Elena Biagi | Alle radici del senso: attraversando il linguaggio della mistica islamica

  Se due fantasmi s’incontrano nel deserto,  si dividono la sabbia  o si contendono il monopolio della notte? (M. Darwish, Murale. VIII part...

 



Se due fantasmi s’incontrano nel deserto,
 si dividono la sabbia
 o si contendono il monopolio della notte?
(M. Darwish, Murale. VIII parte


Nella lingua araba uno dei termini con cui si significa il concetto di “idea” o “pensiero” è ḫāṭir. In particolare nel lessico del sufismo, o misticismo islamico, esso designa quel “pensiero fugace” che porta con sé un’ispirazione: al mistico spetta la capacità di osare, o meglio, “arrischiarsi” (da cui l’appartenenza di ḫāṭir allo stesso etimo di ḫaṭar, “rischio”) nel cogliere l’illuminazione sfuggente. Sulla scia della metafora suggerita dal poeta palestinese Mahmoud Darwish, citato in esergo, si articola l’interrogativo sul se e come la letteratura sufi possa “dividere la sabbia” con una traduzione o se, al contrario, il prototesto in arabo debba di necessità reclamare “il monopolio della notte”, contendendo lo spazio linguistico al metatesto in italiano.

Partendo da una riflessione sul rapporto tra esperienza mistica e linguaggio, si cercherà di evidenziare alcune modalità di traduzione di testi sufi dall’arabo all’italiano. Lungi dal proporsi nei termini di uno studio teorico sulle tecniche del processo traduttivo in sé, il presente contributo mira a coinvolgere il lettore in un percorso in cui si sperimentino le suggestioni e le difficoltà nell’incontro di due lingue, l’arabo e l’italiano. L’idea, qui proposta e discussa, di un incontro tra le lingue si contrappone dinamicamente all’immagine del «corpo a corpo tra due idiomi» con cui, nel suo saggio Tu non parlerai la mia lingua, Abdelfattah Kilito interpreta il processo traduttivo. Citando dal Kitāb al-ḥayawān (“Il libro degli animali”) di al-Ğāḥiẓ (VIII-IX sec. d.C.), l’autore così scrive: «Sappiamo che il traduttore, quando parla due lingue, fa un torto a entrambe, poiché ognuna di esse attira l’altra, da essa attinge e ad essa si oppone» (Kilito, 2010: 15, 60).

Per meglio comprendere le caratteristiche di questo percorso, è necessario conoscere alcuni tratti distintivi della lingua araba. Nel funzionamento proprio alle lingue semitiche, ogni parola deriva da una “radice”, per lo più triconsonantica, dalla quale, attraverso la variazione delle vocali e l’inserimento di morfemi, prendono forma diversi vocaboli, riconducibili al campo semantico del corpus radicale di partenza (Versteegh, 1997: 26). Il funzionamento della morfologia dell’arabo sta alla base del processo dell’ištiqāq, ossia di derivazione etimologica, intesa come “rottura” (šaqq) di una parola, per riportarla alle lettere radicali d’origine. L’ištiqāq rappresenta una componente essenziale del processo traduttivo dall’arabo, in particolare per i testi sufi: la parola araba, infatti, è intessuta di richiami e di suggestioni, nell’evocazione, più o meno diretta, che ogni termine intrattiene con la sua origine. Il vocabolo ḥarf, ad esempio, contiene in sè vari significati: “lettera”, ma anche “lama tagliente”e “margine, orlo, limite”. Suggestivamente, se ne può dedurre che la “lettera”, divenendo parola, tocchi l’essere, incidendo nella comunicazione con l’altro; allo stesso tempo, però, le lettere-parole segnano un limite, oltre il quale si trova l’indicibile (Biagi, 2010b: 55).

1Questa è di fatto l’esperienza del sufi nel momento in cui si confronta con il linguaggio: il tentativo di cogliere le potenzialità della parola, nella consapevolezza di trovarsi costantemente sul margine, il margine del sé, e di ciò che, della propria straordinaria esperienza, possa, o non possa, essere detto. La consapevolezza, dunque, che la parola è espressione ma anche “alterazione” del vissuto, come suggerisce il termine taḥrīf, derivato anch’esso dalla medesima radice di ḥarf. Possiamo dunque scrivere di un’esperienza mistica, e in secondo luogo tradurla, senza corromperne l’autenticità che nasce dal suo essere esperienza non solo intellettuale e spirituale, ma anche sensoriale?

L’approccio al linguaggio nella letteratura sufi rappresenta, a tutti gli effetti, il luogo ideale per una riflessione sul rapporto tra il soggetto e il suo farsi parola. In particolare nei primi secoli dell’Egira, prima che il sufismo si codificasse in percorsi istituzionali (le “confraternite” o ṭuruq), i testi dei mistici sono la chiara testimonianza di una rivoluzione del linguaggio. Dall’esegesi del testo sacro alla narrazione della propria esperienza individuale, il sufi è protagonista di un tentativo tutto umano di superare i confini del pensabile e del dicibile secondo le categorie del verbo coranico (Arkoun, 1982): di fatto, egli azzarda il “pensiero rischioso” di rivolgersi a Dio chiamandolo “Amato”, e come tale desiderarlo, celebrandone l’unione nell’ebbrezza dell’estasi o soffrendone la separazione nel patimento della Sua trascendenza.

Nel percorso sufi verso la parola, la lingua chiede allora di essere agita, nel senso di «positivamente agitata» (Mantovani, 2009: 75), rinnovata, manipolata. Ed è qui che il sufismo diviene esperienza di tensione, attrazione e conflitto con il linguaggio stesso, arrivando talvolta a produrre le famose šaṭaḥāt (o šaṭḥiyyāt), ossia le “locuzioni teopatiche” (Massignon, 1999) [1], a causa delle quali alcuni mistici suscitarono l’avversione dell’ortodossia. La lingua, che cerca nuove forme, si scontra con il consenso e il riconoscimento che deriva dall’uso tradizionale della stessa: AbūYazīd al-Bisṭāmī (m. 874) si diceva che “straparlasse” e al-Ḥusayn b. Manṣūr al-Ḥallāj (m. 922) fu accusato di eresia e crocifisso per aver proferito parole quali: «Io sono Colui che amo / e Colui che amo è me: / siamo due spiriti che abitano un solo corpo./ Se tu mi vedi, vedi Lui: / se tu vedi Lui, vedi Noi» (Massignon, 1931: 93).

Dalla lingua agita all’azione traduttiva: nuovamente, per mezzo dell’ištiqāq, l’arabo suggerisce una riflessione sull’essenza stessa del linguaggio e su quello “spazio vuoto” di intraducibilità che ogni lingua porta con sé. Il termine luġa, “lingua”, partecipa infatti dello stesso semantema radicale dei verbi “essere nullo” e “annullare”: la lingua, dunque, come implicito nel suo etimo, dice ed estingue, mantenendo in sé un margine di assenza, il che richiama a quella che il filosofo e poeta romeno Constantin Noica definisce la «parte d’oblio» insita in ogni parola (Anghelescu, 1993: 15).

Se nell’uso cultuale la lingua avvolge e seduce attraverso la pienezza della sua fonetica corposa, nel farsi strumento di narrazione identitaria il linguaggio rivela invece la sua im-perfezione. L’irriducibilità dell’essere alla parola richiama similmente alcune note riflessioni psicanalitiche in merito all’acquisizione del linguaggio: il posizionamento dell’individuo nell’Ordine Simbolico, o l’ordine dei segni, fa sì che il soggetto esperisca una sorta di frattura o alienazione, poiché, come testimoniano molte esperienze sufi, l’essere umano è «ultimately ungraspable […] and not reducible to the discursively constituted subject» (Ewing, 1997: 29).

Nonostante lo sviluppo di un “sufismo filosofico”, o taṣawwuf falsafī (Scattolin, 2008), abbia portato a diversi tentativi di “sistematizzazione” del pensiero mistico, l’esperienza sufi è innanzi tutto «un’esperienza religiosa, individuale per definizione» (Molè, 1992: 13). Questo imprescindibile legame con l’individualità è simbolicamente espresso dall’uso che i sufi fanno del termine “gusto” (ḏawq) per significare il taṣawwuf. In particolare nel genere poetico, anima e corpo, senso e sensi si intrecciano, fabbricando un immaginario vivido, un lessico tecnico e insieme allusivo, che, aggiunti alla dimensione estetica dell’arabo, ossia alla sua sonorità fisica, mettono alla prova chiunque cerchi di tradurne il significato reale e simbolico.

«I say that there is a poem only if a form of life transforms a form of language and if reciprocally a form of language transforms a form of life» (Meschonnic, 2011: 163). Parafrasando l’affermazione del poeta e linguista francese, si può ritenere che una poesia sufi è una forma di vita che esige una trasformazione del linguaggio, linguaggio che a sua volta intrattiene un rapporto di movimento con la poesia di cui è espressione.

Le riflessioni finora condotte hanno delineato, seppur parzialmente, lo spazio dentro il quale si articola l’esperienza traduttiva di testi del misticismo islamico; due ultime parole chiave ne dettagliano ulteriormente i confini. La prima, rūḥāniyya o “spiritualità”, condivide lo stesso etimo di rūḥ, “spirito”, ma anche di “soffio”, “vento”, “cammino erratico nella sera” e “profumo”: la spiritualità, dimensione privilegiata del sufismo, è dunque uno spazio (linguistico) avido di libertà e di movimento. La seconda riconduce ad un ištiqāq spesso menzionato nelle riflessioni etimologiche sull’arabo: dal “profumo”, in arabo ‘abīr, nasce ta‘bīr, “espressione”, ribadendo come la parola araba sia densa e inebriante, ma allo stesso tempo impalpabile e, dunque, teoricamente intraducibile. Non solo: nella lingua araba, l’appartenenza dei concetti di “esprimere” e di “attraversare” alla medesima radice etimologica (‘-b-r) suggerisce la peculiarità insita ad ogni processo traduttivo, ossia quel movimento dentro e verso la lingua che è necessario a dare voce al testo d’origine. L’espressione è attraversamento: la ricerca linguistica del sufi si riflette in un’analoga ricerca da parte del traduttore che, attraverso l’ištiqāq, mira a cogliere il senso originario della parola araba, svelando quelle relazioni sotterranee che intrecciano il significante alle molteplici suggestioni dei significati a cui esso rimanda.

Un’espressione ricorre frequentemente nelle poesie dei sufi, il cui immaginario privilegia l’elemento dell’acqua e i suoi derivati: anāmuḥīṭ, “io sono un oceano”. Il pronome personale soggetto anā, “io”, fa riferimento all’individualità del sufi che, nello stato di fanā’ o “annichilimento”, annienta il proprio sé egotico per “sussistere” (baqā’) in Dio. Inebriato dal fanā’, il mistico celebra lo stato d’estasi, che lo trasporta in una dimensione in cui l’io trasfigurato dall’incontro con il divino si amplifica, abbracciando l’universo oltre i confini spazio-temporali. A questo senso di “infinitudine” risponde la metafora dell’oceano, evocando nel lettore le idee di fluidità, movimento e sconfinatezza.

Eppure, attingendo allo spirito etimologizzante dell’arabo, ci si rende conto di come una traduzione letterale quale “io sono un oceano” tradisca, o quanto meno celi, la carica evocativa del termine scelto come predicato: “oceano”, muḥīṭ. La parola deriva infatti dal verbo aḥāṭa, che significa “circondare, abbracciare”, ma condivide anche la stessa radice di iḥāṭa, ossia “conoscenza intuitiva”; l’ištiqāq inoltre rivela che, dallo stesso etimo, nascono in arabo le parole ḥā’iṭ, “muro, parete”, e ḥawṭ, “limite, confine”. Consapevoli di tale ricchezza semantica, è allora possibile percepire la molteplicità di evocazioni suggerite dalla frase anāmuḥīṭ, che potrebbe essere parafrasata come “Solo divenendo un oceano che abbraccia la conoscenza, non ergerò muri che traccino divisioni e confini”.

Sfortunatamente, una parafrasi non è una traduzione, e viceversa. Tuttavia, qui interviene la produttiva tensione tra traduttore e testo, nella necessità di muoversi dalla “fedeltà” di una traduzione letterale verso una resa che rispetti la parola originaria, valorizzandone la ricchezza. Giungere ad una traduzione quale “sono un oceano aldilà di ogni confine” è solo una delle possibili, e del tutto parziali, soluzioni a questa tensione. Lo scarto che rimane tra le risorse, sottolineate, del prototesto, e la resa in italiano, di necessità “occultatrice”, è la testimonianza di come l’atto traduttivo sia in sé un’esperienza di continua ricerca, sia linguistica sia interiore.

Ritenuto il padre dell’esoterismo sufi, per l’attenzione dedicata alla ma‘rifa (“gnosi” o “conoscenza immediata”) di Dio, e fervido sostenitore del samā‘, o “concerto spirituale”, il mistico egiziano Ḏū ’l-Nūn al-Miṣrī (m. 859) cantò l’amore sufi anche per mezzo della poesia. Attraverso alcuni versi della prima strofa di un suo componimento poetico sarà possibile intuire quanto sottile e delicata sia l’opera del traduttore, di fronte alla celebrazione di un amore inafferrabile non solo per sua stessa natura, ma per le peculiarità della lingua in cui esso è espresso:

«Muoio, ma non muore il mio amore per Te […] / I miei desideri, i desideri, tutti i desideri: Tu sei per me Desiderio. /Tu sei Ricchezza, tutta la ricchezza, lì dove io non ho che avarizia. / Tu sei lo spazio della mia domanda ed il fine del mio desiderio. / Tu sei il luogo delle mie speranze ed il segreto dei miei segreti» [2].

Per comprendere il sentimento dello studioso che, impossibilitato a distogliere lo sguardo dal testo originale, sente l’inadeguatezza di una traduzione, si rivelano illuminanti le parole di Louis Massignon (Massignon, 2008: 167):

«Mi sembra che i primi mistici musulmani nei loro brevi poemi ci offrano documenti infinitamente più genuini, concernenti l’origine stessa del linguaggio, la sopravvivenza stessa di quel “pensiero dell’uomo che vale più dell’universo intero”, secondo l’aforisma di san Giovanni della Croce. La parola non è per loro la decalcomania di una figura, né il cadavere di un concetto, bensì allusione a una realtà spirituale recuperabile grazie a una regola di vita purificante».

Si torna così al concetto di “allusione” e al legame imprescindibile che la parola sufi intrattiene con la “realtà spirituale”, a sua volta legata ad una “regola di vita”. Ed è questo legame che rappresenta l’ostacolo maggiore per il traduttore, in quanto il testo sufi non è che la consegna di un «complesso emozionale […] sperimentato o piuttosto ‘subito’» (id.: 160), e come tale mai pienamente traducibile.

Nuovamente, però, attraversando il linguaggio per mezzo dell’ištiqāq, lo spazio linguistico dilata i propri confini, in primis agli occhi del traduttore stesso, a cui spetterà un secondo processo di traduzione. Vari sono i termini arabi che, nei versi sopra tradotti, si rendono malleabili a ll’ištiqāq. Nell’incipit «Muoio, ma non muore il mio amore per te», il termine“amore” traduce l’arabo ṣabāba, da ṣabb, “amare teneramente”, riferito al desiderio quando «ha in sé entrambi gli attributi della delicatezza e della forza» (Chebel, 2007: 56). Il primo significato di ṣabba è però quello di “versare, riversarsi”, di nuovo un verbo che richiama l’immaginario dell’acqua e dell’intensità del suo fluire torrenziale; modificando una sola vocale, si ottiene ṣubāba, “rimanente”, e “parte che resta a ricordo di qualcosa”. Si comprende allora come la scelta del termine ṣabāba riveli, probabilmente, il tentativo di evocare la metafora di un fiume in piena (ṣabb) e di ciò che rimane del suo riflusso. Inevitabile è l’accostamento alle parole con cui lo studioso Martin Lings definisce il sufismo (Lings 1999: 11):

«From time to time a Revelation ‘flows’ like a great tidal wave from the Ocean of Infinitude to the shores of our finite world; and Sufism is the vocation and the discipline and the science of plunging into the ebb of one of these waves and being drawn back to its Eternal and Infinite Source».

Il vocabolo d’amore scelto da Ḏū ’l-Nūn al-Miṣrī rimanda all’immagine di Lings, ricordando però (così sembra suggerire) che nel tuffarsi dell’io, richiamato alla sua sorgente infinita, rimane sempre una parte lasciata dalla risacca: forse, quel residuo di umanità, che separa inevitabilmente l’individuo dal Divino trascendente, ricordandogli la sua natura creaturale.

Il secondo termine, su cui si sofferma la presente riflessione, è «desiderio», munya, che appartiene alla stessa radice del verbo “mettere alla prova”, “soffrire”, “morire” e non da ultimo “odiare”. Il rimando del termine ad un suo doppio negativo suggerisce le intime divisioni ed angosce che il desiderio porta con sé. Anche qui risuona l’eco di quanto scrive la mistica Simone Weil a proposito del Pater, a cui allude laddove parla di «richiesta» (Weil, 2008: 88):

«Fare a meno di desiderare ci è impossibile; noi siamo desiderio. Ma se questo nostro desiderio che c’inchioda all’immaginario, al tempo e all’egoismo lo trasferiamo tutt’intero in quella richiesta, allora possiamo farne una leva che ci strappi […] fuori dalla prigione dell’io».

Consapevoli dell’azzardo, è possibile pensare che, in simili termini, Ḏū ’l-Nūn al-Miṣrī non solo identifichi il “desiderio” con la “sofferenza”, ma, nel verso «I miei desideri, i desideri, tutti i desideri: Tu sei per me Desiderio», intenda parlare di un unico desiderio che, dai molti che insidiano l’anima, diviene uno col Tu divino: solo se Dio è il “fine” unico dell’atto stesso del desiderare, l’io può liberarsi dei vincoli che lo legano all’effimero. È interessante notare inoltre come il termine raġba, anch’esso veicolante il significato di desiderio («il fine del mio nostalgico desiderare»), condivida la radice del verbo raġiba che, a secondo della preposizione che lo segue, assume sia il significato di “desiderare, anelare a” sia quello di “detestare”: il desiderio è dunque detto dal sufi nella sua complessa dinamica di sentimenti, quale tramite essenziale dell’amore e insieme frutto di sofferenza e di dolore.

Se il termine «domanda», su’l nel testo originale, non è meno ricco di evocazioni, nella sua appartenenza al concetto di “responsabilità” (mas’ūliyya), la riflessione conclusiva sarà condotta piuttosto sull’espressione «il segreto dei miei segreti», qui resa con la ripetizione del medesimo termine, là dove l’originale ne usa due differenti. Il primo di essi è maknūn, participio passivo qui sostantivato (“segreto” o “contenuto segreto”), dalla cui radice deriva anche kann, “rifugio”; il secondo è iḍmār, infinito sostantivato del verbo aḍmara, “celare, tenere segreto”, qui tradotto come sostantivo al plurale (“segreti”). Inevitabile l’associazione aḍamīr che, se nel lessico grammaticale significa “pronome personale”, ha più generalmente il senso di “cuore”, “mente” e “coscienza”. Il “pronome personale”, che identifica il soggetto, diventa allora dimora della “coscienza”, in cui “cuore” e “mente”, entrambi partecipi nel sufismo al processo di gnosi, custodiscono il “segreto”, altrimenti noto come sirr, ossia la realtà indicibile della propria esperienza di realizzazione spirituale.

Alla luce dell’attraversamento etimologico suggerito, non resta che lasciare al lettore il gusto di una rilettura più consapevole della portata evocativa dei versi in italiano; al traduttore, invece, l’intrigante compito di rendere onore, benché in modo inevitabilmente imperfetto, ai significati reconditi che le parole suggeriscono nella lingua originale:

«Muoio, ma non muore il mio fervido amore per Te […] / I miei desideri, i sofferti desideri, tutti i desideri: Tu sei per me Desiderio. /Tu sei Ricchezza, tutta la ricchezza, lì dove io non ho che avarizia. / Tu sei lo spazio della mia domanda e il fine del mio anelito nostalgico. / Tu sei il luogo delle mie speranze ed il segreto rifugio dei miei più intimi segreti».

Un ultimo esempio è tratto da una poesia del noto Ğalāl al-Dīn al-Rūmī (m. 1273), poeta mistico di origine persiana. «Ti ho trovato nel mio cuore e, da allora, attorno ad esso ruoto con la mia sacra danza». Ogni parola di questo verso è fortemente evocativa nel linguaggio arabo e mistico in particolare. Da wağada (“trovare”) l’arabo deriva wağd, termine usato per denominare l’estasi sufi, ma anche wuğūd, “esistenza”, e īğād, “creazione, scoperta”. Esistere è dunque “essere trovato dall’altro”; in aggiunta, il ritrovamento di Dio coincide con l’atto stesso dell’esistere, inteso quale “nuova creazione” o “scoperta di sé”. Il luogo della rinascita è il cuore, qalb, termine la cui radice rimanda all’idea di un continuo cambiamento interiore. Il verso acquisisce, infine, una sorta di aura sacrale attraverso il ricorso del poeta al verbo aṭūfu (qui reso con “ruoto con la mia sacra danza”),verbo che richiama alla mente il rituale del ṭawāf, o “circumambulazione” della Ka‘ba durante il pellegrinaggio alla Mecca. Danza del sufi e rito del pellegrino si combinano allora a dipingere il quadro del mistico ebbro della presenza divina, che volteggia leggero attorno al luogo della sua nascita e del suo ritorno: il cuore.

«Siamo ospiti della lingua», ricorda Kilito. E, forse a ragione, chiunque si arrischi a tradurre un testo sufi dall’arabo non potrà che sentirsi un «ospite pervicace e bisbetico che entra nel malcapitato senza permesso, abitandolo e impossessandosi di lui a sua insaputa» (Kilito, 2002: 131). Qui, il “malcapitato” è il sufi, o meglio, il suo testo. E ci risulta difficile non dare ragione ad al-Ğāḥiẓ, prolifico scrittore a cavallo tra l’VIII ed il IX sec. d.C., quando afferma che «la poesia non può e non deve essere tradotta. Quando viene tradotta, infatti, l’armonia si rompe, il metro si perde, la bellezza svanisce e tace per sempre il meraviglioso che è in essa» (id.: 61). Tuttavia, attingendo al sentimento delle radici, che animò le opere di grammatici del calibro di al-Khalīl (m. 786) e di IbnJinnī (m. 1002), si può cercare una via di incontro con una lingua che, altrimenti, è condannata ad essere, come il suo uso cultuale suggerisce, “inimitabile” e, come tale, forse, intraducibile. Quindi, parafrasando Emilio Varrà (Sfar, 2007: 157) [3],

«se non si può davvero aderire [attraverso il linguaggio, N.d.R.] al flusso organico del reale, che si conservi almeno il senso di una continua mobilità, di un procedere per aggiustamenti successivi, in cui quel che conta è il processo, non certo il risultato. Proprio come la vita».

Spetta allora al traduttore il compito di attraversare il testo, suggerendo delle tracce interpretative, che non definiscano la parola poetica di per sè indefinibile, ma abbozzino lo schizzo di un disegno, il tratto di un’immagine, la sfumatura di un colore, rispettando la peculiarità propria insieme del genere poetico e della lingua araba: «fare il solletico» al mondo (ibid.) senza avere la pretesa di definirlo.


Note

[1] Sul termine coniato da Massignon e la sua definizione, si vedaL. Massignon (Massignon, 2008: 142): “Lošaṭḥ, ovvero il decentramento mentale del soggetto, che registra lo scambio dell’io umano con l’io divino”.

[2]  Per il testo originale in arabo si veda G.Scattolin e A. Anwar (Scattolin, Anwar, 2008: 131).

[3] Nella sua postfazione alla graphic novel Il gatto del rabbino del giovane sefardita Joann Sfar, Emilo Varrà, seguendo lo spirito interrogante della miglior tradizione ebraica, riflette sul ruolo del linguaggio e del segno, arrivando all’eloquente affermazione «l’apparizione della Parola coincide con quella della Morte», ossia «ogni segno, sia esso il tratto di un pennino o l’uso di una certa frase, è un allontanamento dal proprio stesso obiettivo, perché riduce l’apertura del reale. Da una parte c’è il linguaggio, dall’altra la vita. Ogni tentativo di catturarla è una condanna al fallimento» (Sfar, 2007: 157). Si è ritenuto opportuno soffermarci su queste affermazioni, perché le riflessioni dell’autore si sono rivelate illuminanti alla stesura del presente contributo.

       

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Da: Dialoghi Mediterranei, n.27, settembre 2017


ELENA BIAGI, laureata in Lingue e Letterature Orientali presso l’Università “Ca’ Foscari” di Venezia,  ha vissuto dieci anni in Egitto, dove ha conseguito il Master in Arabic Studies presso l’American University in Cairo. É docente di Lingua Araba per il Corso di Laurea Triennale in Mediazione Linguistica e Culturale e per il Corso di Laurea Magistrale in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale presso l’Università degli Studi di Milano. Dal gennaio 2016 collabora anche con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, quale membro del Consiglio Direttivo e Docente Formatore per il Master di I livello “Fonti, storia, istituzioni e norme dei tre monoteismi. Ebraismo, Cristianesimo e Islam”.

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