Sergio Foti | Aspetti del tema simbolico nella poesia persiana
Questo mio intervento riguarderà alcuni aspetti – i più essenziali – della dimensione simbolica presente nella poesia persiana classica, e c...
Questo mio intervento riguarderà alcuni aspetti – i più essenziali – della dimensione simbolica presente nella poesia persiana classica, e cercherà contemporaneamente di suggerire alcuni possibili criteri di interpretazione. Non è uno studio specifico su un autore o degli autori in particolare, semmai un sorvolo molto parziale su di un dominio espressivo tutto fondato sulla difficoltà e sull’ambiguità, e che meriterebbe ben altri approfondimenti. Parlerò soprattutto di concetti generali, cercando di non essere troppo teorico e di offrire diversi riscontri sui testi: faccio riferimento sia agli autori della letteratura persiana sia ad altri teorici, e i fogli che avete ricevuto possono aiutarvi a seguire le citazioni più importanti.
Il nostro tema si ricollega direttamente alle lezioni, molto chiare e precise – ho avuto modo di assistere ad una di esse – con cui il prof. Carlo Saccone vi ha introdotto al mondo letterario persiano, illustrandone i canoni estetici e la formazione dei suoi contenuti: lezioni nelle quali ha accennato al gioco composito dei suoi significati, e soprattutto ha cercato di rendere familiare la specialissima atmosfera che si respira in questa lirica.
1. Dire “poesia persiana”, in effetti, significa dire strutturale allusività ed ambiguità, e quel senso di sospensione che si condensa nel termine taghazzol, e che indica la fusione, in un certo numero di motivi emblematici, di elementi concreti e spirituali, di forme sacre e profane - un insieme cui è impossibile dare una spiegazione unitaria. Quindi, e purtroppo per voi, si tratterà ancora dei motivi del Vino e del Coppiere, della Taverna e del Superiore dei magi, della Treccia di capelli e del Giardino, degli sfondi stilizzati e delle varie immagini che entrano nel dettato poetico, con le loro inestricabili connotazioni.
L’esempio che facciamo qui, per entrare in argomento, è dell’autore che più tipicamente incarna e porta a maturità l’oscillazione dei temi e l’indefinitezza dei contorni: Hafez.
All’ intelletto io porsi un viatico di amabile vino
Allora il mio bello, mercante di vino, una moina mi fece
Chè invero la fenice è ben oltre, la sopra quel nido più alto!”
Che all’ Amore gioca con se stesso, al modo di un abile mago?
La nostra esistenza è un enigma, o Hafez:
frode è indagarla, o una favola bella!
(trad. it. di Carlo Saccone)
Difficile, davvero, riuscire a mettere a fuoco il contenuto reale di questo insieme di considerazioni eleganti, che da un distico all’altro sembrano far intravedere reali baldorie, riflessioni spirituali e scetticismo: ma se avessimo citato Sana’i, o Ahmad Ghazali, o ‘Eraqi, le difficoltà probabilmente non sarebbero state minori. E’ un ambito di cui bisogna apprendere a “gustare” la sottile ambivalenza.
A mio avviso, si potrebbero distinguere quasi tre livelli di ambiguità, nel dominio della poesia persiana.
In primo luogo, penso che si possa definire, se non proprio ambiguo, perlomeno involuto già il piano dell’espressione formale, costruito su regole sofisticate e precise.
E’, questa, una lirica che si caratterizza per un suo radicale, programmatico “dire altro” dal linguaggio comune, per la sua preferenza verso una lingua cesellata, brillante di trovate formali, per la sua ricerca di un impianto manieristico, aperto a preziose variazioni. Giochi eruditi e ricerca dell’ornamento retorico la sostanziano: dotte allusioni la punteggiano. In un certo senso, è proprio il rifiuto di un dettato immediato che fa i poeti, rifiuto ben illustrato dai precetti stilistici di un celebre retore del XII secolo, ossia nel momento in cui si precisano le tendenze del periodo “classico”. Questo maestro, Nezami Aruzi, scrive:
La poesia è un’arte mediante la quale il poeta, abilmente arrangiando premesse immaginarie e bilanciando deduzioni significative, fa grandi i concetti piccoli e piccoli i grandi ; il bello riveste delle vesti del brutto e il brutto in forme belle manifesta. [...]
Il poeta dev’essere di indole pura, di alti pensieri, di retto gusto, acuto di sguardo … Poeti non si diventa se non si sono appresi, nella prima giovinezza, ventimila versi della poesia degli Antichi e diecimila di quella dei Moderni, e se non si rileggono di continuo i Canzonieri dei maestri.
Ad un secondo livello, risulta complessa la lettura e la comprensione delle intenzioni dei singoli autori, quando si nota in essi l’inserzione , sempre più “canonica”, di temi bad-nam, cioè l’insieme dei motivi e delle immagini “malfamate” che celebrano l’ amore, il vino e l’ apostasia. Tale insieme si lega alla poesia persiana fin dai suoi esordi, dai tempi del panegirista Daqiqi (X secolo), ma poi si amplia, le motivazioni di ciò restando sempre multiformi e difficili.
Si va, qui, dall’omaggio ad una convenzione, che era andata maturando negli esponenti della tradizione araba precedente alla lirica persiana – ossia in figure come il califfo al-Walid, o Abu Nuwas (VIII-IX sec.) – all’atteggiamento provocatorio di chi, proprio autodenigrandosi, rivendica un proprio ruolo e un proprio linguaggio, fino all’utilizzo – più o meno preciso, ma di cui è certo difficile dire quando sia iniziato – di motivi esoterici.
Infine, se questo livello si può davvero distinguere da quello precedente, l’ambiguità riguarda l’orientamento fondamentale di un autore – poniamo un Sana’i, o un Khayyam, un Hafez o un Ahwad-ad Din Kermani – che scrive ghazal o roba’i. L’amore e la sregolatezza che egli canta, le bevute notturne, le attese dei baci dell’ Amico sono inviti ad un’ebbrezza spirituale o ad un edonismo spicciolo e un po’ malinconico? E’ l’eterna questione. Sta di fatto che, nell’ Iran antico, e anche in quello di oggi, lo statuto riconosciuto al discorso poetico è quello di un’ambiguità costitutiva che è molto maggiore di quella che troviamo in altre letterature – non importa quanto ciò possa infastidire il nostro raziocinio occidentale.
Tutti questi livelli di ambiguità si rafforzano e vengono probabilmente accentuati dalla vocazione interamente figurativa di tale stile poetico: dal fatto cioè che la lirica persiana abbia enormemente ampliato, rispetto alle origini arabe, il campo e la portata delle forme immaginali. I temi di cui abbiamo parlato si esprimono essenzialmente per immagini, o meglio lungo le immagini, rinunciando a discorsi che non siano talmih, “allusione “, in un reticolo di stilizzazioni e di norme che esplicitano tutte le virtualità delle figure. Sentiamo cosa scrive Bausani del motivo della Treccia:
La treccia è profumata, rende inutile ogni profumo: al vento si disperde e sconvolge come lo spirito sconvolto e distratto del poeta: con la punta come un bastone da polo ricurvo, è spesso paragonata ad esso; ad ogni pelo della treccia è legato un cuore: è anche annodata, quindi è una rete in cui cadono gli uccelli dei cuori ; è come una catena che imprigiona gli amanti, ma poiché i pazzi sono in catene, ecco che la treccia catena si combina in vari modi con la follia d’ amore…
Il tesoro della poesia persiana – quello delle immagini classiche, delle grandi figurazioni consuete (il Giardino, l’usignolo, la Taverna) – si è certo formato nel tempo, con apporti che vanno dalle tradizioni antico-iraniche a quelle gnostico-ellenistiche, dai temi coranici alle nozioni astrologiche e scientifiche: per poi però, quasi cristallizzarsi, precipitare in un insieme di motivi-emblema che stanno a sé, in una sofisticata atmosfera letteraria sempre un po’ sfuggente.
Si afferma un iconismo in cui le figure usate dal poeta non sorgono per caso, ma hanno alle spalle una storia, degli usi e degli intenti riconosciuti: in cui inoltre non valgono per sé stesse, ma per i collegamenti e le tensioni che creano con altri elementi del discorso.
La lirica persiana, cioè, finisce col formare una sorta di grammatica dell’ immaginario , che mi sembra peculiare solo di tale mondo letterario.
Gianroberto Scarcia ha usato, per questo aspetto, un termine particolarmente felice quando ha parlato, a proposito del Divan di Hafez, di una vera “alchimia dell’erudizione”. Intende cioè il processo per cui questa letteratura è capace di integrare motivi di origine archetipica o mitica, ponendoli però in una visuale diversa, caricandoli di sfumature retoriche e/o erudite che li rendono “persiani”, riconoscibili solo in questo contesto.Egli prende ad esempio il motivo della “Coppa di Jamshid”, e ne studia le tensioni e le coloriture nell’opera di Hafez:
Comunque sia, le identificazioni scolastiche, i giochi di parole e le analogie formali – egli scrive – hanno creato un mito nuovo, assolutamente inestricabile nei suoi singoli pezzi, il quale viene deterso dalla sua polvere mitica, per entrare così congegnato nel mondo visionario dei poeti mistici e finire con l’essere assorbito nello stesso nuovo “inconscio collettivo” di una società tutta impregnata di cultura erudita.
Per riassumere, dunque: da diversi ambiti e secondo diverse prospettive, quella persiana ci si mostra come una letteratura elaboratissima e unitaria, in cui raffinati codici espressivi, frutto di filtri e stratificazioni, dettano le norme per la composizione stilistica e per la fruizione- Essa ci appare come una civiltà che idoleggia, in un certo senso, la parola impreziosita, la parola –perla capace di irradiare, grazie alla sua lucentezza, riflessi verso altri contenuti, altre aree semantiche, altre proprietà – ma in un gioco, comunque, di quasi completa autoreferenzialità.
Pure, all’ interno di queste dorate convenzioni, troviamo un altro elemento che può sembrare – e di fatto a me sembra – paradossale: è la nozione della profondità quasi sacra del discorso poetico: non solo del valore erudito della parola, che era nozione accettata negli ambienti cortigiani (lo si coglieva in Aruzi), ma proprio di una sua valenza sapienziale, spirituale, per cui il poeta diventa una specie di Maestro dei segreti: degli arcani che non è possibile affidare al discorso consueto. E’ certo un motivo che entra silenziosamente in tale ambito, che varia e si precisa con il passar del tempo: e la sua evoluzione non è semplice da seguire. Però, a un certo punto, rimane sullo sfondo di molta produzione letteraria e dice giustamente Carlo Saccone che, rispetto alla vena scanzonata e quasi goliardica con cui i poeti arabi - i cosiddetti “poeti nuovi” del periodo abbasidi (IX sec.) - cantavano le loro vere o presunte trasgressioni, i poeti del mondo persiano si sentono comunque investiti di un compito più serio, quasi un po’ come dei portatori di un messaggio, tanto che gli appellativi dati dai letterati ai poeti passano da elogi un po’ generici e cortigiani a termini come “Sovrano della Parola” , “Lingua del Mondo Invisibile” , fino alla considerazione di una possibile quasi-continguità con la parola profetica. Siamo qui, certo, al caso-limite, ma resta il fatto che Nezami ha scritto:
Il velo del Mistero che nutre la Poesia è un’ombra del Velo della Profezia. I poeti stanno dietro quel Velo, e i Profeti vi stanno innanzi.
e Hafez
La musica di Venere induce a danzare persino il profeta Gesù!
La considerazione, ovvia, da fare qui, è che bisogna certo tenere conto della presenza e dell’influenza del movimento sufi, del peso del suo anelito mistico: movimento che, più o meno in concomitanza con l’affermarsi dei generi letterari “classici”, trovava una nuova ufficialità e uno statuto riconosciuto nell’ambito di tutta la società islamica, e, a partire da Sana’i, aveva preso a diffondere contenuti, precetti, o anche solo aneliti nei territori della poesia.
Però, l’idea di una parola sacrale, in comunicazione con l’ Oltre – è questo un rilievo dell’ americano Carl Ernst che condivido – non si lega necessariamente alla poesia cortigiana, non si sposa in modo immediato a questo linguaggio da cerchie letterarie, per di più sempre incessantemente preoccupate di raffinare schemi e regole. La parola ispirata, viene da dire, punta a ciò che è originario, autentico, rigenerato – il sacro è ciò che attinge all’ Origine e vive di forza propria, e l’ Islam ne ha il modello supremo nel discorso ummi, “illetterato”, del Profeta. Se noi teniamo presente ciò, possiamo ammettere senza problemi che qualcosa, fra i due concetti di sacro, cioè di linguaggio sacro, e di letteratura - specialmente nei termini visti fin qui - non collima.
2. E’ su questo aspetto – il quale, devo dire, mi ha sempre incuriosito - che ora vorrei appuntare un po’ di attenzione. Il mio interesse qui è cercare di precisare, almeno parzialmente, in che senso la poesia persiana (giacchè buona parte di essa ne rivendica lo statuto) possa essere valutata come un linguaggio mistico-sacrale, capace cioè di cogliere – e trasmettere – l’esperienza dell’ Ignoto. E’ un tentativo, che faccio con voi, e che può servire almeno come riflessione sull’uso del linguaggio.
E’ chiaro che - per riprendere una distinzione importante di cui Carlo Saccone ha parlato sia nei suoi articoli che nelle lezioni - fra le diverse autorappresentazioni che la società letteraria persiana ha proposto, noi dobbiamo volgerci alla dimensione 'arusi, ossia a quel concetto di letteratura per cui l’opera dello scrittore è come l’insieme dei veli che copre la bellezza della sposa ('arus). Immagine, questa, bella e difficile, perchè anche i suoi elementi (i veli, il proibito, la bellezza) hanno distinte connotazioni, ma che ci serve almeno per capire che dobbiamo tentare di puntare in primo luogo al contenuto, al significato, anche se i veli sono tanti e si sciolgono con fatica:
Questa sposa velata lascerà cadere i suoi veli ad uno ad uno, fra mille graziose moine ('Attar).
Lo studio del repertorio classico come lo troviamo nelle storie letterarie rende un enorme servigio nel dischiudere i sofisticati aspetti dell’ immaginario iraniano. Riusciamo a capire cosa siano le tipizzazioni (il Cipresso e lo Zefiro come aspetti dell’ amico), i richiami fra i motivi – immagini (le anime come uccelli, ma anche la lingua degli uccelli-angeli, e il Simorgh), le omeomorfie (il neo come punto dell’ Unità nascosta, o lettera coranica, etc.). Però, se puntiamo al contenuto essenziale, le espressioni liriche, intorno a cui ruota la nostra analisi, devono cercare di essere intese soprattutto come simboli.
«Le parole —scrive Rumi in un passo del suo Mathnawi— sono dei nidi: i significati, sono alate creature già in volo. I corpi sono come dei fiumi, e lo Spirito è la loro calma corrente...»,
e Shabestari:
gli arcani del Sentiero - non sono per l’uomo comune.
Ci è necessario, ora, familiarizzare di più con i temi del simbolismo e del simbolo. Nozioni che restano in realtà alquanto complicate, e che espongo con dei tentativi di spiegazione. E’ difficile comprendere il simbolo – dice Renè Alleau – perché si tratta di una realtà essenzialmente polivalente, il cui essere interseca per natura diversi domini, dalla linguistica alla filosofia, dalla psicologia analitica alle teorie della conoscenza: ad esso paradossalmente, si può arrivare in modo più facile con descrizioni indirette che attraverso una definizione perentoria.
Comunque, restando nel dominio della comunicazione, possiamo riferire il simbolo – com’è già stato fatto molte volte – all' ambito dei segni. Consideriamo la categoria di “segno” come quella più generale in cui una rappresentazione o un’immagine indica, sta per, un’ altra realtà che non sia presente in modo immediato alla coscienza percettiva. I segni quindi, in modalità molto diverse, sostituiscono la percezione diretta: se il loro campo, com’è ovvio, è vastissimo, in quanto spazia dall’area del linguaggio ai segnali visivi, dalle figure iconiche alla formule matematiche, ad accomunarli è il fatto che il loro significato, ciò cu essi alludono, è sempre qualcosa di tangibile, di verificabile. In un segno, il significante è convenzionale e adeguato alla realtà che intende esprimere.
Più complesse dei segni sono le allegorie, che si possono intendere come degli insiemi di segni, delle figurazioni, intese a comunicare o un complesso di nozioni o un’idea astratta, difficile da cogliere in maniera semplice. Prendiamo il caso di una statua femminile che rappresenti, come avviene di fronte ai Tribunali, il concetto di Giustizia. Avremo dunque una vergine, che rappresenta un’idealità, un’idea pura, con degli emblemi, come la spada e la bilancia, che servono a specificarne i caratteri, cioè l’ equilibrio e il rigore. Da qui si può capire come, essenzialmente, l’allegoria sia la trasposizione di una o più idee in termini visivi – Coleridge aveva scritto: “L’allegoria non è che la traduzione di nozioni astratte in termini pittorici” - che però non aggiunge nulla (è importante) ad un contenuto che rimane conoscibile anche per altre vie.
Ciò che invece caratterizza il simbolo è il concentrarsi, in esso, di qualità che turbano e infrangono tali sistemi di corrispondenze, in fondo rassicuranti, e introducono ad un modo di pensare molto più misterioso. In primo luogo, un simbolo non indica un oggetto definito o rappresentabile: esso ha sempre a che fare con il non-sensibile, l’originario, con il totalizzante. Consideriamo per esempio dei simboli religioso-filosofici quali lo Yin-Yang del pensiero cinese, o il caduceo del Mercurio ermetico, con i suoi serpenti contrapposti, o ancora, nella mitologia orfica, il serpente arrotolato intorno all’ Uovo del Mondo, per capire quale sia il “raggio d’azione” del simbolo: qui quanto si vuole esprimere sono tensioni, dualità o processi ben al di là del quotidiano, e non si tratta né di astrazioni né di discorsi, quanto di realtà cosmologiche permanenti. Il simbolo dunque introduce (in modo molto differenziato) non ad un significato, ma ad un senso, ad un aspetto dell’ intelligibile, cioè ad un aspetto secondo il quale si “muove” la Realtà. Inoltre, lo fa in modi ambigui, perché se da una parte il contenuto – l ‘Oggetto significato – resta sempre indefinito, aperto, incompiuto, comunque irriducibile alle forme del pensiero discorsivo, dall’ altra parte il significante – la metà visibile, concreta del simbolo – si carica di enormi tensioni, filosofiche, psicologiche, affettive, inconsce. Diviene cioè non un semplice segno, ma un “punto d’appoggio” per l’intuizione.
Rispetto all’ allegoria – questo va sottolineato – il simbolo quindi non si traduce. La realtà cui allude va pensata a partire da esso, nelle idee che si generano e rigenerano dal suo enigmatico nucleo.
La comunicazione che nasce dal simbolismo autentico ha dunque una natura complessa e stratificata, quasi paradossale. Pensiamo alla suggestione che esercitano in noi alcune arcane immagini simboliche – il motivo del Labirinto, ad esempio, i due volti di Giano, o il terzo occhio di Shiva, o, per restare nel nostro ambito di indagine, la coppa di Jamshid (che somiglia al calice del Graal) – per vedere come i simboli creino un “lavorio” per il pensiero, lavorio che inquieta e stimola al tempo stesso, e lascia presagire un’apertura che non è mai “concettuale”.
Tre aspetti importanti di questo processo sono stati, a mio parere, evidenziati con grande bravura da uno studioso di simbolica dell’ età romantica: Friederich Creuzer, che era esperto di cultura greca ed amico di Hegel. Essenziali, nel simbolo, dice Creuzer, sono l’ immediatezza e l’ intensità, perché il simbolo veicola un’idea universale:
Immediatamente e in un istante si schiude nel simbolo un’idea, che afferra tutte le nostre forze spirituali. E’ un raggio che giunge direttamente dal fondo dell’ essere e del pensiero e attraversa l’intera nostra essenza.
Ma ugualmente importante è il suo linguaggio unitario:
Carattere essenziale del simbolismo, è che esso offre sempre qualcosa di unico, di indiviso. Ciò che l’intelletto, nel suo separare e riunire, mette insieme in serie continuativa come singoli tasselli, tutto questo quella maniera intuitiva offre interamente e in una volta sola.
Infine, il suo strano potere d’ attrazione:
E’ attraverso il potere di ripetere, che il simbolo colma indefinitamente la sua essenziale inadeguatezza.
Questa è una frase un po’ difficile, ma sottolinea l’incessante “suggerire” proprio al simbolo.
C’è una conseguenza quasi banale a queste considerazioni, che però, forse, non viene sempre sottolineata. Riguarda la comprensione, l’ermeneutica, poiché, se il linguaggio simbolico tende a infrangere il piano ordinario della comunicazione, anche la sua fruizione, nel mondo delle forme d’arte, dovrà avvenire ad un livello diverso, su un piano ulteriore della coscienza che spesso, infatti, si connota di valori sacrali.
Le citazioni, qui, possono andare dalla Grecia all’ Oriente. Per Platone, «l’armonia è stata data dalle Muse a chi è capace di usarla intellettualmente, per aiutare il giro interiore dell’ anima, metterlo in ordine e renderlo consono a sé stesso». Plotino ricorda che, per pensare per immagini, l' anima deve essere calma e pacificata, come uno specchio o una distesa d’acqua:
C’è lo specchio e si forma un’immagine: lo stesso accade nell’anima. Se quella parte di noi, in cui compaiono i riflessi della ragione e dell’intelligenza, non è agitata, tali riflessi sono in essa naturali. Ma se lo specchio è a pezzi a causa di un turbamento, la ragione e l’intelligenza agiscono senza riflettersi e si avrà allora un pensiero senza immagini.
Studiosi moderni, come Coomaraswamy, che è un teorico dell’ arte tradizionale e in particolare di quella indiana, assimilano la meditazione sui simboli al tema del sacrificio, in questo caso al sacrificio del nostro ego più esteriore. La comprensione è vista come qualcosa di delicato, di fortemente intimo – al contrario del valore “sociale” riconosciuto all’ allegoria.
Leggere veramente il simbolo è insomma visto, in tutto il mondo tradizionale, come qualcosa di difficile e di frammentario, e mai compiuto: ciò comporta l’andare al di là della adesione “sensoriale”, “estetizzante” all’ involucro (cioè, proprio all’immagine) per trovare una sorta di nascosta coerenza unitaria. In ultima analisi si tratta, come dice Borella, «di rompere con la coscienza ordinaria, che non percepisce, delle entità corporee, che la loro esteriorità separativa, per entrare nella relazione interna che li collega ai loro archetipi e vi conduce anche noi».
Conferme di ciò giungono da vari autori della letteratura persiana. C’è indubbiamente, accanto alle teorie retoriche che abbiamo citato, un filone che (anche se in epoca più tarda) privilegia nella poesia la dimensione della conoscenza, e nell’ ispirazione poetica la considerazione del dhawq, “gusto intimo” o intuizione delle realtà interiori. Tale corrente fiorisce soprattutto negli ambienti di Tabriz nel XIV secolo, attorno a poeti come Khamal Khwojandi, Maghribi e Qasim Anvar, ma in realtà non fa che esplicitare le tesi sostenute dal Golshan -e Raz di Shabestari, il quale si ricollegava ancora in precedenza, a figure come Rumi e Ruzbehan Baqli. Baqli, in particolare, considerava il dhawq strettamente legato all’ intossicazione mistica e alla visione poetica: con lui il termine, che fa parte del vocabolario tecnico del Sufismo fin da al-Qushayri, si amplia dalla definizione di una sorta di “presenza” alla percezione di una bellezza estetica dell’ Ignoto.
«E’ l’intuizione spirituale senza la quale – nota Leonard Lewihson – è impossibile la comprensione della poesia Sufi”. Shabestari la considera soprattutto come non-mentale e non codificabile:
sperimentato dal gusto intimo
nessuna interpretazione testuale lo rivela
ma non è certo il solo. Si ritrova qui, io credo, almeno una delle radici di un celebre “luogo letterario” della poesia persiana, il contrasto fra il Cuore e l’Intelletto, o fra Amore e Ragione, che è possibile incontrare in autori mistici e non mistici, da Sa’di a Sana’i e Rumi: esso va considerato primariamente in chiave conoscitiva. Così Rumi (Mawlana) scrive, in numerosissimi passi, versi del genere
Per quanto possa essere forma esterna e sensualità dinanzi ai comuni
e ancora:
L’ Amore dice: C’è una strada, l’ho percorsa tante volte!
L’ Intelletto ha scorto un mercato e ha iniziato i commerci
L’ Amore, oltre quel mercato, vede cento altri posti
A quest’ insieme di concetti già un po’ complicati si deve comunque aggiungere un aspetto ulteriore. In qualche modo, l’esperienza immaginativa all’opera in tale modo poetico finisce per intersecare un’altra idea basilare del pensiero orientale, e persiano in particolare. E’ un concetto più filosofico che poetico, che riguarda i “Gradi della Realtà”, gli “spessori”, cioè, con cui il Reale si presenta a noi. Diverse teorie ci dicono infatti che l’immaginazione ha a che fare con il “Mondo delle Forme immaginali”, con l’ alam al-mithal che precede il mondo fisico e ne è un po’ la matrice, quello che un geniale studioso francese, Henry Corbin, ha ribattezzato Mundus Imaginalis - una dimensione che è percepita come una realtà a sé stante.
Il tema, per maggiore chiarezza, va inquadrato in questo modo, anche se la mia sintesi potrà essere molto criticabile. Nella storia del pensiero occidentale, la riflessione filosofica ha teso a inquadrare il mondo, la Realtà, nei termini essenziali di un dualismo costitutivo. Lo ha fatto in modi e forme diversissimi – dalla sostanza / accidenti di Aristotele, alla res cogitans/ res extensa di Cartesio, al fenomeno/noumeno di Kant, ma con la costante di cogliere il rapporto fra una forma (sensibile, concreta) ed un ‘essenza (mentale o spirituale), mentre il mondo dell’ immaginario, della fantasia non trovava alcun posto e veniva svalutato come arbitrario e soggettivo.
Fra i pensatori iraniani, invece – e qui vanno ricordati soprattutto alcuni teorici sciiti – fra il mondo delle percezioni sensibili e il mondo dei significati ideali si estende una dimensione intermedia, che non è più quella dei sensi e non è ancora quella delle pure idee astratte: è un mondo dove penetrano il mistico e l’intuitivo, dove l’Intelletto superiore e l’anima trovano un loro linguaggio, e che serve ad orientare lo gnostico verso la sua origine.
Il Mundus Imaginalis —scrive Philippe Faure, un allievo di Corbin— è dunque quel «Luogo» non situabile, come in sospeso nello specchio dell’ anima, luogo epifanico delle immagini, in cui i corpi si fanno sottili, gli archetipi prendono forma e gli stati spirituali si spazializzano.
Ora, precisare i modi in cui l’intuizione prodotta dal simbolo - questo vettore anagogico dell’intuizione, come lo definisce Renè Alleau (un autore che raccomando caldamente di leggere) - “incrocia” il mondo immaginale, è un’impresa davvero ardua e, probabilmente, da iniziati ai misteri.
Resta il fatto, comunque, che i caratteri convenzionalmente riconosciuti alla dimensione immaginale – la calma tranquillità, l’assenza di contrasti, il morbido dispiegarsi delle forme – si ritrovano senza fatica in vari aspetti dell’arte iranica, dagli arabeschi floreali delle moschee, alle miniature di paesaggi ideali, alle descrizioni – anche – dei giardini primaverili.
3. Questi tre aspetti propri al simbolo, che ho cercato di illustrare – la sua natura “aperta”, il fatto che la sua interpretazione sia legata ad un’intuizione intima e più spesso estatica, il ruolo del Mundus imaginalis - ci rendono consci della difficoltà, ancora una volta, di penetrare i tanti sensi della lirica tradizionale e di situare veramente, al suo interno, il tema simbolico. E’ un quesito che, a mio avviso, si pone in modo anche più intrigante di quanto non sia il decifrare l’orientamento sensuale o mistico dei versi di Khayyam o di Hafez.
Al vecchio dilemma, in altre parole, se fra i poeti del periodo classico prevalgano i temi spirituali o quelli terreni, mi sembra sovrapporsi un diverso quesito: questi motivi ricorrenti e condivisi, questi temi archetipici, sono da considerare veri simboli o no - e chi li usa, lo fa in modo cosciente? Vi sono dei gradi di consapevolezza, negli scrittori? Si tratta per lo più di un gioco elegante, o di un’aspirazione non realizzata, oppure davvero sono le forme di una lingua esoterica, di un “linguaggio degli uccelli” tale da rappresentare, per l’anima, “eventi” di una valenza superiore?
E’ molto probabile che la questione, offerta in termini così generali, sia abbastanza mal posta. In tutta la storia del periodo classico - diciamo grosso modo dal XII al XIV secolo - esistono ambienti e contesti, scuole letterarie e influssi, e vicende personalissime di singoli autori. Esistono vette di ispirazione e creatività, e momenti di ripetizione: esistono poeti sicuramente sufi, poi degli imitatori, poi dei “simpatizzanti”, perciò, senza una seria considerazione dei contesti vicini ai vari autori, delle circostanze della loro vita, non si può procedere a un completo esame.
D’altra parte, è la stessa uniformità della lirica persiana, il suo ripetersi di stilemi, di valori linguistici, di figure che lascia la porta aperta all’ambiguità: un po’ come quando scopriamo che il mistico più limpido dell’ islam, al- Hallaj, usava nelle sue sedute i versi del “libertino” Abu Nuwas, o come quando leggiamo in Jami, che era il riconosciuto maestro di una confraternita, e giudicava gli altri santi:
nelle poesie, è in accordo pieno con le nostre dottrine.
Bisogna, allora, fare con molta pazienza quello che faceva Croce, quando distingueva pedantemente fra “poesia” e “non poesia”, fra brani che contenevano lo spirito poetico e brani che ne erano privi? Sinceramente, non lo so: non si può accettare tutto come simbolico e profondo, ma non si può nemmeno tracciare, su questa lirica nell’insieme, delle formulazioni globali. Quello che vorrei sottolineare, comunque, è la sensazione che a volte si parli di simbolismo in modi troppo generici, e che comunque poi, quando si va sui singoli autori, si tenda a privilegiare, come dire, un’interpretazione metaforica dei temi simbolici.
Parlando del simbolo, in precedenza, l’abbiamo distinto dall’ allegoria, dicendo che perlopiù quest’ultima si presenta come una trasposizione di idee astratte in linguaggio pittorico. Se la definizione, questa, è di Coleridge, l’idea della distinzione risale in prima istanza a Goethe, che chiamava il simbolo “intransitivo”.
Fondamentale è l’aspetto per cui, del simbolo, va cercato il senso in esso stesso, nella sua presenza immediata, mentre il significato dell’allegoria è al di fuori di essa, nel “programma concettuale che ha il compito di illustrare”.
Ora, quando in sede di commento, diciamo che il vino cantato da Hafez “simboleggia” il vino spirituale, che la taverna dei Magi rappresenta il convento cristiano o il ribat dei Sufi, che il superiore dei Magi può essere o la figura dell’iniziatore o Dio stesso – quando insomma andiamo in cerca di tipizzazioni – non stiamo facendo una semplice trasposizione di immagini in idee astratte, dandone una definizione unicamente mentale? Non stiamo cioè trattando un simbolo – se lo è – come una semplice allegoria?
A questo punto, e in modo molto soggettivo, provo a suggerire alcuni motivi nei quali credo si avverta la risonanza “sacrale” del Simbolo.
Ho parlato dell’ immediatezza, della vividezza con cui esso comunica a noi e, come ricorda Creuzer «afferra in un attimo tutte le nostre forze spirituali». Di certo, è il caso dell’analogia posta da Rumi, nel bellissimo inizio del suo Mathnawi, fra il suono lamentoso del flauto di canna e l’anima umana che soffre per la separazione:
come triste lamenta la separazione:
Ha fatto piangere uomini e donne il mio dolce suono!
Un cuore voglio, un cuore dilaniato dal distacco dall’ amico
Che possa spiegargli la passione del desiderio d’ Amore:
sempre ricorda il tempo in cui vi era unito.
Io in ogni assemblea ho pianto le mie note gementi
E tutti si illusero, ahimè, di essermi amici
E nessuno cercò nel mio cuore il segreto più profondo.
(trad. it. di Alessandro Bausani)
Così come l’immagine creata da Sohravardi, dell’ anima come un pavone splendido, reso cieco, imprigionato e immobilizzato dentro un sacco (avviene in un suo apologo) per tutta la sua vita, senza godere delle meraviglie del giardino in cui si trova:
Di sé, non vedeva che un involucro sporco e senza utilità, e osservava un luogo oltre modo oscuro e inadatto: ma infine si rassegnò, e nel cuore cominciò a fissarsi l’idea che la terra non potesse essere più vasta di quel fondo di cestino.
(trad. it. di Sergio Foti)
Ecco, queste due immagini giustamente celebrate ci investono con un’intensità che ha davvero, a mio parere, il richiamo dell’ Oltre: se siamo sensibili, ci risvegliano un poco alla nostra condizione esistenziale.
Ho prima anche accennato alla visuale unitaria, di una comprensione indivisa che il simbolo, con le sue virtualità, è in grado di richiamare. «Un simbolo rivela sempre, quale che ne sia il contesto - fa notare Mircea Eliade – l’unità fondamentale di più zone del reale». In questo senso la figura- motivo della Coppa, la Coppa di Jamshid, vista come il cuore dello gnostico ('arif) e considerata nel ricco insieme di implicazioni con la Perla, o nei legami ancora più sottili con le sfere celesti, va a mio avviso intesa come un vero simbolo, nella maggior parte dei casi, in quanto è in grado di suggerire rapporti di reale sintonia, di effettiva analogia fra diversi piani dell’ Essere. Allo stesso modo, mi sembrano ricche di allusioni simboliche alcune vicende o figure ricorrenti: l’apologo della falena e della candela cela, lo si capisce, la questione dei gradi della certezza come lo insegnano molti manuali del Sufismo, e Ahmad Ghazali ne dà una versione ancora più sottile, in cui allude ai misteri dell’ Identità («Quando la falena vi giunge, non è più lei che avanza verso la fiamma, ma è la fiamma che avanza dentro di lei…»), e poi ancora il tormentato e sempre riproposto duetto fra la rosa e l’usignolo, tanto famoso da essere rimasto, agli occhi della critica letteraria, la sigla e il paradigma di tutta l’ imagerie classica. Nelle sue riproposte più mature, per esempio nel testo del Bolbol–Name (Il libro dell'Usignuolo) tradotto da Carlo Saccone, questo paradigma sintetizza in modo sapiente lo schema della ricerca di Dio da parte dell’anima, convogliando in modo coerente le maggiori implicazioni su tanti piani diversi: mentre altre figurazioni di coppie che rappresentano l’amante e l’ Amato e che pure troviamo, come il re e il mendicante, il sultano Mahmud e lo schiavo Ayaz e altre, mi sembrano restare, più correttamente, sul piano della semplice metafora.
Di indubbio rilievo simbolico sono provviste alcune conosciute raffigurazioni geo-topografiche, presenti sia nei testi di filosofia che di poesia.
Un esempio sono gli schemi generali caratterizzati dal numero sette, che è possibile ritrovare sia nel Mantiq at-Tayr di Attar (le sette valli), che nelle Haft peykar Nezami, che nel racconto sui sette mari di Ghazali. Non solo hanno innegabili riferimenti micro e macrocosmici, quali realtà planetarie e livelli di coscienza, ma riproducono anche, forse inconsciamente, quella topografia di regioni orbitanti intorno al Centro spirituale che era propria della geographia imaginalis mazdea.
Altri aspetti: la Montagna di Qaf , luogo archetipo e ipostasi del centro, che proviene forse dai geografi arabi ma trova presto il suo ambito nella cultura persiana. E’ posta dai commentatori o sulla cinta esterna di tutto il nostro universo, o come chiave di volta dell’ultima Sfera celeste – è in ogni caso il luogo del passaggio al limite, dove l’uomo può sfuggire ai condizionamenti del sensibile. Quest’immagine, come quella della Na-Koja Abad, «la Terra del non-Dove», o dell’ Isola Verde, indicano non solo luoghi, ma anche dei tempi astratti, spiritualizzati - la loro meditazione ci insegna i limiti della nostra comprensione, e anche la necessità di volgere lo sguardo dentro di noi. Così hanno probabilmente la stessa funzione le immagini che fanno coincidere motivi opposti, come il vecchio-giovane o l’Angelo dalle ali oscura e luminosa, amate in particolare da Sohravardi, o altri motivi come il Simorgh.
E’ proprio la magnifica descrizione dell’ uccello regale Simorgh, della meta della comunità degli uccelli che affrontano il viaggio iniziatico nel Mantiq at-Tair , a costituire uno dei simboli più perfetti di questa letteratura, e fare del racconto uno dei capolavori della poesia mistica di ogni tempo. Il simbolismo si sposta qui dal piano della forma visiva a quello del linguaggio: ma il genio poetico di 'Attar utilizza questa forma (i trenta uccelli, si-morgh, che giungono annientati alla meta, vedono nel Simorgh le loro realtà essenziali, e Simorgh in essi stessi) per descrivere con una finezza impareggiata il mistero di questa conoscenza dell’ Unità nella dualità, e lasciare spazio a ogni profonda meditazione.
Qui, davvero, si sente il simbolo cercare di coprire la distanza fra l’espressione e l’Ignoto con il suo «potere di ripetizione».
Per quanto riguarda Hafez, vi è da riconoscere alla sua opera la solita, inestricabile difficoltà per il mescolarsi di convenzione, motivi-schermo e simbolismi, e anche per quella che Bürgel chiama «una volontà precisa di oscillazione» fra sacro e profano: ma certo alcune delle sue immagini e motivi, a volte, sembrano intesi a trasmettere realmente un aspetto dell’ Arcano. Dicevamo, come aveva fatto Bausani, del tema della Coppa e della Perla, e ce ne saranno di sicuro parecchi altri. Personalmente mi colpisce e mi fa pensare il l'uso in Hafez del motivo del neo sulla guancia, e anche l’immagine di Amore come “cerchio con un punto al Centro”, che sembra l’eco diretta di una pagina misteriosa della Vita Nova di Dante. (l’episodio del sogno in cui compare un giovane vestito di bianco, che lo ammonisce in latino: “Io sono come il Centro del Cerchio, e tu non sei che sulla circonferenza”, etc.).
Certo, però, tutte queste considerazioni andrebbero sviluppati entro discorsi analitici, ciascuno sui singoli autori.
In quest’ultima parte vorrei brevemente ritrovare insieme a voi, in alcuni degli scrittori trattati, dei cenni ai temi sui quali mi sono soffermato.
Abbiamo incontrato diverse volte il tema dei gradi della Realtà. Scrive Rumi nel suo Mathnawi: ( II, 3092-97 )
O Dio, rivela all’ anima quel luogo ove fiorisce il discorso senza parole: uno spazio immenso, ampio, aperto, del quale si nutre lo spazio di queste nostre fantasie, di quest’ essere. Il Regno della Fantasia è più stretto del Regno del Nulla, e per questo le fantasie sono causa di pena e di dolore. E ancora, l’esistenza reale è più angusto spazio di quello della fantasia, in quest’esistenza la luna piena di quello spazio diviene esile falce. E ancora, l’esistenza del mondo dei sensi e dei colori è più stretta, è una cupa angusta prigione!
e dice ancora il maestro di Konia ( IV, 2881 segg.)
La forma esteriore (naqsh) ha per fine una forma invisibile, e questa ha per fine un’altra forma ancora – secondo la vostra maturità. Ogni significato (ma’na) ne ha un altro sopra di sé, come i pioli di una scala.
Con altre parole, Maghribi fa proprio lo stesso concetto:
Questo corpo, questa guancia, il neo e la fossetta del mento
Possiede un altro corpo, e un altro tipo di guancia e neo
E mento.
Dalle labbra dell’ Oltre anima, per benedire Il cuore.
C’è un’altra sfera, e un sole nuovo
Nei paradisi del nostro cuore:
un'altra terra, e firmamento e Trono
e altre stelle e altri sistemi solari si mostrano.
un altro giorno il cuore tuo possiede –
e di là da questa notte che conosci e senti
un’altra notte il cuore può intuire
Di ascoltare, da ogni parte scopre suoni e avvisi:
e un’altra cavalcatura è mossa sulla via.
La tavoletta del destino e del fato.
A scuola dell’ amico, su di essa si legge:
“Il cuore ha un insegnamento diverso.
Ma abbiamo anche accennato ai temi dell’ ineffabilità, del mistero che avvolge comunque la comunicazione simbolica. Una bella immagine di Rumi è destinata a rimanere impressa a lungo:
Che verso la nostra piazza sia rotolando,
Chiedile, chiedile i segreti del cuore
E ti dirà il nostro mistero nascosto.
Ma è elegante anche la narrazione di Sa’di, nel Golestan (Il Roseto):
Un uomo saggio se ne stava un giorno con il capo chino in meditazione, mentre il suo spirito si perdeva nel mare della Rivelazione. Quando rinvenne uno dei suoi amici gli chiese per scherzo: «Da quel giardino in cui ti trovavi, qual dono della Grazia ci hai recato?». Rispose: “Mi ero ripromesso di colmare un lembo della mia veste di rose, allorché fossi giunto presso un cespo, per farvene dono. Quando però vi giunsi, il profumo di rosa mi rese ebbro, così il lembo mi sfuggiì di mano….
Una costante che troviamo nei poeti più maturi, e più versati nella conoscenza esoterica, è (anche per questo motivo), una coscienza molteplice del linguaggio, che permette loro di coglierne sia l’importanza e la preziosità che l’insufficienza, poiché è dallo spirito del lettore che devono scaturire le risposte, e le parole, le immagini, i simboli sono semplici tracce per indicare una direzione.
Due ultimi esempi, anche se molto diversi, a mio avviso possono illustrare l tema. Rumi, in un ode del Divan-e Shams, parla della tensione e dello slancio continui che l’ Amato richiede ai suoi devoti, e del suo continuo fuggire oltre le immagini e i discorsi:
Non c’è
Abbiamo cercato un compagno altro dal tuo Simbolo: non c’è.
Dicci qual è il cercar che tu vuoi,
che in questo modo cercammo, ma nulla trovammo: non c’è.
Un’ immagine come la tua di luna, o Tu senza immagine,
fino al settimo cielo l’abbiamo cercata: non c’è.
Anche avendo bevuto tutti i vini del mondo
Cercammo la feccia della passione vera: non c’è.
Degno d’essere cercato è il sigillo di Salomone
Molti anelli ci sono, ma quel sigillo non c’è.
L’immagine incisa in quel malioso sigillo
Tra gli idoli di Roma e Cina l’abbiam cercata: non c’è.
L’immagine di cui sto parlando, immagine santa,
era la forma del Creatore di tutte le forme: non c’è.
In quella forma soltanto si ottiene assoluta certezza:
fuori di essa cercammo certezza: non c’è.
Questa luce evidente che a tutti si mostra chiarissima
Nel manifesto e nel visibile l’abbiamo cercata: non c’è.
Dicono lo stesso, per me, le bellissime parole di 'Attar, al termine del Mantiq at-Tair: i realizzati, dopo mille pene e mille disavventure, sono giunti distrutti alla meta, ma invece di usare il linguaggio per celebrarli, il poeta si limita a chiudere con discrezione l’ “officina” del suo discorso:
Finchè gli uccelli procedevano lungo la via, avanzava con loro anche il mio racconto. Ma ora che sono giunti alla meta e di loro non è rimasta che una sola piuma, necessariamente devo tacere.
La guida e i viandanti sono svaniti nel nulla, trasformandosi nella polvere della Via.
Se posso dare una conclusione al mio discorso, vorrei esprimere quest’opinione. La piena percezione della dimensione simbolica, e dei suoi caratteri, deve servire ad una analisi sempre più attenta degli aspetti e delle sfumature della forma poetica persiana. Certo il linguaggio poetico-letterario va analizzato nelle sue categorie, e con gli strumenti anche di altre discipline: ma a queste dimensioni va aggiunta anche la profondità non- linguistica, il “gesto” allusivo che punta al contenuto il quale, va detto, è dinamico e per sé stesso “incompiuto”. In altre parole, è bene non dare per scontata, quando si analizza questo tipo di scrittura, l’espressione “simbolico”, perché il simbolismo è un mare profondo.
Il nostro è un viaggio testuale che va fatto, perché è la scrittura stessa che ce lo chiede: ma può anche darsi, poi, che il Sacro, che procede per paradossi ed è sempre un pò più in là, ci sorprenda al di là dei nostri tanti “distinguo”. Che ci ammonisca, in fondo, come fa anche Rumi in uno dei suoi più celebri ghazal:
L’ Amato è qui, tornate, tornate!
L’ Amato è un vostro vicino, vivete muro a muro:
che idea vi è venuta di vagare nel deserto d’ Arabia?
Da: Archivi di Studi Indo-Mediterranei IV (2014)