Rodolfo Di Biasio | Poesie 1960-2017
da: Tre canti per Mosè (1960) CANTO PRIMO: IL LAMENTO Non ditemi: il canto del gallo galoppa tra le dune. Non ditemi: Venere ha bruciato lo ...
da: Tre canti per Mosè (1960)
CANTO PRIMO: IL LAMENTO
galoppa tra le dune.
Non ditemi: Venere ha bruciato lo splendore
delle stelle nelle plaghe del cielo.
Non ditemi: la carovana ha salutato
la palma e la sorgente.
Oh non ditemi: il vessillo del giorno
si è innalzato sul regno della notte.
Non ditemi tutto questo.
Non vedete che ancora il sonno
non si è ritirato nel suo reame di nebbia?
Che i figli della notte
danzano tra i giunchi bassi del Nilo?
Laggiù la duna è una montagna di penombra
e il passo del carovaniere non innalza
filati di sabbia.
Non è il tempo della danza nel fango
Non è il tempo della frusta.
E’ appena un’ora che la luna ha liberato
il suo esercito di stelle.
Ed il cammino della luna
è un cammino vuoto
come occhiaie di scheletri sepolti.
I gradini della mia casa non conosciuta,
rossi come le acque del mare ad oriente!
I miei pascoli sui monti e l’erba e tutta
l’ombra di piante sul mio corpo
e tutta la gioia del sorriso nel mio cuore!
Cammina senza posa la speranza
sul filo della morte.
Senza posa.
Ancora è notte.
Da poco Iocabel ha ringraziato
il Signore antico di Abramo
e ha accarezzato il lembo mancante del suo panno.
Nella casa non v’era altro che erba amara
e focaccia di grano.
Tutto l’amaro della vita è in quell’erba.
Tutta la speranza in quel pane.
Il cielo assomiglia ad una barca rovesciata.
L’ombra della notte tesse nidi
negli occhi delle sfingi.
V’è tempo ed io ho sonno,
da addentrarmi nei sogni della morte.
da: Niente è mutato (1962)
NIENTE VI È DI MUTATO
dove, un tempo, miravo incantato
il cielo pieno di nubi della mia terra.
Niente vi è di mutato.
Solo veleggiano sempre più cupe
le nubi là, tra i merli
della vecchia torre.
LA CANZONE DEL FIUME
inizia la canzone del fiume.
La canzone che narra il pianto
dell’innamorato morente,
quando affidò al volo di una rondine
il messaggio senza risposta.
da: Poesie dalla terra (1972)
MUOVIAMO PASSI OBSOLETI
si precipita in botole
acqua e luna
insieme ci ruotano intorno:
a noi legati alla terra
reinventare crocicchi celesti
eidola
noi creatori da sempre di miti.
Muoviamo passi obsoleti
il mare e un grido di gabbiano
a folate un vento di smog
intristisce pini marini.
D’un balzo
aprire gli occhi
su intatti oceani siderali.
TETTI ROSSI
quelli rossi di una volta,
quando la pioggia vi batteva
e le rondini sbirciavano dal nido
la nenia delle gocce alla grondaia.
Non c’è giorno che non ne muoia uno
e viene il cemento
che la superbia scaglia verso il cielo
con lucide pareti.
Né i passeri vi cantano
spinti, come sono, nella selva.
E’ una morte silenziosa
come tutte le morti.
A vegliare un mondo che scompare
sono pochi, i vecchi
che hanno accanto la morte.
da: Le sorti tentate (1977)
è legata a una ragnatela di morte
che la Guerra, ai bambini si addice la maiuscola,
mi tesseva nei giorni
una stagione che mi cucì addosso
una seconda pelle di malinconia
mi velò il sorriso degli occhi
mi curvò le spalle
perché non ebbi intera
la mia porzione di carne e di latte
Ricordo di quelle ore
i morti
che soldati portavano a dorso di mulo
a macerare nella scarpata
in poca terra
per salvarli
dal graffio dei corvi
dai cani che non avevano più casa
*
per l’inferriata
s’incurva al moto
la fitta ragnatela
ma la casa è morta
Ha conosciuto partenze
i ritorni
solo fiorirono nel cuore
nelle strade ai tralicci
nel sudore del tram
La volpe, dicono i più vecchi,
ora figlia nelle fratte
il bosco impazzito cresce per le cime
La sera ritesse la sua storia
i silenzi riprendono la trama
Quando lasciammo nella notte
i nostri morti insepolti
*
Memoria anche questa
Fu il tempo in cui vinsi la morte
se gli occhi fanciulli ebbero forza
a vivere il massacro,
il grido dei morti
venne anche nel sonno
Mio padre mi guardava con fermi occhi
mi narrava di cose di una volta
e fu un modo di vivere
A sera, nel ricovero,
veniva a tratti il quieto odore d’erba
mio padre ne parlava
come di un miracolo
*
solo il frastuono di cicale
smuoveva l’erba delle fratte
un’eco morta dalla gola
la nenia di vento
Fu il gioco adolescenziale questo
la mianostra cruda favola
di fanciulli a sei anni
i fiati caldi, il fetore del chiuso
e il cielo, un remoto cielo
di cui scordammo in breve latitudini
Il volo di una mosca
una formica che indovinava la lama di sole
feroce
il passo di ferro sul selciato,
combinazioni piccolegrandi
di usuali accadimenti
Intanto in scaglie si svuotava il tempo
la voce cara a consolarci
la notte è lunga
ma il sonno può quietare anche così
*
dove conoscersi alle radici
è la sola certezza:
le vecchie sapevano le favole
le contavano di sera intorno al fuoco
Credetti che i morti
passavano in paese
dal due di novembre a Pasqua Epifania
e se il vento taceva e udivo
un passo un raspio per le vie
facevo le preghiere,
mia nonna diceva che sono buoni i morti,
ci sono accanto
e non abbiamo occhi a vederli
*
vi passa un moto d’aria
presentimento del vento
verrà più tardi nel giro
più forte delle foglie
nel grido fuggitivo del passero
Così nell’arco segnato
i giorni mi negano splendori
o solo un guizzo
il segno che s’alza
la parabola al suo vertice
Né tornano al conto gli esorcismi
si sfrangiano cabale
le sorti tentate cozzano
a muri di granito
Nemmeno il mare li graffia
Intanto se il vento s’alza
mi porta odore di selvatico
*
che dentro
ci rubava il sorriso nostro di bimbi
se pure i tramonti venivano quieti
e gli sguardi degli uomini
non erano più di belve braccate
Per scelta: o perché i grandi
si erano disabituati,
le poche parole che ci prestarono
ci dissero poco del mondo
se pure da macerie
le case sorgevano come uccelli
e sulle tavole
ritornava il rito del pane
Per scelta scrivemmo storie private
dove entra una furia
la scorribanda dei vostri pensieri
capirli è forse il pedaggio
che siamo tenuti a pagare
noi posti per errore delle cose
fra due generazioni in dissenso
da: I ritorni (1986)
da: VIAGGIO ALLA NUOVA CITTÀ
LE RADICI
1
questo restringersi di giorni
più poveri di amici
per lontananze definitive o temporanee
non importa:
se da oggi il cammino si fa solitario
per una sospensione
di gesti di parole
altre parole ci raggiungono
giovanili parole
che hanno trasandatezza livore
comprensione inno speranza odio amore
come altre sentite e dette
chissà quanto tempo prima da noi
E’ il tempo che ci si muta nelle mani
se loro consumano su tracce
volute da loro
e i consigli se li buttano
a lato o dietro
Se ricordo le partenze dal paese
quando le madri non piangevano
a un figlio che andava
a tredici anni per l’america
e che svoltato l’angolo
non gli apparteneva più:
sapevano che in lui con lui
c’era tutto il detto e il fatto,
poi la divergenza delle vie
l’una che portava i fermi piedi
verso il culmine
l’altra che si ritraeva
penombre ripensamenti
interrogazioni mute all’arco delle stelle
se una sorte rimane e quale
4
e da pozzi di memoria
per incontri o scioglimenti
chiamano con bramosia la vita
Fumo, una parvenza che la notte consuma
nel sogno breve
se l’ora giusta apre itinerari inesplorati
e inchioda cuore e mente
allo spasimo del risveglio
Un filo lunare ci rilancia
nei baratri del tempo
e scandisce le ore
il precipitare delle stelle
Così
si ricompone
per vertigini di spazi e di vuoti
un grumo di vita
il sughero che a una deriva affiora
e dentro vortica il tutto
la lutulenta materia
che a tratti si rischiara
quando a colpirla è una folgore astrale
o solo la pietà di figlio
7
alla stagione di primavera
quando l’inverno scivola via dalle case
e i primi soli asciugano le ossa dei vecchi
quei volti oh i volti fatti nella pietra
i figli i loro figli
nel mondo o al camposanto
ebbero nerbo a vivere diaspore
a dirsi a dire parole brevi
che si nasce creature
con la stessa sorte del passero
uno stare nel nido
il tempo necessario
e il volo quando è sicuro il rapace
e il cielo è un’arena
il luogo azzurro della morte
Imparammo per anni a leggere
le increspature degli occhi
la linea delle pupille
quando davano il giudizio
e noi frementi d’erba un’erba tenera
che il passo non piegava
tentavamo così i primi azzurri
acrobati da poco
teneri, uccelli zoppi
il ramo di gioventù
che sfuggiva alle nodaglie dell’ulivo
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ora che i rigagnoli sono polverosi
e il fetore incide l’aria di morte
nemmeno più la giovane erba
colora le vostre iridi, figli
Per il rito dell’acqua:
a sera quando le donne scandivano
la fine del giorno
e i rigagnoli portavano ai pozzi
acqua sonora
e il canto delle brocche specchiava
archi di cielo,
l’occhio sapeva guardare le cose del mondo
come esse sono dentro
forse il loro soffio
l’ilare pneuma che le dilata
e allora nasceva il sogno il sogno sulle cose
e il vento aveva voce sempre mutevole
e le ombre, quelle prima della sera e poi le notturne,
dicevano storie
che i vecchi acconsentivano
Dicevano essi di non dissipare
acqua ed erba
che la notte sarebbe venuta desolata:
nelle sere di ghiaccio
ci dicevano che tutto è della terra
e accennavano solo al disincanto d’uomini
che indurirono il cuore
da: LA NUOVA CITTÀ
Vengono agli occhi del cuore
questi assalti continui di memoria
un profumo le foglie del carrubo
il ficodindia che matura
tracciano diagrammi
dove labilità e spessore
insistono a cancellare
o a riproporre moti persone,
queste ritornano con violenza talvolta
chiedono una porzione di vita
che il tempo non ha voluto,
o chissà potuto,
concedere loro,
le stagioni che mutano
per colori fragranti per nidi
che la primavera esalta
e l’autunno cancella
Tutto come in un cerchio
che alfine si deve rompere
come la piaga purulenta
a riportare sanità
è la placenta calda
che interrompe lo sguardo
e ci precipita ogni volta
a ritroso ai nostri primi vagiti
Un varco allora
per vedere la valle
dopo il tragitto per le gole
o una terra incontaminata
e qui un cuore che nutre giovani amori
ed uomini che chiedono
le nostre storie abbandonate
Per tracciare netto
il solco della città del sole
11
Nel viaggio
ancora mi accade di interrogare il cuore
E mi sono perduto così in divagazioni
anche i fatti minuti
si sono presentati all’appello
le mie paure, questa sottile spina
che mi è dentro e mi ripete sorda
che la forza per farcela
nei giorni verrà un poco la volta
sempre meno
la stessa sorte dell’erba
che vive pochi giorni e poi si piega
ingiallita al sole e al vento
Ma l’erba, mi dico,
perciò nasce, anche per morire,
ma nel cielo manda la sua luce verde
E allora rinasce
perché è la ragione a sforzare
la speranza sottile
come l’erba
come già lo era stata la paura
e mi convince l’idea
che dietro noi ci sono gli altri che premono
e che chiedono a noi nati ieri
una traccia
o anche una parola
certe volte basta una tenera pioggia
che richiude la terra
intorno alle riarse radici
Può rivenire così il quotidiano coraggio
e si riprende il viaggio per la nuova città
Da: AD FAMILIARES
DIARIO 4
che batte un mare di piombo rimbalza cupamente
e si sfrangia, si mescola all’urlo dei camion sul lungomare
essere soli con il gracidio dei gabbiani, gettare
i passi per abitudine,
per un’abitudine vetusta come sono ormai vetusti
gli anni d’adolescenza,
essere soli vuol dire anche questo:
l’abitudine di mettere a confronto
sempre mettere a confronto l’ieri e l’oggi, e allora
ricordo il padre, umoroso ed umbratile padre,
mio padre che mi volle con sé fratello a parlarmi
a lavorare insieme, quando sperimentai
da solo l’oceano, New York, la solitudine di strade sterminate,
c’erano lettere tra noi; a nessuno forse ho scritto
come a lui in quel buco di tempo sradicato e vertiginoso
per bagliori di vita a me estranea
oh i riti mimetici di felicità che trovava occhi spenti
ecco anche l’abitudine tua oggi, padre, alla barriera
dei settant’anni se ancora sangue e intelligenza
parlano dentro la volontà di non arrendersi
Quindi quel gracidio di gabbiani stamane
come un’altra volta può essere un profumo di primavera
o solo una parola-chiave quella parola
l’unica che buca il tempo e giunge al nucleo dell’accadimento
da: Patmos (1995)
FRAMMENTI PER IL POEMETTO DI PATMOS
E’ un rombo
è un rombo solo
stasera, qui a Patmos,
questo mare greco
Nel suo rombo le traversie
che da Itaca distrassero Ulisse
Sulla scogliera stasera pare
che liberi il suo ansito
il suo struggimento
e che cancelli con rabbia
la blandizia dei suoi colori
2
- con l’amaro dentro
ed è sorso di cicuta -
Avverto di aver disimparato la sua voce:
vuole altri ascolti
la voce di questo mare
vuole i silenzi dell’anima
anche quando come stasera
si fa rombo sulla scogliera,
vuole solitudini
che più non abbiamo
e che forse toccherà ritrovare
al marinaio delle stelle
3
alieno alla sua voce
ascolto e ascolto
ma si disperde all’orecchio
la sua mutevolezza
là quando l’onda s’inarca alta
o là quando, per un attimo,
s’incupisce plumbea
infinita lastra che stride:
di questo alto e basso
i due estremi
perdo la linea di congiunzione
la sola che possa forse
riportarmi a cogliere
l’insieme delle cose
così come esse si dispongono
in interiore homini
e là esse si fanno
senso
4
e mi sento frammentato
dai troppi bisogni
schegge anche non mie
di fatti che mi legano
e si fanno sordina
di quelle poche voci e luci
necessarie
Ora più necessarie
5
ma molto di me
non è ancora approdato:
scissura scardinamento
è stare in luoghi diversi
e allora è un vedere
e insieme un non vedere
s’intristisce l’occhio
che coglie il bordo delle cose
e non le trapassa
6
nemmeno basta più:
o almeno a me non basta
Al modo dello sguardo
anche il tatto
Questi ciottoli marini,
lampi li chiamano qui,
questi ciottoli marini dico,
che ribadiscono in sé
colore e musica
il loro colore
è balenio lama intarsio
è acqua e luce
e la musica
il loro perpetuo franare
verso solo verso il mare
smuoiono nella mia mano
Svuotata del suo calore
la mia mano
si fa essa stessa una fredda cosa
7
delle mie deprivazioni
come esse
abbiano tracciato dentro i luoghi dell’assenza
e cancellato un poco alla volta
anche profumi e sapori
quello delle stoppie appena tagliate
dopo la pioggia
o il salino del mare sulla brezza
Così tutto si slabbra
e ad un tempo si fa immobile
una fissità delle cose e nelle cose
icone che non trasmigrano
o se crediamo di parlare
ci facciamo remoti bozzoli
chiuse conchiglie
Ci condanna al silenzio
l’usura di un polverio di voci
senza radici e scopi
malioso anche talvolta,
ma persuasivo no
non fa consuonare essa
ciò che è esterno a noi
e ciò che è eterno in noi
Essa descrive ormai
e non trafigge
Non è più
rombo che si fa luce.
POEMETTO DEL DESIDERATO RISVEGLIO
1
delle sue erbe, risveglia i cigli dispogliati:
e le sospensioni della notte sul mare
quando essa scioglie il suo piede verso l’alba
e oltre oltre si ritrama - da quando? -
il tripudio della luce
meravigliosamente
2
di un cucciolo dalla strada
ritornato dalla memoria o vivo,
non importa,
è il dito sull’interruttore
che disfa l’antico ordito del tempo:
la deriva delle galassie
o il battito di una foglia
se appena rimuove più in là
la sua immobile attesa della morte
3
l’abbacinante luce
che ci colse noi dall’acqua un giorno
l’indimenticata luce
Poi il tragitto ebbe i suoi segnali
le pietre miliari
“… ci accadde… o volemmo…”
Non oltre:
dispersione anche
Un fiero fiume
ci lasciamo dietro
il sangue perpetuo della carne
dove l’intarsio dell’occasione
altro non è che lo sguardo di pietra a quella luce
o un guasto nell’alchimia delle cellule nostre
POEMETTO DELLA REGIONE INARRIVABILE
1
il corto respiro della luce
con il suo passo di pietra
e il poco verde scivola
lungo i cigli
nel gioco ventoso
di quest’ora d’alba
in attesa che si divida il mare
e mostri una
la sua (o di chi?) possibile rotta
2
il puntuale inverno
e il suo grido di muschio
E’ più fermo questo:
come più ferma la pena del passero,
il suo sonno in desolate radure
Dai pozzi nei piovaschi
altre stagioni
o tracce ingrigite
di sortite improbabili
Null’altro
in questo spoglio silenzio
Batte qui il sangue i suoi labili segni
e s’addentra l’anima
procede sempre più sola
tenta essa
la regione inarrivabile del puro
3
nostro di uomini
sia esso stesso
il bagliore dell’erba
il suo sussulto
Da: Altre contingenze (1999)
QUANDO SARÒ SPECCHIO
E quando sarò specchio a me stesso?
e mi tufferò in spazi galattici
molecola soffio o parvenza?
irreversibile scissura
o l’approdo mi darà spazio e tempo
nella marea a cogliere
le mie naufraghe cose?
di me narrare una trita storia
alfa omega
e congiungervi in una stellare dimensione
gli aneliti delle marine
il sangue le consuetudini.
POEMETTO DELLA NEVE
1
lo sciogliersi della neve
su questo bilanciato silenzio
Dei fatti: incanutiscono nella breve ora di luce
li brucia un sole imbaldanzito
e una deriva li allontana li spazia
e inzavorrati calano in buchi neri
questa interna trama della tetra
che è poi il suo riprendersi
il soffio il fiato nostro
E di me: non mi tornano i gesti
le parole stesse si sfiorano
si chiude il tempo e traccia un suo cerchio
dolorosamente
persegue un suo disegno, ambiguo,
dove l’occhio si sperde
la rosa di luce che varca mare e cielo
ed essa mi cancella anche altre voci
le mie le vostre
perciò attendo notizie, un segno,
la spirale di fumo
i quieti rumori della casa
2
allo sciogliersi della neve
che ripete il rito di primavera,
è l’orlo della vita
quando tornano alla terra i suoi colori
giallo e bianco
disseminati colori che l’occhio discopre
con meraviglia per noi ora
che forse nulla sappiamo
e non conosciamo
o quando il sole taglia radente il verde delle querce
come sottilmente trama la terra il suo viaggio
non colgono il responso:
per routine Sibilla
disperde bizzarre capovolte foglie,
magri segni persistono
sillabazioni che non ci dismalano
che solo ci inducono a percorrere esili tracce,
l’infisso tragitto
e non sappiamo se ospiti o figli
siamo destinati a durare
3
interrogare il già fatto:
ciglia filiformi capi?
Incunaboli
appena il sole chiude il suo corso
e la notte coniuga vicissitudini
l’intreccio persistente di tremori remoti
e i chiari suoni li disperde la luce
per un verde che incrina i dorsali,
spezza d’acchito il bianco, è ancora la neve,
e si allarga in dimensioni astrali:
l’ombelico della vita
il dubbio
se siamo noi con le cose
o se camminiamo in cerca di che non sappiamo
il graffito dei giorni
che ingloba sole e azzurro
il fremito il guizzo del sangue
che si disfa in mondiglia
LE MIE ORE BUONE SONO QUELLE DELL’ALBA
la casa è piena di un suo silenzio
che solo il canto mattutino
dell’uccello dalla cava
per un attimo incrina
Il caffè la bollitura del latte
la routine che mi propizia il giorno
l’amuleto che la luce gialla di ginestre
mi mette nelle mani
Voi siete ancora quieti
e io posso consumarvi nel pensiero
aspetto la voce sonnolenta che mi chiama,
il mondo è fuori, nel sonno ancora,
i primi rumori sono slabbratura
né lo spessore dell’alba s’irrughisce
da: Poemetti elementari (2009)
POEMETTO DEL RITROVAMENTO DEL FIUME
1
a scorrermi nelle iridi
può riprestarmi
il suo sapore d’acqua
quando a colme mani
bevevo il suo freddo
il suo verde profondo?
Vi scorre il mio sangue giovanile
le piene sue pulsazioni
le stesse delle radici
esplose nella fiammante
luce delle foglie?
2
silenzioso al tuo silenzio:
forse da te ho appreso
a desiderare la quiete?
Ancora mi persuade
la pazienza delle tue anse?
Mi consegna essa
nel tuo scambievole verde
d’acque di foglie
il senso delle diaspore?
Fa chiaro
l’intreccio estremo
delle vicissitudini?
Può sciogliere
il ghiaccio dei passi?
3
non è che una sola tua ruga?
E’ in questo tuo incresparti appena
al sommo di una corrente vertiginosa?
Le mie cose, fiume, restano
dunque al tuo fondo?
POEMETTO DELL’ULIVO
1
a David
- i miei anni si curvano
i tuoi quasi due sono fiore che s’apre -
a sillabarti gli ulivi:
ti racconto la loro saldezza
Mite
che li fa creature dal cuore
inamovibili
Perché la rotonda luna
della mia infanzia
al soffio della notte
e da una lastra
riporti anche a te
la loro persuasione d’argento
Mie tue radici
ineludibili
2
il loro luogo per le colline
là dove assorbono
l’espansione delle albe e dei tramonti
Quella luce
mi è dentro e non smuore
3
al tuo sorriso irriducibile,
la consegni il giovane ulivo
che nell’orto
- da poco -
s’avvia a saldarsi al suo cielo
POEMETTO DELLO SPECCHIO
1
il mio specchio:
lo specchio-mare
ondoso al gioco
di una memoria profonda
e i volti e le parole
le levigate parole
2
E già lo specchio raggela
una sottile ruga della mente:
la nuova è bagliore grigio
o fiato che io solo colgo
in questo mio specchio-mare
Tutto deborda verso il tempo
—è il mare ora il tempo—
3
se inarca anche questo mio cuore
nello specchio autunnale delle acque
là dove la parola si disfa
silenzio ondoso
memoria
POEMETTO DELLA CENERE
1
Cenere
Ma a muoverla
vi si annida ancora
il dardo del fuoco
- è il suo cuore ardente -
E’ guizzo
che ferisce l’occhio e discopre
inquietudini lontane latitudini
che non vorresti - o vorresti? -
dissepolte dalla tua cenere
2
Così nell’uniforme grigio
che è dentro e fuori di te
- vi si sono spenti
i colori delle cose
i sapori i volti -
come da un altrove
per un’astrale deriva
che fa di tutti gli anni
un solo soffio
un lampo solo
molto ritorna
e accorda respiro e gesto
e ti fa vivo giovane
Per il tempo del guizzo
del dardo nella cenere
3
Poi si fa nuova cenere sulla cenere
La disperde
la fredda luce della chiaroveggenza
POEMETTO DELL'ORIZZONTE PERFETTO
1
L’ultima dolorosa luce del mare:
è lì che visibile ed invisibile
si fanno grido e luce
nella perfezione del tramonto
Ecco, poi cadrà
la notte in lentezza
la notte dei silenzi
la notte delle riepilogazioni
2
Mi vengono segmenti di vita
essenze:
sono io al punto là
dove tutto si perde o si fonde?
È ancora la domanda estrema
che ha fatto tutti i miei giorni
inquieti
li ha svuotati
della loro concretezza
esili tenaci fili
i miei giorni
eppure brucianti d’amore e d’altro
Tutto si riduce oggi ad un soffio
Lascia dietro di sé
un impossibile deserto
3
accade che si dispogli anche il sogno
oltre il tramonto perfetto
S’aggira al di qua
in una trappola anch’essa perfetta
POEMETTO DELLA TREGUA
1
le irrisolte strade,
e il loro frastuono
quei lampi che segnarono
il cuore di furori
Rosse in un incendio
vi fiorirono tutte le cose
le rose della vita
2
La tregua:
la richiede il cuore
le sue tessiture
risultano dosaggio
di lente alchimie
Si muove
in una penombra di sangue ispessito
Precipizi
i suoi silenzi sempre più lunghi
3
È questo il tempo (il luogo?)
delle quiete interrogazioni
se fuori
sui muri trapassa
un fiato di vento
il luminoso filo della luna
vi trascorrono
in un incrinato specchio
terra e cielo,
si confondono
in un incastro di corrispondenze
l’abrasa memoria delle cose
delle rose della vita
POEMETTO DEI NAUFRAGI E DELLE ROTTAMAZIONI
«Naviga. Verso dove ci è dato di navigare?»
A. Puskin
1
questo che batte la riva e la disfa
la disperazione del mare
consegna ancora
a noi
i suoi morti di un giorno
2
ha oggi per me questa voce
– voce d’alghe –
non disperdono dentro
l’ossessione delle acque
e nella remotezza del cielo
si muta in nero di pece
la luce dei voli
3
il cupo tempo delle rottamazioni:
poco importa
se di uomini o cose
Un tempo d’alghe ci incalza
NOTA. «Non so quanto abbiamo viaggiato. Quello che so è che la mia era una delle quattro o cinque barche sulle quali ci eravamo imbarcati in molti. Solo la mia è arrivata a destinazione: non so cosa sia stato degli altri. So solo che, nel Mediterraneo, a un certo punto, abbiamo visto tanti cadaveri in mare». Storia di Daniel, MSF News, 3, 2003
Da: Mute voci mute (2017)
LA GUERRA
è legata ad una ragnatela di morte
si addice la maiuscola,
mi tesseva nei giorni
una seconda pelle di malinconia
mi velò il sorriso degli occhi
mi curvò le spalle
*
Il suo vento la sua furia ancora
s’accanisce a farmi tristi
nei giorni, nei miei giorni tutti,
le cose belle della vita
forse perché non ebbi
le prime cose della vita
quelle che fanno l’infanzia
i suoi giochi le voci
Ecco, esse mi mancarono,
ilari o rissose
Mi furono sola compagnia
il buio della stalla per ricovero
i fiati caldi, il fetore del chiuso,
un remoto cielo
Il sole era fuori
inarrivabile
*
vano esso splendeva
– ricordo di quelle ore i morti
che soldati portavano a dorso di mulo
a macerare nella scarpata
per salvarli dal graffio dei corvi
dai cani che non avevano più casa –
Quel sole non mi appartenne mai
Inesorabili giorni
che mi infissero la certezza
del dolore della vita
Lontano è il tempo della guerra
mi volli poi dire
e ingannai me stesso
A scorrerli oggi i miei anni
sedici lustri ormai
*
– un infinito cammino
eppure nient’altro che un fiato –
li vedo lacerati
dal suo luttuoso gong
che ha battuto batte
lastrica di morti
il fiume della storia
Mute voci mute
perché non vi ascoltiamo?
Ma sappiamo più ascoltare?
Invano battete alla porta
a chiedere udienza
Per un attimo vi risponde
una sterile pietà
che non si fa misericordia
amore persistente
*
Di voi e di noi
che in cammino tentiamo
l’approdo che ci preservi
l’oasi di quiete albe
di sicuri tramonti
Si faccia smemorato
il nostro sonno
Ci addormenti in pace
il respiro dei figli
dalla stanza accanto
RODOLFO DI BIASIO, nato a Ventosa nel 1937, è un poeta, scrittore e saggista italiano, ha conseguito la laurea in Lettere Classiche presso l’Università Federico II di Napoli nel 1965 e in seguito ha diviso la sua attività tra l’insegnamento e la produzione letteraria. Dal 1969 al 1982 è stato direttore responsabile delle riviste nazionali «L’Argine Letterario» e «Rapporti», nel cui comitato direttivo compaiono anche Giorgio Barberi Squarotti, Emerico Giachery, Giuliano Manacorda e Walter Mauro. Dal 1978 al 1999 la RAI ha trasmesso serie di suoi sceneggiati di argomento storico-letterario nelle trasmissioni radiofoniche Il Paginone e Lampi dirette da Giuseppe Neri. Dal 1962 fino alla sua centrale opera di poesia Patmos (1995). Il romanzo I quattro camminanti (1991) narra la vicenda corale di quattro fratelli emigranti in America attraverso «la destrutturazione del romanzo realistico» (Sebastiano Martelli). Nel 1974 negli USA viene inserito in «Vanderbilt Poetry Review» in seguito in «Poetry» e in New Italian Poets; in Spagna nell’antologia Venticinco años de poesia en Italia (De la neoavanguardia a nuestros dias) pubblicata a Cordoba; in Francia nella rivista «SUD» pubblicata a Marsiglia nel numero monografico Poesie du XX siècle en Italie – Les Poetes de la Metamorphose. Nel 2001 compare nell’antologia curata da Emilio Coco El fuego y la brasas pubblicata a Madrid e nel 2010 in Antologìa de la Poesìa Italiana Contemporànea uscita in Messico a Monterrey. Sue poesie sono state tradotte anche in Grecia e in Russia. Considerato da molti un modello di scrittore autonomo rispetto alla potente editoria del nord, Rodolfo Di Biasio ha visto la sua opera analizzata dai migliori critici accademici e militanti del periodo 1970-2000, con una mole di oltre 400 titoli di bibliografia, oltre a una trentina di premi internazionali. Insieme ad Achille Serrao e il triestino Fabio Doplicher, Di Biasio rappresenta il vertice di una scrittura poetica e narrativa che ha saputo imporsi nonostante il passare delle mode, delle neoavanguardie, attirando su di sé l’ammirata attenzione critica di maestri come Alvaro Valentini, Giuliano Manacorda, Giorgio Barberi Squarotti, Francesco De Nicola. Ha sempre vissuto a Formia.