Roberto Mussapi | Il passero di Lesbia e altre poesie

Foto: Dino Ignani LA NOTTE DEL DIECI AGOSTO  Non piangere, Harun, in questa notte d'agosto quando le stelle cadono e la loro luce si dis...

Foto: Dino Ignani


LA NOTTE DEL DIECI AGOSTO 


Non piangere, Harun, in questa notte d'agosto
quando le stelle cadono e la loro luce si dissolve
nel buio come la sabbia nel sonno:
se fossero sempre fisse e immutabili ti sarebbero estranee,
e il loro splendore immobile offenderebbe la tua carne.
Immagina che scendano per una compassione celeste,
incarnazione d'astri che si disfanno in polvere,
molecole di luce che si compenetrano al buio,
ricorda la storia del beduino Habib che si innamorò di una lucciola
e visse ogni istante della sua luce guardandola,
e disperò vedendola morire in una notte.
Ma dopo anni di pianto nel gelo del deserto
una notte all'improvviso lui la rivide
risplendere alta in una stella fissa:
la lucciola, l'errante, la luce fenomenica,
tornava dal cielo al beduino analfabeta.
Né tu, sultano, né il povero beduino,
avete pianto per una stella o una lucciola,
ma per la sola cosa per cui piange un uomo,
una donna: lì fu il dolore di luce persa,
premonizione astrale del tempo spegnente,
l'estinzione già inclusa nella ferita del miracolo,
e la distanza dal cielo, la morte.
Impara dal beduino, amala come si ama una lucciola,
donati a ogni suo istante di sopravvivenza,
e quando lei ti parrà persa nella notte
tu nei suoi occhi scoprirai di colpo
la luce alta delle stelle fisse,
e in lei che parve dissolversi in una notte di agosto
l'affinità mortale con te che la supplichi.


da: La polvere e il fuoco (Mondadori 1997)


IL PASSERO DI LESBIA


Il mio cuore si spense nel suo palmo,
le ali frullanti tra polso e bracciale
e fui già via, nel limbo
dei non umani, i poveri messaggeri del cielo.
Sentii me stesso spegnersi come in loro il cervello
di sera si addormenta, senza sapere
se mai ci sarà un altro risveglio.
Ero piccolo.

Pregò lui, che non aveva dèi in cui credere.
Vidi svenendo gli occhi di Catullo
pieni e ingranditi dal flusso delle lacrime.
Le oscure divinità ebbero pena,
il pianto dei Cupidi e delle Veneri
sorse spontaneo come aveva pregato il poeta.
Sentii le mie piccole ali ridestarsi e vibrare
e volai via, inconscio, incolume,
passai la soglia che conduceva al giardino,
sfiorai la vasca delle lamprede e dei murici,
vidi volando la murena dormiente,
poi cambiò tutto, entrai nel tempo,
la macina che opprime i sublunari
che hanno anime individuali e meridiane,
e scrivono parole con l'inchiostro.
Le ali umide per il palmo di Lesbia
ancora calde dell'ultimo nido
in me, o nell'aria, le parole di Catullo,
"animula", aveva detto, "tenera vita",
la mia, che gli svaniva tra le dita
sfioranti quelle della donna amata.
Ma cadde nell'errore del poeta,
che fare eterno in questo mondo sia un dono
come se non fossi un vivente ma un pensiero,
già pagina, voce impressa, pietra scritta.
Avrei preferito spegnermi tra le sue dita
nell'ultima culla senza canto e voce,
piuttosto che sopravvivere a amore e fine,
vedendo Lesbia morire, andare via,
leggere data di nascita e di morte su una lapide
del grande Catullo che mi ottenne la vita.
Per essere qui, ora, nell'oltretempo terreno
solo a cantare a piena voce la fine
dei corpi che si abbracciano in furia e sudore,
qui, sulla vetta della torre antica
passero solitario, a un timido amico
che il tempo che ci illuse in terra avrà fine
e Lesbia, e Catullo, e Leopardi, in un respiro
e la città di Roma e le carte sudate
mi ordineranno di cantare ancora.


PAROLE DEL TUFFATORE DI PAESTUM

 

Io sono l’anima di tuo padre, il tuffatore:
ti ho seguito ogni giorno, ti sono accanto,
conosco come allora le tue zone d’ombra,
il linguaggio dei moti tracciato dalla tua faccia,
niente è cambiato da allora, in questo senso.
Questa è la prima cosa che ho scoperto,
la prima che volevo dirti: non cambia la percezione
dei tuoi attimi, come non cambiava
di notte, nel sonno, o per la distanza.
So che questo mio soffio (dal fondo dell’acqua, tra le attinie)
sarà per te come le mie parole un tempo:
che ti infondevano memoria e coraggio,
più del vino o di una donna che ti guarda.
La mia prima scoperta, la prima verità è che nulla
si spezza nel segreto dell’anima.
Il resto è confuso, è presto
per cercare di riferirti,
coralli, attinie, vite che si disegnano da un moto
d’acqua e si dileguano all’istante.
Non tutto è luce, trasparenza, silenzio,
cunicoli di buio, respiri compressi, poi voci
che inalano in me come se io parlassi.
Scivolo verso un fondo sempre più distante
E sento che una luce sommersa mi chiama da oriente:
non so dove finisca, per ora,
non so che cosa sia ma so che amore
la muove e ne determina il respiro.
Di questo viaggio parlerò più avanti,
quando esperito sarà conoscenza,
posso parlarti di quanto ho lasciato,
sopra la superficie azzurra delle acque,
tra le sabbie bianchissime, le palme,
l’ombra degli ulivi, il vino
che veniva versato dalle anfore:
ama la terra rosa nel tramonto,
immergiti nel mare per gioco, come un tritone,
gusta la frutta, il pane, bevi e mangia,
ascolta le risa delle ragazze,
cerca la loro bocca, ridi e dispèrati,
ringrazia ogni giorno il tuo paese lucente.
Io non sono tuo padre ma la sua anima,
non so quello che vivo ma ricordo,
la riva, la piscina, i colori che formano
lo strano disegno della vita mortale.
Vivi in quella ceramica smagliante e attendi
quanto saprò dirti più avanti, alla fine del viaggio.
Ma ora che dormi come quando in una culla
sembravi cercare i segreti del mondo,
ora che hai spalle più larghe e più radi i capelli,
ascolta le parole della mia anima
non so molto di lei, di me stessa,
(è presto, figlio, non conosco abbastanza,
ho appena iniziato, sto nuotando),
non pensare al mio corpo ( è tardi,
perle, quelli che furono i miei occhi,
e le mie labbra contratte in corallo),
ma ho conoscenza del loro matrimonio,
di quando vivevano all’unisono nel mondo
e io, anima di tuo padre, il tuffatore
ti consegno solo questa esperita certezza
(dal fondo dell’abisso, nel brivido del tuffo):
che anche l’uomo può amare eternamente.


SAMARCANDA


La perla d’Oriente, il giardino dell’anima, lo specchio del mondo:
la mia creatura ha nomi infiniti
frutto vivente di infiniti sguardi.
A cavallo, radendo le stoppie,
dell’arida Scizia, sollevando polvere
io la sognavo travolto nel galoppo,
il centro della Via della Seta, la sosta,
il luogo dove, da ovunque convergono
mercanti, carovanieri, ambasciatori
o uomini inseguenti qualcosa di cui persero
memoria e nome nel bianco del deserto,
là, oltre i miei stessi nugoli di polvere,
oltre la schiuma delle froge del cavallo,
il Centro dell’Universo, la quiete, il sogno in corpore.
Per questo quando ebbi in pugno il mondo
lì io condussi alla riva del fiume
che porta oro sulle sue onde crestate
schiavi selezionati, catturati in Persia,
in Siria, in Anatolia, in India,
storici, teologi, architetti,
pittori, tessitori di seta, scalpellini
e fabbri, e falegnami e intarsiatori
a edificare il centro del mondo,
la città delle ombre leggendarie,
le sei strade e i sei grandi cancelli,
le piazze spalancate, le fontane
e le moschee e i minareti e i mausolei
e i quattro piani del Palazzo Azzurro
di Tamerlano, e i giardini e le pareti d’oro
e i giochi di luce nella seta delle tende,
perché tutto questo potesse incantare
chi in quel prodigio giungesse nel viaggio,
piagato dalla sabbia e impazzito di sete,
e strascicando sulle sue gambe spezzate
quando i cavalli erano morti di stenti:
a tutti quei volti ignoti di pellegrini e mercanti
sognai di donare la visione e l’incanto
capaci di cancellare per un istante purissimo
quanto sa Tamerlano, quanto apprese
al galoppo, tra dune e sterpi, da piccolo:
che dietro a noi resta soltanto polvere,
e prima che appaia il prossimo colle
già si è posata al suolo alle tue spalle
come cipria di Giava sul volto di un morto.



AL MORO DI VENEZIA



Salpai dagli Schiavoni per annullare il tempo.
Lo vidi, svanire, ad Acri, dove il confine dileguava,
ne udii lo smembramento nei brevi viaggi per mare,
scosse violente a poppa, rumori nella stiva,
e vele che il vento lacerava a brandelli.
Poi fu un lungo cammino, a piedi, a cavallo, in un paesaggio
cangiante nelle forme e nei colori,
ma immobile ormai nell’oltretempo.
L’Oriente dei lapislazzuli e dell’alabastro,
dei maghi idolatri che adoravano il fuoco,
del Vecchio della Montagna che scompariva nelle brume
col suo reame e le sue vittime, a ogni tramonto.
Non ho avuto bisogno di fumare l’oppio,
vivevo tra l’incanto e il miraggio,
tra il vero inafferrabile e il gioco artefatto
da maghi ignoti e forse inesistenti.
Lui, Khublai Khan comprese il mio sgomento,
il desiderio e l’angoscia del viaggio,
la sete e l’orrore dell’orizzonte.
Moro, che da quella torre sancisci il tempo,
nell’orologio costruito dopo la mia morte,
Moro, tu che batti il nero dei secondi e dei secoli,
dimmi se fu illusione la mia fuga dal nostro mondo di numeri
visibili nell’aria come piramidi o cerchi
o se sei tu il folle che cerca di scandirlo.
Dimmi se Marco Polo si allontanò da Venezia
per il commercio infinito e lo scambio incessante
o se tu che martelli il passare degli attimi
conosci un tempo che oscuramente mi mosse,
dove l’istante e l’infinito coincidono.



AS TEARS GO BY, OFELIA 

A Marianne Faithfull


Poi furono sillabe quelle che erano state parole
e versi che mi straziavano la gola,
pezzi, grumi di vocesangue
di ogni immagine che un tempo era stata,
ora persa nel fondo sotto sabbia vetrata.
E introvabile come chi è muto
di colpo e con la voce il suo sguardo è perduto
per un dolore che puoi solo intuire
in quella cornea all’improvviso vuota,
o come di colpo ai centosessanta in galleria
col piede in ipnosi sull’acceleratore
e io, io lingua franta, io affogata.

Ho recitato Ofelia, conosco la pazzia,
e so che ti colpisce per eccesso d’amore,
quando i tuoi occhi non reggono una sedia
se vedi nella sua paglia le trame d’oro,
e l’aura di quello scranno e la sua luce,
e i beati che si posarono in inconscia preghiera,
se tremi per una persona che si siede
e si avvicina al centro del fango e dei grandi fiumi,
e so che cosa significa eccesso d’amore,
quando colui che ami dilegua e tace,
o non riesce a risponderti, e tu muori,
per estinzione, disidratata in pietra.
Io sono affogata nello stagno e risalita
tra foglie cadute in morte e semprevive
dal fondo melmoso risalenti alla luce,
dal fondo ho ritrovato genesi e amore,
ora che torna mia, in me, la mia voce,
niente da chiedere, risalire adagio
come la linfa dal calamo al fiore
dopo che fu strozzata dall’inverno e dal gelo
tra foglie marcite, e il rito umorale
ascende ai campi e all’oro dei covoni
tra casa e casa, tra le luci e le strade.
Conosco la pazzia e sono affogata,
e adesso so che era soltanto amore.


da: La stoffa dell’ombra e delle cose (Mondadori, 2007)


LA TERRA INCERTA


Ci furono momenti di illusione e panico,
in quella infinita vacanza d’inverno.
Ogni momento durava ore e giorni,
ma rivissuto appare un attimo,
incastonato com’era nel buio assoluto
della notte polare senza luce e tempo.
Tre volte i ghiacci si sciolsero
attorno alla chiglia, e tentammo la fuga,
tre volte intensificarono la stretta
cercando di stritolarci nell’abbraccio
quando ci era preclusa ogni scelta
per l’incertezza dello strato oscillante,
non sufficientemente ghiaccio né acqua,
non navigabile o percorribile a piedi.
Panico e illusione non sempre distinti,
ma crudelmente, crudelmente avvinti.
Alle dieci di mattina del primo agosto,
mentre i conduttori di slitte spalavano
la neve accanto alle cucce dei cani,
una forte scossa attraversò il blocco,
seguita da uno scricchiolio lunghissimo:
l’Endurance si sollevò a sinistra
e ricadde nell’acqua rollando.
Il banco si era spezzato e la nave era libera.
Shackleton salì sul ponte e noi lo seguimmo.
Diede ordine di portare i cani a bordo,
e in otto minuti la cosa fu fatta.
Mentre ritiravamo la scala reale,
la nave si mosse di colpo di fianco e in avanti,
spinta dalla forza del ghiaccio
che la premeva di lato e di sotto.
La lastra che l’aveva imprigionata e protetta
ora battendo sulla fiancata frantumava
le piccole cucce di ghiaccio costruite
per proteggere i cani di notte.
Per quindici minuti la morsa crebbe
finché spinta da poppa la prua dell’Endurance
montò lentamente su una lastra.
La sentimmo salire con la salvezza
mentre il ghiaccio si riassestava attorno.
La nave rimase con la prua sollevata
inclinata cinque gradi a sinistra.
Avevamo allestito le scialuppe
e gli abiti più caldi, per evacuarla,
ma come all’inizio era stato illusorio
lo sciogliersi dei ghiacci, era fallita
la loro presa definitiva e mortale.
Se qualcosa avesse impedito alla nave di alzarsi
lo scafo si sarebbe sgretolato
come un guscio d’uovo tra due dita.
Nel frantumarsi e ricomporsi dei ghiacci
un grosso lastrone del vecchio blocco
era rimasto intatto ma inclinato
e le tracce delle slitte che l’avevano solcato
sembravano in salita.
Riprendemmo le partite di football sul ghiaccio,
istruivamo i cuccioli al traino,
al Ritz tornarono musica e Shakespeare,
Lanterna Magica e partite a carte.

La notte antartica andava scemando.
Da tre arrivammo a sette ore di luce,
senza stupore né abbaglio,
ma come un lento risveglio da un letargo
universale e perenne, dove la notte
non era che un annuncio più visibile
di un sonno eterno, buio, invincibile,
come quando vedi appeso alla forca
non solo il corpo del condannato che penzola
ma tutti noi in preda alla storia.

Il ventinove di agosto a mezzanotte
un solo forte colpo scosse la nave,
ci alzammo in piedi correndo sul ponte.
Poi nel rinascente e immediato silenzio
vedemmo una nuova fenditura nel ghiaccio.
La notte seguente la chiglia dell’Endurance
scricchiolava sinistra come una casa stregata,
a circa un metro dalle nostre orecchie.
Cominciammo a coabitare con quel rumore
stridente e scricchiolante nella notte,
come vivendo in una tenaglia di ghiaccio
per ore e ore premente sulle ossa
fino a divenire essa stessa anestetico.
Intanto aumentavano le ore di luce,
e Bobby Clark il biologo
disse che era cresciuto il plancton,
segno della primavera incipiente.
Dal plancton ha origine nell’Antartide
il ciclo vitale dei pesci più piccoli,
fino alle seppie polari e ai pinguini,
le foche, le orche marine, le foche leopardo,
i grandi e lucenti capodogli.
I lastroni di ghiaccio sembravano dock
per l’immagazzinamento di cereali,
ma erano più spesso tremendi e deformi
come opere di architetti impazziti
fissando il ghiaccio apatico e i suoi demoni.
Fu lungo e crudele, l’ultimo attacco.
Durò giorni e notti, in crescendo,
lottando con la nostra abitudine agli assalti
della gelida massa senza sangue.
Le travi del Ritz si arcuarono come canne,
il banco a dritta premeva sullo scafo
arcuandolo fino a inclinarlo di tre gradi,
poi semiriversa la nave
cedette alla pressione senza spezzarsi.
Solo una crepa, una fenditura nelle assi
del tavolato del Ritz,
là dove avevamo improvvisato il palco
per recitare la storia del principe
amato dalla luna ma non dai suoi simili,
esclusa Ofelia, che però era morta,
attratta dall’elemento che conduce
a questo regno infernale d’acqua ghiaccia.


da: Le Poesie (Ponte alle Grazie, 2014)



LA PIUMA DEL SIMORGH


La luce non si attenua mai, si spegne.
Come l’uccello che conosciamo, per rinascere.
E’ un inganno credere che qualcosa passi dal tempo
in cui fu pieno, a una senescenza.
Non c’è intervallo nel fuoco, c’è spegnimento
perché le braci si riaccendano, tu ti riaccendi.
Non era quello che avevo appreso un tempo,
l’attenuazione della fiamma, il crepuscolo.
Non esiste un tempo intermedio,
tu passi e affoghi per rinascere,
questo è già scritto, nel fondo del mare,
impresso nelle cifre del corallo.
La vita che ti fece fu ambigua, e generosa,
tu le appartieni, sei tu che la fai vivere.
Ora che sta piovendo i passi si allontanano,
i tram sferragliano e sembra pioverà sempre,
ma c’è una porta, mai vista o spalancata di colpo.
Tu credi che il buio si avvicini, ma già incombe
la notte e il sogno che ti prende e abbraccia.
Ognuno si culla in un sogno spesso debole e incerto
per la paura del mattino, del canto del gallo
quando le ombre cadono e tu viva
stai conducendo il globo al suo risveglio.
Non era quello che avevo appreso un tempo,
il lento divenire e la trasformazione del giorno
in una quieta muta, priva di stelle.
C’è solo, tu l’hai svelato, un incessante fuoco che rigenera.
 

Da: La piuma del Simorgh (Mondadori, 2016)





ROBERTO MUSSAPI è nato a Cuneo nel 1952 e compie i suoi studi a Torino, dove si laurea in Lettere nel 1977. Nel 1979 si trasferisce a Bologna, dove lavora come redattore presso la casa editrice Cappelli, e dal 1982 a Milano, dove collabora con la casa editrice Jaka Book e con diverse trasmissioni radiofoniche e svolge un'intensa attività di traduttore (Marlowe, Emerson, Melville, Stevenson, Walcott, Heaney, Bonnefoy, Byron, Shelley, Keats). Vive a Milano  e considerato uno dei maggiori poeti italiani contemporanei, è anche drammaturgo, autore di saggi, di traduzioni da testi classici e contemporanei e di opere narrative, tra cui Tusitala, il narratore (Ponte alle Grazie, 2007), Volare (Feltrinelli, 2008), Le metamorfosi. Il capolavoro di Ovidio raccontato da una grande voce contemporanea (Salani, 2012). È editorialista e critico teatrale di Avvenire. Tra i volumi di poesia ricordiamo: La gravità del cielo (Società di Poesia, 1984); Luce frontale (Garzanti, 1987, nuova ed. Jaca Book, 1998); Gita Meridiana (Mondadori, 1990); La polvere e il fuoco (Mondadori, 1997); Antartide (Guanda, 2000);  La stoffa dell'ombra e delle cose (Mondadori, 2007). La sua opera poetica è stata raccolta nel volume Le Poesie, prefazione di Wole Soyinka, saggio introduttivo di Yves Bonnefoy, a cura di Francesco Napoli (Ponte alle Grazie, 2014). Tra i volumi recenti di poesia, La piuma del Simorgh, (Mondadori, 2016), Voci prima della scena. Monologhi in versi, (La Collana, 2017). Ha pubblicato nel 2007 l'opera teatrale in versi, Il testimone. Vita di Robert Louis Stevenson. Ha preso parte nel 2005 a «Il cammino delle comete» (Pistoia) e nel 2007 agli «Incontri internazionali di poesia di Sarajevo». 

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