Andrea Pasquino | Rumi ed Elif Shafak: Letteratura sufi e sufismo in letteratura

Il presente capitolo si propone un tema che per essere trattato a fondo richiederebbe  una  grande  quantità  di  tomi.  Non  potendo  all’i...




Il presente capitolo si propone un tema che per essere trattato a fondo richiederebbe  una  grande  quantità  di  tomi.  Non  potendo  all’interno  di questo formato assolvere a questa richiesta cercheremo ugualmente per sommi capi di suggerire alcune domande o meglio accendere il desiderio nel lettore di una ulteriore ricerca.

Occorre innanzitutto offrire qualche nota biografica e bibliografica intorno ai due autori distanti all’incirca otto secoli; a esser precisi Rumi muore settecento anni prima della nascita di Elif Shafak.

Secondo il parere unanime degli studiosi, sia orientali che occidentali, Gialaluddin Rumi è il più grande poeta mistico di tutti i tempi. Per il mon- do musulmano Rumi rappresenta ciò che per il mondo occidentale sono Shakespeare, Omero e Dante. Si dice che ai suoi funerali fu presente l’inte- ra popolazione di Konya, non solo musulmani ma anche cristiani ed ebrei in riconoscimento dell’immenso spirito di tolleranza del maestro. Erudito, poeta mistico, e santo riconosciuto da più di un miliardo di islamici.

Come tutti i mistici, Rumi non prestava molta attenzione ai dati storici della sua vita ma ne accennava per sommi capi. Nacque a Balkh (oggi in Afganistan) il 30 settembre del 1207. Quando il padre, anche egli maestro mistico, cadde in disgrazia del principe di Balkh, tutta la famiglia emigrò a Nishapur, e infine, dopo ulteriori erranze, raggiunse Konya in Anatolia. Alla morte del padre nel 1231 il giovane Rumi ne proseguì l’opera come mistico e poeta, fino alla morte avvenuta nel 1273. Tranne bre- vi permanenze ad Aleppo o Damasco, il poeta visse sempre a Konya sotto la protezione dei principi selgiuchidi.

Due furono gli eventi principali nella vita di Rumi corrispondenti a due incontri singolari; l’incontro con Ibn al-’Arabi che dalla nativa Spagna si era trasferito a Damasco dove morì nel 1249. Se l’incontro di Rumi con il mistico andaluso fu importante per immettere nella propria poesia le astrazioni  teologiche  di  quest’ultimo,  ben  più  importante  fu  l’incontro esistenziale con Shams-i Tabriz.

L’incontro con Shams fu sconvolgente ed è un esempio classico della relazione maestro-discepolo. Come in altre tradizioni orientali (ad esem- pio il rapporto tra Naropa e il suo maestro Tilopa, nella tradizione tibetana) il maestro si presenta come un invasato folle di Dio. L’incontro tra Rumi e Shams che sarebbe avvenuto nel 1244, tre anni prima della misteriosa scomparsa di Shams, si instaurò sin dal principio come la perfetta epitome del rapporto maestro-discepolo. Una intensissima relazione che supera per intensità ogni altra relazione di amore o di amicizia, fino alla fusione delle due identità in una identità unica.

La leggenda narra che Shams e Rumi passassero giorni e notti di se- guito rinchiusi nella biblioteca del poeta imponendo ai familiari il divieto assoluto di disturbarli. Questa intimità così stretta generò sgomento e gelosia tra i discepoli e i familiari, al punto che (è questa l’ipotesi abbracciata dalla Shafak) uno dei figli del poeta commissionò a uno o più assassini l’uccisione di Shams. Secondo un’altra tradizione, invece, Shams morì di morte violenta durante un tumulto. Qualunque ipotesi si accetti, una cosa è certa: la morte di Shams diede alla poesia di Rumi quella nota fervente di nostal- gia. Nostalgia del Sole, nostalgia dell’Amato, nostalgia del volto di Dio.

Dal punto di vista strettamente letterario l’opera di Rumi è espressa essenzialmente in due grandi libri: il Masnavì e il Diwan (o Canzoniere). Il Masnavì è un grande poema di 26.000 distici in rima baciata, descritto dai suoi entusiastici ammiratori come il secondo Corano. Il lungo poema, al pari del Corano, non segue uno sviluppo narrativo lineare ma è una conti- nua accensione di aneddoti, parabole, narrazioni che ne rinchiudono altre in un gioco infinito di rimandi.

Il Diwan invece è un vastissimo canzoniere in cui risuona l’eterna in- vocazione d’amore.

   Non si creda comunque che il tema della nostalgia sia assente nel Masnavì. A riprova di ciò citiamo semplicemente il proemio dell’opera nella traduzione italiana di Gabriele Mandel.

Ascolta questo ney che si lamenta; esso narra la storia della separazione.
Dice: «Da quando mi han tagliato dal canneto, il mio lamento fa gemere l’uomo e la donna.
«Cerco un cuore straziato dalla separazione per versarvi il dolore del de- siderio.
«Colui che è lontano dalla propria fonte aspira all’istante in cui le sarà di nuovo unito». (M, 65)

Il ney è nella tradizione della musica araba il flauto d’amore che canta il dolce lamento della separazione. Separazione che è all’origine della sua musica, ma che è nella sua stessa natura. Il flauto infatti canta perenne- mente la nostalgia di quando era soltanto una canna. Per cui il tema teologico della separazione da Dio che è la base e l’ossatura del Masnavì equi- vale al tema lirico della separazione dall’Amato.

È questo il tema che verrà specialmente messo in luce ed evidenza nel romanzo di Elif Shafak. È singolarissimo infatti che una giovane scrittrice turca (quando Elif Shafak terminò di scrivere il romanzo che tratta di Rumi e Shams aveva poco più di 35 anni) cresciuta con una educazione occidentale, laica e battagliera nel campo della difesa dei diritti delle donne, si sia appassionata a un tema squisitamente mistico come quello della relazione tra Shams e Rumi.

La singolarità del romanzo scritto originariamente in inglese con il titolo The Forty Rules of Love è quella di riallacciarsi alle vicende religiose della Turchia selgiuchide, e nello stesso tempo di illuminare problemi scottanti della Turchia contemporanea.

Sappiamo che nel 1922 sotto la tirannia illuminata di Ataturk si operò una vistosa cesura tra il passato turco e la sua modernità. Al sultanato si sostituì la repubblica; l’alfabeto arabo venne sostituito da quello europeo; gli ordini religiosi dissolti e proclamata la costituzione laica. In questo panorama di luminosa democrazia non mancavano però molte ombre.

Il genocidio armeno (stimato attorno ai 2 milioni di vittime) venne rimosso o negato. All’effettiva affermazione dei diritti giuridici delle donne (ricordiamo che il voto alle donne in Turchia precedette di molti decenni la normativa di parecchi paesi europei) non corrispondeva la situazione privata  all’interno  delle  famiglie  tradizionali;  in  altre  parole  alle  donne libere nelle classi alte e metropolitane, si opponeva una grande massa di donne subalterne nelle famiglie delle classi povere.

Per certi versi la situazione della Turchia non si discosta da ciò che vediamo in molti paesi del Medio Oriente: una burocrazia al potere di radice nazionalista e vagamente socialista in certi stati e in certi periodi; una opposizione di sinistra fragile e spesso perseguitata e infine un fermento popolare islamico che si manifesta con varie sigle (F.I.S., Fratelli Musulmani, Hezbollah, Hamas, pasdaràn, ecc.) e che negli ultimi anni ha acquistato un peso notevole e ha prodotto partiti di governo come nel caso dell’Egitto e della già citata Turchia.

Su tutte queste questioni Elif Shafak prende posizione con grande coraggio personale e originalità di argomentazione. Sulla questione armena scrive il romanzo La bastarda di Istanbul che le vale un processo per «offesa dell’identità turca» in cui rischia di essere condannata. Sulla questione del partito islamico al potere nel suo paese in diverse interviste concesse a giornalisti europei o americani polverizza tutti i clichés che vogliono ap- porre al paese o a lei stessa. Afferma (cosa ormai risaputa) che la crescita della Turchia è superiore a quella di tutti i paesi occidentali compresi la Germania e gli Usa, conferma la presenza di una intellighentsia combattiva e partecipe anche tra donne di fede islamica e nel suo ultimo romanzo Latte nero tratta del difficile rapporto tra maternità e scrittura.

Sorge ora spontanea la domanda su cosa possa spingere una giovane donna di questo genere a interrogarsi sulla vicenda mistica di più di settecento anni fa. Elif Shafak è un esempio vivente della distinzione tra religione e religiosità; nel senso che senza aderire a nessuna ortodossia è però capace di comprendere l’essenza d’amore e le possibilità di trasformazione umana contenute nella predicazione e nella poesia di Rumi. L’idea implicita che si recepisce leggendo il romanzo Le quaranta porte è che nella pratica moderna del sufismo sia contenuta la possibilità di una trasformazione personale in coincidenza con una trasformazione sociale: in altre parole la pratica sufi, oggi come mille anni fa creerebbe migliori uomini e donne e migliori cittadini.

A questo proposito la Shafak inserisce il suo racconto, ambientato nel medioevo selgiuchide in un contesto contemporaneo. La cornice modernizzata del racconto è costituita dalla vicenda di una quarantenne americana, in malinconia da tardo matrimonio, che leggendo un romanzo (il doppio romanzesco del romanzo che noi leggiamo) si incuriosisce del suo autore, lo incontra su Internet e poi, come da copione, se ne innamora.

Il romanzo all’interno del romanzo ha il titolo La dolce eresia e si sup- pone che narri all’incirca le stesse vicende narrate nel romanzo Le quaranta porte, per lo meno nella sua parte medievale. L’equilibrio tra queste due parti, il romanzo e il romanzo nel romanzo, crea una sottile dialettica, che propone l’idea che i maestri sufi del 1200 e il maestro sufi del 2008, illustrino un’unica ed eterna visione, che poi non è altro che la realizzazione della piena umanità.

A chiudere l’anello delle due narrazioni romanzesche è la città di Konya dove Rumi è sepolto e dove sarà sepolto Aziz il maestro sufi romanzesco che Ella raggiunge abbandonando il marito e i figli per accompagnarlo negli ultimi brevi mesi della sua vita. Quando due giorni dopo la morte di Aziz, parlando al telefono con Jeannette, Ella risponde alla domanda della amata figlia ribadendo che non tornerà in America ma che pensa di trasferirsi ad Amsterdam, sottolinea la sua scelta con la citazione della quarantesima regola dell’amore.

«Quali regole, mamma? Cosa stai dicendo?».

Ella si avvicinò alla finestra e guardò il cielo dove si era diffuso un im- pressionante color indaco. Vorticava ad una velocità impressionante ed invi- sibile, dissolvendosi nel nulla e lì incontrando infinite possibilità, come un derviscio rotante.

«È la quarantesima regola» disse lentamente. «Una vita senza amore è una vita senza importanza. Non chiederti di quale tipo di amore andare in cerca, spirituale o materiale, divino o mondano, orientale o occidentale […] le divi- sioni portano solo ad altre divisioni. L’amore non ha etichette né definizioni. È quello che è, puro e semplice». (QP, 439-440)

Quello di Elif Shafak è certamente un romanzo, ma rispecchia tuttavia nell’essenza e nella filologia l’opera di Rumi. Ecco in una delle sue poesia tratta dal Canzoniere la riaffermazione della potenza dell’amore.

Felice il momento, quando sediamo, io e te, nel palazzo, 
due figure, due forme ma un’anima sola, tu e io.

L’acqua di vita darà immortale gioia all’Eden e al canto degli uccelli, 
quando insieme incederemo nel giardino, tu e io!
Le stelle del firmamento scenderanno a guardarci
e la nostra splendida Luna mostreremo a loro, tu e io! 
Tu e io senza più tu né io ci uniremo nell’estasi,
lieti e felici e liberi dalle vane parole, tu e io!
E gli uccelli celesti s’addolciranno di zucchero il becco 
nel luogo ove noi così a gioia rideremo tu e io! (PM, 138)

Un’altra poesia di Ibn al-’Arabi ci offre lo spunto per meglio chiarire il concetto della poetica di Rumi che nasce da un’analoga visione mistica dell’amore.

Mentre l’occhio del sole governa la mia vista, 
L’amore siede come un sultano nella mia anima. 
Il suo esercito si è accampato nel mio cuore 
– Passione e struggimento, afflizione e pena.
Quando il suo accampamento prese possesso di me 
Gridai come se la fiamma del desiderio
Ardesse nelle mie viscere.
(TADDA, 45)

Sappiamo che Ibn al-’Arabi è il creatore di una mistica erotica in cui la vicenda dell’amore umano e quella dell’amore divino sono indistinguibili. Allo stesso modo Rumi che dal più anziano poeta assunse alcuni elementi della sua estetica della teoria amorosa, nella precedente poesia parla indi- scutibilmente dell’amore per il maestro Shams, ma non vi è alcuna distin- zione tra questo amore per il maestro vivente e l’amore per Dio.

Che i due poeti, il Persiano e l’Andaluso, evocassero la stessa visio- ne dell’amore, non è stupefacente, in ragione anche della loro prossimità estetica e cronologica.

È ben più singolare invece che Elif Shafak, una giovane donna laica cresciuta all’occidentale, riesca a compenetrarsi dell’emozione dell’incontro tra due mistici da poterlo persino descrivere attraverso gli occhi di un terzo, Kerra, la moglie di Rumi.

Ecco come la Shafak descrive lo sgomento che prende Kerra nel vedere il marito sempre più involto in una relazione che lo allontana da lei e dai figli:

All’inizio avevo creduto che si sarebbero annoiati presto l’uno dell’altro, ma non è stato affatto così. Semmai si sono affezionati di più. Quando stanno insieme, o sono stranamente silenziosi oppure parlano con un mormorio incessante, inframmezzato da scrosci di risa, tanto che mi domando come riescano a non restare mai senza parole.

Dopo ogni conversazione con Shams, Rumi appare trasformato, distacca- to e assorto, come intossicato di una sostanza di cui io non riesco a sentire il sapore, anzi che non riesco neanche a vedere.

 Il legame che li unisce è un nido solo per due, non c’è spazio per una terza persona. Annuiscono, si sorridono, ridacchiano o si incupiscono allo stesso modo e nello stesso momento, e tra una frase e l’altra si scambiano lunghi sguardi densi di significato. (QP, 229)

Non è difficile accorgersi che l’immagine un nido solo per due anche se è un’immagine evocata da Kerra non è altro che l’immagine della precedentemente citata poesia di Rumi. L’arte della Shafak è talmente sottile da costruire i dialoghi e i pensieri dei personaggi del romanzo introducendo senza citarle frammenti delle poesie di Rumi, e offrendo così al lettore quella sensazione perturbante di essere addentro all’anima dei personaggi. La verifica di ciò sta nel fatto che la parte moderna del romanzo, costruita semplicemente su stilemi contemporanei ha molto meno forza.

Un altro aspetto del romanzo in cui rifulge la dolce eresia di Elif Sha- fak è il fatto che ella dà luce e vita ai personaggi femminili, illuminandoli dall’interno anche nei loro dubbi e nelle loro disperazioni. Kerra, la cri- stiana moglie di Rumi, pur convertita all’Islam, nei momenti peggiori della sua gelosia ha un’immensa nostalgia di Maria, madre, sorella e figlia, consolatrice che non ha alcun analogo femminile nell’Islam. Kimya la giovane donna che Rumi dà in sposa a Shams successivamente ripudiata, è ritratta pienamente nella sua disperazione d’amore. Mentre Rosa del Deserto, la prostituta divenuta mistica anacoreta, conserva intatta la pienezza e la saggezza del suo essere femminile.

In altre parole Elif Shafak non ha rinunciato a trattare dell’altra metà del cielo, in un romanzo che, scritto con altra mano, avrebbe potuto essere una storia puramente maschile, come certi film di marinai, di gangsters o di cowboys. Inoltre nella narrazione che fa da cornice, è la moglie americana, Ella, a essere il personaggio centrale, con le sue ansie, la sua fragilità ma anche la sua forza; capace di abbandonare tutto, situazione sociale, sicurezza economica e famiglia per seguire il suo sogno d’amore. 

Taluni lettori hanno rimproverato alla Shafak la stesura di questa cor- nice «modernista» che ridurrebbe la dottrina sufi a una accozzaglia di consigli new-age. In realtà la scrittrice non opera nessuna riattualizzazione del messaggio di Rumi ma semplicemente ne evidenzia gli aspetti che possano illuminare i conflitti della nostra modernità.

L’apertura di Rumi all’insieme di tutta l’umanità, al di là di ogni moralismo e di ogni integralismo, è ciò che affascina la Shafak. Come ella stessa afferma in alcune interviste, sin dall’ultimo anno dell’università, lei, studentessa laica era rimasta fortemente affascinata da questo messaggio di amore illimitato e di sublimità poetica.   

Nella seguente breve poesia Rumi nega il letteralismo e afferma l’at- tenzione allo spirito e all’essenza.

Se è nel tempio pagano l’immagine dell’Amato, 
È vero errore ambulare alla Ka’ba.
E se la Ka’ba non ha il suo profumo, è sinagoga.
E col profumo della sua Unione, la sinagoga è la nostra Ka’ba. (TADDA, 84)

Se in questa poesia l’universalità è assunta come capacità di andare al di là delle barriere religiose, nella poesia successiva l’universalità va oltre non soltanto alle divisioni religiose, ma anche a quelle geografiche e culturali.

Che consigliate, o musulmani? Giacché io non mi conosco: 
Non cristiano né ebreo son io, non mazdeo né musulmano, 
Non orientale sono, né occidentale, non terrestre né marino, 
Non da cave di natura provengo, né dalle stelle del firmamento, 
Non di polvere né di acqua, non di vento né di fuoco,
Non dall’Empireo né dalla Terra, non dall’Essere né dall’Essenza, 
Non son d’India né di Cina, non di Bulghar né di Saqsin,
Non del regno dei due Iraq, né dalla polvere di Khorasan
Non di questo mondo né del suo retro, non di Paradiso né di Inferno, 
Non da Adamo, né da Eva, non da paradisiaci giardini. (TADDA, 85)

Questa dimensione è quella che specificatamente affascina Elif Shafak: una dimensione di universalità, per cui la modifica del proprio essere in- dividuale diventa una forza che modifica la società.

Pur non essendo una scrittrice a tesi, e neppure una teorica della politica, la Shafak ricerca, nel suo modo che è essenzialmente narrativo, delle soluzioni adatte non solo al singolo ma anche alla collettività. Pur scrivendo di emozioni la sua letteratura non è mai lontana da un progetto e i suoi contenuti impliciti sono anche politici, nel senso più profondo.

La Safak, nata nel 1971 a Strasburgo, cresce in un ambiente occidentale, frequenta studi universitari di sociologia e come altre donne della borghesia colta mediorientale, come ad esempio Marjane Satrapi, vive in un mondo percepito sin dalla prima adolescenza come un mondo di conflitti e tensioni. Se la Satrapi nei primi anni ottanta vive l’angoscia della guerra con l’Iraq e del regime dei pasdaràn, la Shafak in quello stesso periodo vive un ennesimo colpo di stato dei generali turchi e il terrorismo dei Lupi grigi connesso all’assassinio di amici di famiglia.

In un paese dove la questione del genocidio armeno è un tabù infrangibile, scrive La bastarda di Istanbul, romanzo in cui il genocidio è apertamente mostrato.

Come ebbe a dire in una intervista, il problema degli Armeni è l’inca- pacità di dimenticare e quello dei Turchi la volontà di non ricordare. Nelle parole della Shafak gli Armeni ricordano troppo, mentre i Turchi dimenticano troppo. All’interno del romanzo la via d’uscita da questa contraddizione è mostrata nel dialogo tra due giovanissime, una armena e l’altra turca, che si incontrano su Internet e si incontreranno poi in carne e ossa a Istanbul. Anche in questo caso le emozioni sono singole, ma il dialogo di due individualità prospetta una soluzione collettiva. 

In questo senso il romanzo Le quaranta porte da un lato narra la vicenda di due singolarità amanti, Shams e Rumi, ma dall’altro propone un messaggio di tolleranza che è universale e implicitamente politico. In una Turchia in forte espansione economica e contemporaneamente di crescita di potere strategico in tutta l’area mediorientale, la presenza di posizioni come quella della Shafak potrebbero essere una garanzia contro il rischio di derive integraliste o autoritarie.


Riferimenti Bibliografici

W. Chittick, The Sufi Path of Love, Albany, NY, State University of New York Press, 1983.
E. de Vitray Meyerovitch, Rumi et le soufisme, Paris, Seuil, 1977.
(= TADDA) B. Lewis (a cura di), Ti amo di due amori, Roma, Donzelli, 2003.
(= PM) Rumi, Poesie mistiche, Milano, Rizzoli, 2001. 
(= M ) Rumi, Mathnawi, Milano, Bompiani, 2006.
E. Shafak, La bastarda di Istanbul, Milano, Rizzoli, 2007.
E. Shafak, Le quaranta porte, Milano, Rizzoli, 2009.
E. Turkmen, The Essence of Rumi’s Masnevi, Konya, Rumi Publishing House, 2007.


Da: Culture del Mediterraneo. Radici, contatti, dinamiche. A cura di Elisabetta Fazzini (Milano, LED, 2014), pp. 147-155. 


ANDREA PASQUINO, milanese, ha insegnato Letteratura francese in diversi atenei (Nizza e Montpellier, in Francia; Milano, Trieste e Pescara, in  Italia). Nel 1980 pubblica, presso Bulzoni, I Cahiers di Paul Valéry, una  scienza in forma di metafora, primo lavoro italiano sui Cahiers valeristi.  Ha pubblicato diversi saggi su temi di frontiera tra scienza e letteratura.  Come semplice «appassionato», a partire dai suoi interessi per il buddismo  giapponese, si è occupato di studi orientali. Ha in preparazione un volume sul gioco del Go (Wei-chi in cinese), antichissimo gioco estremo-orientale, con ampie connessioni letterarie e culturali.

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