Camillo Sbarbaro | Versi a Dina
1 La trama delle lucciole ricordi sul mar di Nervi, mia dolcezza prima? (trasognato paese dove fui ieri e che già non riconosce il cuore). F...
sul mar di Nervi, mia dolcezza prima?
(trasognato paese dove fui
ieri e che già non riconosce il cuore).
Forse. Ma il gesto che ti incise dentro,
io non ricordo; e stillano in me dolce
parole che non sai d’aver dette.
Estrema delusione degli amanti!
invano mescolarono le vite
s’anche il bene superstite, i ricordi,
son mani che non giungono a toccarsi.
Ognuno resta con la sua perduta
felicità, un po’ stupito e solo,
pel mondo vuoto di significato.
Miele segreto di che s’alimenta;
fin che sino il ricordo ne consuma
e tutto è come se non fosse stato.
Oh come poca cosa quel che fu
da quello che non fu divide!
Meno
che la scia della nave acqua da acqua.
94Saranno state
le lucciole di Nervi, le cicale
e la casa sul mare di Loano,
e tutta la mia poca gioia - e tu -
fin che mi strazi questo ricordare.
2
Ora che sei venuta,
che con passo di danza sei entrata
nella mia vita
quasi folata in una stanza chiusa -
a festeggiarti, bene tanto atteso,
le parole mi mancano e la voce
e tacerti vicino già mi basta.
Il pigolìo così che assorda il bosco
al nascere dell’alba, ammutolisce
quando sull’orizzonte balza il sole.
Ma te la mia inquietudine cercava
quando ragazzo
nella notte d’estate mi facevo
alla finestra come soffocato:
che non sapevo, m’affannava il cuore.
E tutte tue sono le parole
che, come l’acqua all’orlo che trabocca,
alla bocca venivano da sole,
l’ore deserte, quando s’avanzavan
puerilmente le mie labbra d’uomo
da sé, per desiderio di baciare...
3
Era color del mare e dell’estate
la strada tra le case e i muri d’orto
dove la prima volta ti cercai.
All’incredulo sguardo ti staccasti
un po’ incerta dall’altro marciapiede.
Nemmeno mi guardasti. Mi stringesti,
con la forza di chi s’attacca, il polso.
A fianco procedemmo un tratto zitti.
Una macchina adesso mi portava,
procella appena dominata, verso
il luogo di quel primo appuntamento.
Già la svolta il mio cuore riconosce
e, raffica, la macchina la imbocca,
ed ecco tu ti stacchi
un po’ incerta dall’altro marciapiede.
(Non era che un crudele immaginare:
paralitico tenta con quest’ansia
la parte, se già il male la guadagni.)
Il tempo di pensarti; ma nell’attimo
che dolcissima spina mi trafisse!
Acuta come questa non mi desti
altra gioia, non mi potevi dare.
T’amavo. Amavo. Anche per me nel mondo
97c’era qualcuno.
O strada tra le case, benedetta,
dove la prima volta nella vita
pietà d’altri che me mi strinse il cuore.
4
E la vita sapessi a me che fu,
Amore, prima che ti conoscessi...
Un deserto la terra; a volte, il mondo
una sfocata immagine che trema.
I volti consueti dai fantasmi
visti in sogno, il mio giorno dalla notte
poco diverso; sì da dubitare
se veglia o sonno fosse la mia vita.
Uomo che s’atterrisce della piazza,
arretra innanzi a quella vacuità,
quante volte dal sonno ripugnai
al giorno che le palpebre forzava!
Un dì nella città tumultuosa
dove fughe di strade a vista d’occhio
aprono prospettive d’infinito,
disagio da stupore in me nasceva.
M’affaticava la città col suo
ànsito
quale andare di fiume che non trovi
foce; m’impauriva con la mole
quasi colosso che non abbia luce
di sguardo...
Quando, improvvisamente come oscuro
disegno che coi dadi bimbo tenta
s’illumina del dado che mancava,
99si compose il tumulto, si placò
l’ànsito, fiume che si placa in mare,
in due che s’abbracciavano nell’ombra.
5
Càpita all’uomo che d’autunno spoglia
la vite, sulla scala che ne fruscia
- vecchio è l’uomo ed autunno gli colora
l’anima dentro di malinconia;
ché con l’anno gli pare la sua vita
anche finisca;
il poco che da essa ebbe gli mette
in strozza come una secchezza e inghiotte -
tra i pampini arrossati di scoprire
un superstite grappolo.
Ne colma
la mano, preso d’infantile gioia;
soppesa quasi non credesse agli occhi.
Alla sua sete riserbò l’annata
quel frutto; glielo maturò l’estate,
glielo dorò il sole dell’autunno,
la pianta vi spremè l’ultimo succo.
Cola zucchero l’acino che sguscia
in bocca per non perdere una goccia;
ogni acino lo riga di delizia
silenziosa...
Guardan gli occhi felici e rassegnati
col grappolo scemare
la sua prima, fors’ultima, dolcezza.
1931
CAMILLO SBARBARO nasce a Santa Margherita Ligure (Genova) il 12 gennaio 1888, esattamente al numero 4 di Via Roma, in pieno centro cittadino. Poeta di discendenza crepuscolare e leopardiana, scrittore, ha legato il suo nome e la sua fama letteraria alla Liguria, terra di nascita e di morte, oltre che d'elezione per non pochi componimenti di rilievo. Sbarbaro visse quasi sempre in Liguria. Lavorò prima nell'industria siderurgica, insegnò greco e latino finché dovette lasciare l'insegnamento per essersi rifiutato di iscriversi al PNF. Fu erborista di fama internazionale, Nel 1951 si ritirò con la sorella a Spotorno. Ha esordito con le poesie di Resine (1911), ma si affermò con Pianissimo (1914) che gli permisero la collaborazione alle riviste «La Voce», «Quartiere latino», «La riviera ligure». Seguirono le prose di Trucioli (1920) e Liquidazione (1928) caratterizzate dal frammentismo e da una ricerca espressiva tra lirica e narra tiva tipici degli scrittori vociani. Nel 1931 pubblicò i Versi a Dina su Circoli, rivista genovese della quale era membro del comitato di redazione insieme con Barile, Grande, Montale, Guglielmo Bianchi, Giacomo Debenedetti e Sergio Solmi. Si tratta di un piccolo canzoniere amoroso formato da cinque poesie nelle quali forse si celano nella figura femminile due donne reali amate dal poeta. Nel dopoguerra ha pubblicato altri volumi di prose dai titoli volutamente riduttivi: Fuochi fatui (1956), Scampoli (1960), Gocce (1963), Contagocce (1965), Cartoline in franchigia (1966) che rievoca l'esperienza di guerra. Ha pubblicato anche le raccolte di poesie Rimanenze (1955), mentre Primizie (1958) risalgono per composizione a prima di "Pianissimo". Tutte le poesie sono state raccolte in Poesie (1961). Ha anche tradotto dal greco (Euripide) e dal francese (Flaubert, Huysmans). Nelle sue prime prose è il vigore dell'espressionisno e moralismo voceiano. Nelle liriche il disagio esistenziale si stempera in una passiva osservazione della vita, tradotto in un linguaggio antioratorio, fissato su tonalità sommesse, tese a restituire una 'verità' psicologica e morale. Sul piano tematico, accanto a un certo 'maledettismo' rimbaudiano e baudelaireiano, è il richiamo alla tradizione carducciana e pascoliana che dà vita a una poesia paesaggistica ("Rimanenze") tipica della produzione ligure. Morì il 31 ottobre 1967 presso l’ospedale San Paolo di Savona, all'età di 79 anni.