Luigi Di Ruscio | Poesie operaie

da: Non possiamo abituarci a morire (1953)   1 Raccolgono la neve con le mani coperte di sangue guasto la mettono sulla bocca per tutti i ge...


da: Non possiamo abituarci a morire (1953)
 

1

Raccolgono la neve
con le mani coperte di sangue guasto
la mettono sulla bocca
per tutti i gelati
che quest’estate non hanno avuto
montano su pezzi di legno
e scivolano per tutti i sogni che non hanno fatto
e sarà giorno di festa anche per loro
fuori dalle case
con le vesti bucate
le scarpe sfondate
mentre la neve fascia di gelo le case
in questa vostra terra
dove dio ci ha fatti bastardi

2

Avevo cinque anni
una vecchia mi fece capire
perché nessuno mi teneva sui ginocchi
mia nonna che mi teneva per mano non mi difese
né per consolarmi mi strinse la mano
per questo sono andato solo sui fiumi
l’acqua non mi è servita per specchiarmi
ritornavo a casa per non dormire sul greto
a quell’età la fame fa essere pazzi
fa divenire presto adulti
e tutte le erbe che le capre hanno brucato
ho imparato a cogliere
ho preso il gusto del sapore amaro
questo è stato il mio latte
e perché rubavo con calma avevo i frutti più belli
andavo solo per non essere scoperto
al mio odore i cani non hanno abbaiato
e nessuno può condannarmi
se presto mi sono adoperato a negare iddio
sulle mura che l’acqua gonfiava
avevo visto solo le immagini di carta
ho scoperto i libri nel mucchio dello stracciaio
ancora oggi mi incanto a guardarli
cercavo tra le carte la pagina scritta
ho gridato e mi hanno guardato come essere vivo
come qualcosa di più di un viaggiatore
sono entrato nelle strade
quale bambino non sogna di vestire da uomo
io lo sono stato presto
ho trovato ancora con i pantaloncini corti
una donna che è rimasta contenta
perché gli uomini gli facevano male
ho volato sui pensieri
sognando per ogni foglia che ho visto cadere
erano le ore senza riposo
le chiese servivano per rinfrescarmi
giravo assetato delle donne
che presto con soldi rubati ho pagato.
Ora sento l’amore delle donne che sfiora il viso di fiati
stringo i capelli grassi
e le mie labbra da negro mi portano fortuna
gli occhi che non sanno riposare.

3

Sono senza lavoro da anni
e mi diverto a leggere tutti i manifesti
forse sono l’unico che li ragiona tutti
per perdere il tempo che non mi costa nulla
e perché sono nato non sta scritto in nessuna stella
neppure dio lo ricorda.
gioco alla sisal
e ragiono sulla famosa catena
ma ormai poco mi lascia sperare ai miracoli
sarebbe meglio berli
i soldi che gioco per sperare un poco.
Tutti i giorni vado all’ufficio del lavoro.
Ed oggi vi erano due donne a riportare il libretto
ma le hanno consolate
gli hanno detto che per loro è più facile
potranno sempre trovare un posto da serve.
Poi sono rimasto sino alla sera ai giardini pubblici
una coppia si baciava
anch’io su quel sedile ho avuto una donna
ora ho lo sguardo di una che vorresti
che scivola dai capelli alle scarpe
per scoprirti che sei uno straccione.
Lavoravo poi tornavo a casa sulla bicicletta pieno d’entusiasmo
dormivo di un sonno profondo
e alle feste con la donna
che ho lasciato per farla sempre aspettare
ora l’insonnia sino all’alba
poi un sonno pieno d’incubi.
Avevo pensato di farla finita
se resisto è per la speranza che cambierà
ma ormai ho qualche filo bianco
senza una sposa e un figlio
solo questo vorrei questo sogno da pazzi.

4

La domenica passiamo a ballare
oppure al cinema
oppure quando la squadra andava bene
a vedere la partita
a discutere al caffè per tutta la sera
d’un rigore che non dovevano dare
d’un fallo
di un tiro sbagliato
e nati tra queste mura
abbiamo fatto insieme tutte le cose
la scuola la prima comunione
gli stessi sogni di fuggire
e insieme abbiamo passato la guerra
nutrendoci di centocinquanta grammi di pane
che non basta ad empire la bocca una volta
e il fascismo lo abbiamo conosciuto
e l’arrestare sempre qualcuno
perché il lavorare di tanto in tanto
è la storia di sempre
come il discutere di partire l’australia
o di andare volontari
a non soffrire più la miseria
ed ogni giorno ci prende il gusto più forte
di ridere alle solite cose
che dicono sulla patria e su dio
per convincerci a morire come siamo nati.

5

Sulla stradetta che porta al casino
spesso trovo le donne
che non guardano più con curiosità
non ci fanno più caso
neppure le giovani
che chi sa a quello che pensano.
Si passa per un muretto di cinta
che al sole si empie di lucertole
e i bimbi alla posta
con cappi d’avena
e prese girano a lungo
sino a morirle.
Vedo tutto questo
perché vado nell’ore di sole
per fare con comodo
senza aspettare a volte la fila
averle con in corpo la fretta.
Posso fare due chiacchiere
nude vedermele vicino
e fatta amicizia
abbracciati salire le scale
baciato dalla bocca che odora di menta.
Contento rifaccio la strada
e qualche ragazzo capelluto
con lucertola in mano mi ride d’invidia
di non aver venti anni come me.

6

Per colazione hanno acqua e pane
bevono molta acqua
la saliva che hanno devono sputarla sulle mani
perché il martello non scivoli
a mezzogiorno mettono nel brodo d’erbe
il solito pane nero
al coprirsi del sole se io sono pieno di malinconia
per loro è bello tornarsene a casa ridendo
sedersi in famiglia giocare con i figli
dopo dieci ore di lavoro sulle pietre
per quel poco pane e perché la moglie
continui a fare per ultimo il piatto
perché a nessuno manchi la parte

7

d’estate la pioggia fa bene ai granturchi
e i maiali vanno di meno
e quando va bene in campagna va bene per tutti
ma nella stagione cattiva
la pioggia è una maledizione
e coprirsi la campagna di sterpi
ed è come stare all’aperto
l’acqua scorre sul viso sulle spalle
e si lavora così tutti i giorni
vai sulla strada sperando di fare giornata
la pioggia ti leva il pane
e quando si lavora la pala s’inzacchera sulla fanga
la carretta s’affonda
e devi spingere con tutta la coscia
con le corce e gli stinchi bagnati
e nelle case i figli cercano il pane
i pezzi di pane-duro di quando c’era il sole

8

Ancora piove
e forse pioverà per sempre.
L’acqua scorre su due rivi
e porta lo sporco dei quartieri alti.
S’ode solo il battìo del ramaio
sulla bottega con le pareti colanti d’acqua
e il fuoco sul rame
le nubi di vapore.
Lì le vecchie del vicolo
che tutto popolano di misteri
vedono i colloqui infernali
e quando uno dei ramai s’impiccò
dissero che l’anima se la prese il diavolo.
Da noi le oscure leggende prendono i cuori
e passano lontano dal ramaio
quando vanno per l’acqua alla fontana
e fu uno dei ramai a dirmi
facendomi vedere il libro delle lune
che chi è nato d’acquario è tenebroso come l’acqua
ed è nato per essere solo me lo dissero con calma
poi ravvolsero le pagine scritte
le rimisero in un buco nel muro e continuarono a battere.
Io non ho mai avuto paura
Avevano l’unico orto del vicinato
Le grotte di cui vedevo gli archi pieni d’acqua
E il cipresso dove finì l’impiccato
Lo vidi rimase appeso un giorno
con la lingua nera.

9

Sopra i tetti vagano i gatti
e i miagolii pianti dell’amore
portano le menti nel terrore.
E le bottiglie gettate per paura.
Dicono che tra l’ombre ronzano le streghe
e i morti s’alzano.
Io non vidi mai nulla
è solo una mia dura ironia
che mi porta ai fantasmi
immagino gufi con verdi occhi
vagare nell’ombra
vedo le stelle immense
e non ho paura.

10

La città dove viviamo è un gruppo di case
accatastate in un colle
circondato da torrioni e mura
e alla periferia piccole officine
dove si lavora tutto il giorno e si guadagna poco.
Nella nostra città vi sono le chiese
E i vecchi che dicono che qua si sta male
per tutte le chiese
e i palazzi dove abitano loro
che fanno le elemosine
le signore damine di carità
che portano qualche volta i buoni per il pane
e guardano dentro le marmitte
per vedere se vi bolle la carne
e guardano lo sporco
storconi il naso agli odori
dicendo – l’acqua non si paga –
e intorno le nostre case appoggiate l’une sulle altre
come stroppi che si tengono la mano
e si impreca perché non le cade una
che crollerebbero tutte come un castello di carte.
Le nostre parti sono ancora come nelle vecchie mappe
Hanno ancora la fossa per la merda
e le signore damine dovrebbero saperlo
che buttarci l’acqua significa empire la fossa
e la puzza rimane la stessa
e ci viviamo da tutta la vita
al mattino mangiando un pezzo di pane
a mezzogiorno un piatto di minestra
alla sera un piatto d’erbe
che la vecchia va ogni giorno a trovare
e il curato a carnevale ebbe il gusto di dire
– domani spero fare tutti vigilia –
noi la facciamo tutto l’anno vigilia
e siamo buoni cristiani
nessuno ha fatto tante penitenze.
Non diciamo questo per la vostra pietà
è per mettere il dito sulla piaga
e guardare con gli occhi slabbrati
senza sogni che ci vorrebbero portare per mano.
Il sole lo abbiamo
in mezzo al vicolo verso mezzogiorno
L’acqua l’abbiamo
a portarla sulle spalle
e quando la fontana per il freddo gela
empiamo le stagnate di neve per cucinare
la faccia ce la laviamo strofinando le guance di neve
perché la brocca dell’acqua s’è gelata
e le mani sono nere di geloni
e quelli dell’Edison
tagliano e mettono la luce
e alla sera con il lume ad olio
come per secoli addietro i vecchi raccontano
e noi per rispetto si ascolta in silenzio
intorno al fuoco se si ha fortuna
e gli occhi annebbiati guardano la fiamma e la bragia
dove si cuoce la patata
che si mangia con un poco di sale
questo viene raccontato non per la vostra pietà
si preferisce tacerle le nostre miserie
tenerle nascoste
e con le sbornie cerchiamo di dimenticarle
così voi avete l’occasione di dire
– si ubriacano e poi dicono che non hanno il pane –
voi vi ubriacate e sapete altri divertimenti
le vostre serve ci raccontano i vostri gusti
noi sappiamo solo ubriacarci
e andare al cinema qualche volta per sognare
quando cambiamo le lenzuola
stiamo con la carne sull’intima
il materasso è di crine
e non è stata allargata da anni
è dura e forse ci fa bene alle ossa
qualcuno prega alla sera e alla mattina
tiene l’acqua santa
e con rassegnazione Cristo che lo si bestemmia
perché da secoli serve solo a voi
e i cuori d’argento dei voti intorno alla madonna
sono solo i vostri
a noi non ci fanno più grazie
non ce l’hanno mai fatte
i nostri figli sono brutti le gambe arrossate
la testa grossa
e a scuola sono all’ultimo banco
i vostri parlano meglio
noi l’italiano non lo sappiamo parlare
forse per i conti siamo meglio
i nostri figli imparano presto a contare
perché aspettano sempre qualcosa
sempre un giorno
e ci pensate male
quando vedete che quaggiù sono comunisti
dite – guardate gli straccioni
vogliono comandare loro –
e gli straccioni pregano meno
hanno fame di più
e quando vengono le damine
non si sa più essere gentili
dello sporco non ci si scusa più
non ci si può abituare a morire di fame
ci si può abituare a prendere schiaffi
a prendere sputate negli occhi
ma morire di fame no
sentiamo il caldo della vita
le nostre mani hanno fatto tutto
non possiamo morire
né morire scannandoci con altri come noi
siamo stanchi di spandere il nostro sangue
sulle vostre ricchezze
non c’importa se i meglio di noi
non li volete più in chiesa
il prete ha la terra da difendere
ha benedetto la guerra per le cosiddette
civiltà romane e cristiane
ma la fame
la tubercolosi
portare la scabbia sui diti
i figli con le gambe fine le teste grosse
il sangue che soffre
la morte aggrappata sulle spalle ci pesa.
La nostra città è questa
ed altre città hanno questa miseria
con le officine che aprono e chiudono
e fanno lavorare fuori orario
gli alcolizzati minati dalla tubercolosi
le puttane
quelle che lo fanno con gusto
e quelle che lo fanno male ma devono farlo
anche se i preti non gli danno l’assoluzione.
Non possiamo abituarci a crepare
neppure un asino che da noi si racconta l’ha potuto
siamo gente paziente
non possiamo abituarci a morire
noi vogliamo vivere
perché la vita ci piace
abbiamo il gusto della vita
con le mani che hanno tirato su tutto.

11

Faceva l’infermiera
e fu cacciata e liquidata per poche soldi
ora ha pensione e si ubriaca col mistrà
e va a dormire verso mezzanotte
si fa il caffè e me lo porta quando vede la luce
e mi domanda perché scrivo tanto senza dare un esame
lei che mi ha tenuto sulle gambe più di mia madre
che doveva vestire i morti fare la serva
per darmi poco pane
soffre a vedermi senza nulla
vorrebbe avere i miei figli
per ricominciare come fossero suoi
ma la colpa non è mia se sono nato male
la colpa non è mia di niente.

12

La pensione da impiegato comunale
è di ottomila al mese quarant’anni di fatica
per pane e formaggio grattugiato
per imparare a stendere la mano e morire solo
oppure finire al ricovero dei vecchi
ubbidire a bacchetta la madre superiora
alzarsi presto imparare a pulirsi l’anima
per avere un pasto abbondante
e morire in un posto fatto per i vecchi
perché crepino senza dare fastidio.

13

È morto lavorando
ottant’anni l’ha passati sulla fatica
sulla fossa ha la croce di latta
un numero e un mucchio di terra
andava a tutte le manifestazioni di partito
diceva che non avrebbe voluto il prete
ma la paralisi
non lo fece parlare.

14

È quella che canta la tristezza della strada
suo marito è in Francia
e non fa sapere più nulla
e lei e la figlia vivono
degli uomini che vengono la notte.
E il suo canto è come la strada
stridulo e stonato
è come il vapore che esala
dai tetti dopo la pioggia.
Dice a tutti quale è la sua arte
e a volte lo grida ridendo
con l’amaro delle donne.

15

Avevano la sifilide
e presero una bastarda già grande.
Era carina e stavamo spesso insieme
Sullo scalino di casa senza toccarla.
Poi la fidanzarono con uno più grande
che non scherzava
e si dice che ci pensasse anche il padre
sulla piccola carne
con ancora le treccette.
Aveva preso l’abitudine
di pensare che tutti erano come me.
Poi non mi capì più.

16

il semaforo segna rosso
sulla costruzione sospeso come un dio
e le biciclette volano con in groppa le donne
dagli occhi di tutti i colori
col viso più forte della morte
gente che assapora i giorni
e quel rosso nel viso ha più luce del sole. 


da: Le streghe s’arrotano le dentiere (1966)
 

Ovunque l’ultimo
per questa razza orribile di primi
ultimo nella sua terra a mille lire a giornata
ultimo in questa nuova terra
per la sua voce italiana
ultimo ad odiare
e l’odio di quest’uomo vi marca tutti
schiodato e crocifisso in ogni ora
dannato per un mondo di dannati.
 
*
 
Otto ore moltiplicate per tutta la vita
che copre il coraggio degli eroi e di tutti i santi
uomini intercambiabili e danzanti
la macchina è l’anima nostra
nel cartellino delle timbrate
sono le date della nostra storia
la produzione è il diario nostro
che raspa su tutte le coperture pagliaccesche
tutta l’anima nostra tra quattro mura rivoltanti
dove l’Iddio del duemila crepa perpetuamente
e perpetuamente rinasce
ogni nostro giorno per questo Iddio che è voce nostra
il Dio che è nelle nostre mani
il Dio fresato e saldato ogni giorno
e non vi è nulla di più incantato
di quando questo furore s’arresta
colta da paralisi mortale
la macchina ferma mammut scannato
lo sciopero votato nelle riunioni dei sindacati
s’è arrestato l’Iddio
e il suo manovratore e la terra trema
la fabbrica ferma
butta sulla terra il terrore dell’ultimo giudizio
e se oggi timbrare è il verbo
è sospeso il giorno della vittoria nostra
per questo giorno viventi
viventi per questa attesa.

*

Per la gatta in calore
le cavalcate dei gatti sopra i tetti
e l’allegria cancella le crepe delle case
la luna è insieme ai canti dei galli
il fischiare è questo voler ammutire i cani
che abbaiano e si agitano come volessero addentare
il vento di questa notte che porta l’odore della cagna
la luna passa tra le nubi e dà la luce a occhiate
e cosa dovrei decidere in quest’ora di notte
che non giunge mai al suo termine
i pensieri s’attaccano ai muri e alle pietre
le streghe s’arrotano le dentiere sopra i tetti.

*

In questo sole che in compatte ore illumina il giorno
con la felicità che mi strozza sulla gola
io entro in queste giornate d’amore
e tu mia compagna sei il mio giorno accecato
il sangue sembra che passi in più ampi giri e mi rinnova
ed amo tutto oggi che il chiarore
si allunga sino ad un perpetuo giorno
oggi sono capace di amare tutti gli uomini
amo moltiplicato per dieci tutte le donne
moltiplicato per cento tutte le donne che vedo
moltiplicato per mille la donna che oggi dorme con me
amo tutto moltiplicato per tutto
gli atti della mia giornata li godo
godo tutto quello che consumo
mentre il cervello in leggerezze stupende
mulina allegramente mostri
nel gioco santo della giocata eterna.


da: Apprendistati (1978)

 
XVII

battere su questa macchina da scrivere sino ad ammattirli battendo scrivendo
approfondire una poesia significa voler bucare la carta
scartare le velleità e non rimanere neppure il buco sulla carta
non c’è nulla da rimpiangere l’unica dignità è essere fuori e contro
ecco la pietra seminarci sopra anche quando le pietre germoglieranno
tutto provocava sbalordimenti bagliori
caricato in mondi di estrema lucidità e ottimismo
battendo sul cuneo sino a far schizzare la creaturina
vetri metalli plastiche alzo un braccio alzo una gamba
ma mentre scrivo posso solo scrivere le provo tutte
piombano i diti sulla tastiera troppa precipitazione nell’inseguire l’ispirazione
le levette dell’olivetti lettera ventidue s’intrecciano
su tale carta scrivere e ripetermi tutto mentre mi faccio la barba
quando preparo la faccia per uscire in queste strade
finita una produzione ne inizia un’altra il sottoscritto scritto anche sopra
con le fedi quasi sempre perse c’è una ultima fede
in qualcosa di vegetale e vacuo fede nel non poter morire arrotato
dondolare tra le due fedi opposte e le salto tutte e due
sono certo che esisto anche se le prove sono vacue e se preciso scompaio
per essere un sopravvissuto bisogna essere esistiti prima e anche dopo
fede vacua che mia moglie esiste mi ci metto in contatto e rimane incinta
cercare l’invenzione che casualmente centri un personaggio reale
che casualmente centri me stesso
non esiste un centro ogni colpo mi colpisce in pieno
sono capovolto non voglio raddrizzarmi
 

da: Istruzioni per l’uso della repressione (1980)
 
CVII

vedendo i miei sforzi vani e disperati ridevano
e urlavano che non ce l’avrei mai fatta
imparavo a memoria la scienza nuova in edizione
originale
era tutto velocissimo sparivano le lettere
l’organo delicatissimo se lo metti al servizio degli
sfruttatori si fulmina
con un cervello intatto vedrai tutto e godrai dolcissimi
amori
con questo alfabeto mi sembra di essere diventato
l’onnipotente
basta una parola e tutto s’imprime
il piacere di muovere le proprie gambe dopo tolta
l’ingessatura
se non sforzi nulla tutto verrà dolcemente e
vertiginosamente
pensavo che se riuscivo a scrivere bella poesia non mi
avrebbero accecato
venne ammazzata una che stava a guardare la rissa dal
riquadro della finestra
il 21 settembre chiusero le case di tolleranza
la nostra tolleranza rimase aperta e qualche volta scoppia
c’è pericolo che i picchiati diventino terroristi
scoppieranno le tolleranze
mi sembrava strano che anche lo scopare
fosse soggetto alle leggi della domanda e dell’offerta
però capivo benissimo che aumentando a dismisura
le domande rispetto alle offerte i prezzi di svendita
non potevano essere mantenuti
mi disse anche che l’unico suo capitale
era quel buco che gli era rimasto tra le gambe
cominciarono a capovolgere le marmitte della broda
che si spandeva velocemente dalla terra era assorbita
dovevamo succhiare la broda dal terreno che
velocemente l’assorbiva
cercheranno di farci diventare peggio delle bestie
per ammazzarci senza scrupoli come si acciacca le
pulci tra le unghie
ecco quindi la poesia come infanzia del comunismo


 
da: Enunciati (1993)

1

il pianeta è nella sua splendente chiarezza
il periodo dell’oscurità sta per precipitare verso la fine
vedremo il sole spostarsi verso la costellazione del capricorno
vedremo l’asteroide passare tra l’orgoglio dei pianeti
l’asteroide passerà tra i pianeti morti a precipizio
la gioia in tutta questa disperazione
gli sprofondi infiniti con le lucciole nelle loro palpitazioni
essere il meno possibile lasciare orme d’uccelli sulla neve
orme d’uccelli nell’aria leggeri nelle leggerezze uccellari
in questo mondo tremante ora che termina
la moltiplicazione dell’erba e delle rane
l’acqua (in questo mondo la moltiplicazione) l’acqua
 
2

quando nel paesaggio ancora invernale morso dal gelo
improvvisamente esplode la fioritura del mandorlo
la precocità e l’estrema debolezza del tuo splendore
la minaccia è sopra di te i primi sono in pericolo estremo
la fioritura del mandorlo brilla nostro debolissimo vessillo
tu vessillo di morte precoce e di tutti gli inizi
poca materia viva circondata di morte
i nostri debolissimi segni della speranza pronti a finire
i primi di un nuovo mondo splendidamente vivi
con la gola serrata dalla morte
 
8

quando improvvisamente rivedo una mia poesia
ho l’impressione di leggerla per la prima volta
e tutto si ripete e s’ingioia in vortici spaventosi
oppure quando Adrian mi viene improvvisamente incontro
ho la stranissima impressione di vedere
me stesso treenne che mi viene incontro
ed è tutto prima del linguaggio
più chiara e precisa è la sensazione
più incerto e balbettante il verso
il compito è impossibile
come descrivere la propria agonia.


da: L’ultima raccolta (2002)


CXXII

se non fossero esistite queste notti terribili
non avrei potuto scrivere una riga
l’urlo può essere belo
ma non ha nulla a che fare con l’arte
poi quando uno alza la voce è difficile capirlo
scrivono poesie come fossero dei grandi uomini
con le gambe per terra e la testa nel profondo del cielo
si tratta quasi sempre dell’infatuazione ottica
causata dagli antidepressivi
normalmente chi scrive poesia
è più debole della media nazionale
ha una vita difficile sofferta
più che un gigante veggente
è il cardellino accecato nella gabbietta
e non era affatto necessario
tagliargli anche le ali

CLX

mi trovo bene in questa vita
non saranno le gazze e tanto meno i cretini
ad avere l’onore di guastarmi la gioia di essere vivo
e gli enti non dovrebbero moltiplicarsi oltre il necessario
neppure se benedetti da un pio dodici
che ha benedetto anche i piccioni
e vennero benedetti anche i tiratori al piccione
venendo considerato eretico
ogni dovere morale verso le bestie
anche le auto senza scorta vengono benedette
ma i gatti i serpi anche non tigrati
le sorche assolutamente mai 

CLXXV

non è destinata a noi una lunga e spettacolare agonia
non sarà per noi l’insulto di essere vivi senza coscienza
i clinici più rinomati
non appresteranno a noi lunghe strazianti agonie
la nostra miseria ci salva
dall’insulto di essere vivi senza più lo spirito nostro
ritorneremo tranquillamente nel niente da dove siamo venuti
è già tanto se il miracolo della mia esistenza ci sia stato
riuscivo perfino a testimoniarvi tutti
 

da: L’iddio ridente (2008)


1

vengono alla superficie pensieri neri tenebrosi
volare dalla finestra
inabissarmi in quell’albero di ciliege
che nasce sotto casa
splendente
luminoso nelle primavere
improvvisamente senza un segnale fiorisce
grappoli di vita felice
inizia così la stagione
dove nessuno immagina di dover morire

43

i cattolici visti dal sottoscritto
erano solo dei poveri necrofori e feticisti amatori di fiori
e nonostante il tutto eretico riuscivo
allegramente a rimanere in vita alla faccia vostra
non esistendo vita eterna
è già un miracolo che uno scemo come il sottoscritto
sia riuscito a nascere
e alla fine in una veloce cremazione
non rischiare che una cellula del sottoscritto resti viva
un mucchietto di cenere è una eredità più che sufficiente
per deludere i vostri vermi

72

un “io” di cui non sappiamo niente
che fabbrica tutti i nostri incubi
un “io” tanto nascosto da sospettarne l’esistenza
una specie di esistenza inesistente
che ci precipita nella più folle paura
come se fosse assolutamente necessario
per alzarmi con tanta gioia
passare una notte di incubi

79

mosche e zanzare a nuvole spaventose
costituivano il tramite d’immancabili infezioni
il lezzo nauseante ossessionava i passanti a tutte l’ore
le acque non facevano altro che far divampare
maggiormente le fiamme
la disperazione della vittima non conosce confini
il palco dove si appressavano i tenori fu intaccato
era evidente a tutti che un buco nel muro esiste
e spalanca l’inferno

87

tra la vita e la porta
avviene solo l’imprevedibile
con due sottoscritti
uno che fa i sogni e l’altro li guarda stupito
e compare perfino un terzo ignoto
che cerca di darsi una inutile
spiegazione del tutto

108

mio padre era muratore
e quando vedo i muri delle chiese
non penso a Dio
ma ai muratori e a mio padre
ed ora tocca a me diventare un padre
dopo essere stato figlio per troppo tempo
con una identità irrepetibile
come i piccoli segnali luminosi
pronti a sparire per sempre

121

ho visto piombarmi addosso un corpo
che sembrava volasse
rimbalza sul parabrezza
sfonda il vetro e mi viene addosso
la ragazza ha visto solo un’ombra piena di sangue
ed essendo sotto shock per l’incidente
è stata violentata dai passanti


136

la casa di mia nonna
pullulava gli scarafaggi
uno s’era introdotto sul fondo della tazza del caffè
e mi è finito in bocca
lo sputai con estrema violenza
e feci molto male essendo lo scarafaggio
il simbolo dell’eterno
ed era l’eterno che mi era caduto in bocca

169

con la poesia non ho mai guadagnato una lira
la poesia del sottoscritto
è un gesto gratuito e disinteressato
a disposizione di tutti gli uomini
comprese le donne amorose
preferendo le donne grasse che sono più allegre
meno lugubri meno disperate delle secche
dovendo attraversare
tutta una vita ridendo

211

sognavo di essere in un ascensore
che precipitava continuamente
alla fine mi scaraventa
nel reparto dove ho lavorato
ecco l’inferno spalancato
che ho attraversato tutti i giorni
per quaranta anni rimanendo incolume
nonostante avessero programmato
la mia morte per la vita loro


225

le partite contro me stesso le perdo tutte
e mary continua ad urlarmi
che devo diventare normale
dovrei smettere di scrivere le poesie
e prendere la cittadinanza norvegese
ed io intestardito
persisto nell’orrore.

273

vespe e mosche per puro caso sfuggite agli insetticidi
salteranno sugli occhi degli ultimi azzannati
per sopportare la catastrofe
si bucava continuamente fino a spararsi in bocca
non era un male misterioso che ci perseguitava
era semplicemente il male

275

eravamo stalinisti perché stalin rappresentava
il nemico implacabile di tutti i nostri nemici
poi mi accorsi di non avere più nemici
attenagliati dall’angoscia continuavamo a sperare
in un futuro meno vecchio
appiccando manifesti inneggiando a libertà sconsiderate
le case si richiudevano
e le vagine rimanevano spalancate


278

adopero l’italiano solo per scrivere
la mia lingua quotidiana è il norvegese
l’italiano diventa quasi una lingua morta
le persone reali con tutto il sottoscritto
diventano i personaggi di un sogno
spalancando un precipizio senza fondo
con poesie sdentate e sgarrate
come sputate bene distribuite
sulle facce altrui

*

la speranza andava mostrata subito
inutile tenerla nascosta
per paura che venisse derubata
sostenerla con versi blasfemi o sferici
e alla fine delle composizioni
come sbattendo il coperchio
di una cassa da morto
per chiudere tutto



LUIGI DI RUSCIO Poeta e scrittore autodidatta italiano nato a Fermo nel 1930, al tempo della dominazione fascista e in un ghetto di sottoproletari, nel 1957 è migrato in Norvegia, a Oslo, dove per quarant’anni ha lavorato da operaio alla catena di montaggio di una fabbrica metallurgica.  Per il suo doppio mestiere, Di Ruscio si definiva «poeta operaio metallurgico». Apprezzato tra gli altri da F. Fortini, P. Volponi e S. Quasimodo, partendo dalla sua storia personale, trattando di temi quali la marginalità, il lavoro in fabbrica, l’orizzonte politico del dopoguerra, è riuscito a descrivere la storia umana generale, utilizzando un linguaggio schietto e a volte violento. Tra i suoi libri di poesia si ricordano: Non possiamo abituarci a morire (1953), Le streghe s'arrotano le dentiere (1966), Istruzioni per l'uso della repressione (1980), Firmum (1999), L’ultima raccolta (2002), Poesie Operaie (2007); tra i suoi testi in prosa: Palmiro (1986), L’Allucinazione (2008), Cristi polverizzati (2009), La neve nera di Oslo (2010).

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