P. Volponi e S. Quasimodo, partendo dalla sua storia personale, trattando di temi quali la marginalità, il lavoro in fabbrica, l’orizzonte politico del dopoguerra, è riuscito a descrivere la storia umana generale, utilizzando un linguaggio schietto e a volte violento. Tra i suoi libri di poesia si ricordano: Non possiamo abituarci a morire (1953), Le streghe s'arrotano le dentiere (1966), Istruzioni per l'uso della repressione (1980), Firmum (1999), L’ultima raccolta (2002), Poesie Operaie (2007); tra i suoi testi in prosa: Palmiro (1986), L’Allucinazione (2008), Cristi polverizzati (2009), La neve nera di Oslo (2010).