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07 dicembre 2021

Beppe Lopez | Capustieddi*

 

Era stato suo padre a volerla chiamare a tutti i costi Leucàdia.  

Solo per bisogno il giovane Oronzo Saracino aveva dovuto emigrare da Leuca, “il posto più magico del mondo”. Il Finimundu. Estremo confine dell’Europa, dove tutto finisce  epperò tutto ricomenza. Dove l’Italia si protende verso gli  antichi, primigenii legami, verso l’Africa nera, e la Puglia verso i suoi legami storici più profondi, l’Albania, la Grecia, Creta, Bisanzio… 

Qui Runzinu era felice con la donna sua, Prisca, che tutti nominavano la Macennulara. Il fatto è che proprio a lui, vantoso della propria identità e di questa striscia di terra battuta dal sole e dal vento fra la scogliera adriatica e la sabbia ionica, insomma leucano tisutisu, era capitato di mettersi e poi di ammogliarsi con una fìmmina di terra, una che Santa Maria De Finibus Terrae non l’aveva mai smicciata manco col cannocchiale. Prisca veniva da Cupertino, dove una volta si filava il cotone e si faticava molto alla macènnula, l’arcolaio. Più esattamente era stato lui ad andare nel paise di lei per la festa di San Giuseppe, con un gruppo di cumpagnuzzi  di Leuca e di Castrignano del Capo. Una festa famosa per le  luminarie strabilianti che lì si appicciavano e si appìcciano  ancora  in  gloria  del  santo  volante,  molto  conosciuto  non  solo nel contado di Galatina dominato da Santu Paulu Meu  delle Tarante ma pure nelle marche anconetane e nella contea californiana di Santa Clara. 

Lì, a Cupertino, come a Lecce, ogni capustieddu era considerato capòtecu. Anzi le due parole – la prima, che indica un vivente in uno dei paisi del Capo di Leuca; la seconda che  definisce  un  vivente  cocciuto,  irriflessivo,  capatosta e mulacchione – erano considerate la stessa cosa. Quando Prisca lo vedette casualmente la prima volta, intuì avvolo che quel ’uagnone rizzurizzu era senza dubbio un capustieddu,  in mezzo a una decina di capustieddi. Eppure gli sorridette  malandrina. Lui corrispondette. E senza dire una parola, si  appartarono e si baciarono. 

Tre o quattro volte, nei mesi successivi, Runzinu tornò a Cupertino, per vedersi e baciarsi ancora con Prisca. Ma poi  lasciò perdere. «Ecco checcosa ti tocca a metterti con un capustieddu» pensò lei di se stessa, rattristata. «Così m’imparu. Ben mi sta!».

Alla festa di San Giuseppe dell’anno dopo, lui a Cupertino ci andò col solito gruppo di cumpagnuzzi di mare e  manco ci pensava più a Prisca. E Prisca, mentre spatriava  sotto le luminarie con le compagnuzze sue, non ci pensava proprio a Runzinu. Ma ad un certo punto s’incontrarono,  casualmente.  Si  vedèttero:  bastò  un’occhiata  per  capire  di non essersi mai perduti né scordati. Così, senza dirsi manco  una parola, decidèttero di appartarsi. Spasseggiarono in due  sino alla Grottella, dove il fraticello Giuseppe Maria Desa  fra un volo e un’estasi colloquiava ai tempi suoi con la Madonna, «la mamma mea». E dietro la Grottella facèttero l’inguacchio. Così, lui dovette preparare l’alcova e tornare un  mese dopo a Cupertino per la fusciuta. Si caricò scususcusu la Prisca con due sacche di roba nella macchina e se la portò  a Leuca. Per la precisione, in due pagliare miracolosamente  sopravvissute, proprio vicino all’officina. Le aveva attrezzate, una a camera da letto e cesso, l’altra a cucina e soggiorno. Telefonò ai suoceri e fissarono il matrimonio riparatore.  Prisca avrebbe preferito continuare a vivere a Cupertino, peraltro più vicina a Lecce e con maggiori possibilità di lavoro per lui. Non voleva allontanarsi dalla casa dei genitori. Ma Runzinu fu irremovibile: Leuca è magica, Leuca è carne della carne mia e deve diventare carne della carne tua, e carne  della carne dei figli nostri. Prisca abbasciò la capa e obbedì.  Ma presto ammettette che sul serio non ci stava paragone  con Cupertino: nel paise suo da signorina ci stavano sempre  confusione e rumori, cafunceddi e ’gnurantuni, qui invece,  nel paise suo da maritata, ci stavano pace e silenzio, onesti fatianti di mare e, d’estate, ricchi signuruni. Diventò pure lei fieramente capustiedda.

Meno male che, quando si trasferì all’ombra del faro, i paisani di Runzinu non la chiamarono Mangiaciucci, come  avrebbero  potuto  fare,  dato  che  i  cupertinesi  portavano pure la nominata, in tutto il Salento, di mangiatori di carne d’asino. La prima a chiamarla la Macennulara, proprio per  evitare lo scorno di quell’altro soprannome, fu la mamma di Runzinu. E tutti, per rispetto, Macennulara pigliarono a  chiamarla.

Ma il destino teneva  in  serbo  ancora  un trasferimento  per lei e per la famiglia che, appena nata, stava già per allargarsi. Prisca era rimasta subito gravida. Runzinu si guardava  attorno, per vedere come abbuscare qualche turnese in più di quelli che mo abbuscava, aggiustando i motori delle automobili dei pochi leucani stanziali che non se li riparavano da soli e, di primavera e d’estate, i motori di una decina di  barche che i soci del Circolo della Vela tenevano riparate nel  vecchio porticciuolo. Tra l’altro, mo bisognava pure pensare a una casa vera e propria, in sostituzione di quella pagliara in cui era trasuto a malapena il letto matrimoniale da una  piazza e mezza.

Da anni e anni si parlava del nuovo porto, che avrebbe  attratto e dato degna sistemazione nella mitica Leuca a centinaia e centinaia di barche, yacht e panfili. Questo avrebbe rotto la silenziosa magia che già aveva affascinato la dea Minerva, forse Enea, certamente San Pietro, pure San Francesco, per non parlare di navigatori, pirati saraceni, condottieri, re, papi, cardinali, Gianni Agnelli, la Regina d’Inghilterra, armatori greci, miliardari sauditi e cafuni arricchiti di Bari e provincia. Tutta gente che si fermava qui solo fra luglio e  agosto. O arrivava, diceva “mo, che bellezza!”, faceva qualche tuffo nella grotta Porcinara o del Diavolo o delle Tre porte, si pigliava una granita ai gelsi rossi al Bar del Porto e 
se ne andava via, lasciando in definitiva Leuca così come l’aveva trovata. Il porto, il porto nuovo, grande e accogliente, era un’altra cosa. Niente sarebbe stato più come prima. Tutto travolto e stravolto. Ma in compenso avrebbe dato lavoro – queste almeno le aspettative – a decine e decine di leucani, finalmente non più costretti a emigrare per abbuscarsi un piezzu di pane. 

Runzinu aspettava da anni e anni questa novità, con molta  preoccupazione  perché  sapeva  che  lo  sviluppo  avrebbe  cancellato l’incantesimo della Leuca sua, ma anche con un filo di speranza: un lavoro! una mesata più o meno stabile! Sinceramente,  non  sapeva  checcosa  augurarsi.  Ma,  tanto,  del porto si parlava soltanto. E mo aveva una moglie e un figlio (o una figlia) in arrivo. 

Arrivò prima, in porto, la Irwin. Una barca a vela monoalbero, nuovissima, sette metri e settanta di costruzione  americana. La manovrava da solo Atfried, un giovane alemanno  dalla  barba  rossa  trasandata.  Come  Runzinu  poi venette  a  sapere,  era  l’erede  di  una  dinastia  di  costruttori di automobili di Hannover. Aveva fatto da solo il giro del Mediterraneo.  Partendo  da  Genova,  passando  per  Maiorca, toccando l’Algeria, la Tunisia, la Libia, l’Egitto, Cipro, la Turchia,  Creta,  la  Grecia,  il  Montenegro…  Nel  canale d’Otranto il motore si era inaspettatamente astutato. E non aveva voluto più riappicciarsi. A Leuca era arrivato a vela. Teneva fretta. Doveva subito rimettere in funzione quel cazzo di motore entrobordo Yanmar a sette cavalli e tornare in  patria. Lo aspettava un importante impegno: spartizione di quote azionarie e decisioni strategiche per l’azienda a controllo familiare.

Runzinu si pigliò in carico barca e skipper. Con Prisca, si adattò a dormire dalla mamma e invece Atfried si piazzò buenubuenu nella pagliara con il letto. Aveva da essere questione di una sola notte, al massimo di due. E invece il crucco rimanette a Leuca per una decina di giorni. Un  poco perché costretto da un motore che non voleva saperne di riportarlo in mare e da pezzi di ricangio prenotati a Lecce ma che tardavano ad arrivare. Un poco anche perché gli piacettero molto la compagnia di Runzinu, la cucina leucana e la strabiliante natura del Capo, gli scogli del Ciolo a strapiombo sul mare, la grotta della Zinzulusa, la scoperta  di Otranto, la bellezza e i frutti di mare crudi di Gallipoli…Per più di una semana, stettero dalla mattina alla sera insieme. Mettevano mano al motore della barca, mangiavano  sulla terrazza a mare della trattoria Mienzuquintu, pigliavano il caffè da Lupo di Mare... Quando il motore finalmente  si riavviò, Atfried sarebbe rimasto ancora, forse per sempre. 

Si avvertette di essere incantato da Leuca e diventato quasi un fratello con Runzinu. Ma le telefonate che gli arrivavano da Hannover erano diventate drammatiche, ricattatorie. Avrebbero proceduto al riassetto azionario e alle scelte strategiche aziendali senza di lui, “contro di me”. Dovette quindi andare via, facendosi da solo tutto l’Adriatico, portando  la barca a Trieste. 

— «Noi ci dobbiamo rivedere» dicette il tedesco al leucano  prima  di  partire.  «Ma  tu  non  puoi  rimanere  qui.  Con  la  famiglia poi, col figlio in arrivo! Certo, dovresti rimanere in Puglia, così, quando io posso, scendo e torniamo da queste parti. Ma non puoi vivere a Leuca, almeno sino a quando non fanno il porto».

— «E dove vado? Dove posso guadagnarmi da vivere, per me e la famìgghia mea?».
— «So io dove andrai» gli rispondette sorridendo Atfried. 
—«Ma per ora non ti posso dire niente. Salvo che riceverai presto una bella notizia».

Dopo un paio di mesi, quando Runzinu ci aveva già messo una croce su quella promessa, la notizia arrivò. Bella e brutta. A Bari si apriva la succursale unitaria di tre marche automobilistiche tedesche e lui era assunto come capofficina. Finalmente uno stipendio e che stipendio! Ma doveva lasciare Leuca. E mentre lui avrebbe cercato un appartamento a Bari, Prisca avrebbe avuto il tempo di sgravarsi (era all’ottavo mese), prima di trasferirsi anche lei nel paise di Santa Nicola.

Dopo una semana di dubbianza, di discussioni e di notti insonni, Runzinu partette per Bari.

Passarono appena una ventina di giorni e arrivò l’attesa telefonata: vieni, corri, sta per nascere. E come voleva lui, la  figlia nascette a Leuca. Lui avrebbe preferito ovviamente un bel capustieddu, ma comunque era arrivata una capustiedda. La criatura vedette la luce nella pagliara, con l’ausilio della vecchia mammana che aveva tirato fuori pure lui dal ventre della mamma sua. Alla vecchia maniera, in casa. Come una  vera capustiedda.

Oronzo andò al municipio di Castrignano per dichiarare la nascita. Iscrivette all’anagrafe sua figlia con il nome pronto da mesi: Leucàdia. Se fosse nato un maschio, l’avrebbero chiamato Meliso, la mitica figura che aveva dato il nome allo scoglio che, secondo i leucani, divide l’Adriatico dallo Ionio. Divisione alla quale, secondo altri, si assiste invece a Punta  Palascìa, detta anche Capo d’Otranto, lo «sperone di terra più orientale d’Italia» e, secondo altri ancora, a Punta Mucurune di Castro. Ma Runzinu aveva tenuto per sé il nome Leucàdia, non ne aveva manco accennato alla mogliera, pure perché  sperava,  anzi  dava  quasi  per  scontato,  che  sarebbe nato un masculieddu.

«Leucàdia? Ma stai a ’mpazzisci? Non pueti chiamare così ’na femminedda!» aveva subito reagito Prisca. «Io rinuncio a chiamarla in onore di San Giuseppe mio… No, no Giuseppa, lo so che è brutto, ma Iosè, come la principessa di Savoia... Non ti piace Iosè? E vabbè. Ma se proprio vuoi dedicare il nome suo alla bianca Leuca, chiamiamola Alba, Chiara, Bianca,  Candida…  Ma  Leucàdia  mi  pare  troppo  antico. Come si fa a chiamarla così ogni giorno? Ma si’ pacciu?».

«Guarda che questo nome deve rimanere impresso nella vita di nostra figlia» la zittiva Runzinu «a maggior ragione mo, dato che dobbiamo abbandonare la patria nostra e rischiamo di perdere le radici. E poi, questo non è solo il nome della sirena che fondò Leuca. Si chiama così anche la protagonista di una novella di Cervantes, quello di Don Chisciotte. E addirittura un asteroide, scoperto nel 1921». «Ma  che  c’entra?  E  poi,  come  la  dobbiamo  chiamare, ogni giorno?» chiedette ancora smarrita Prisca.

«La chiameremo Lele» rispondette sicuro Runzinu.


* Capitoletto del romanzo Capibranco (Besa Muci, Nardò: Lecce, 2021)


BEPPE LOPEZ Nato a Bari nel 1947, nel quartiere Libertà. Ha cominciato a scrivere sui giornali, da giovanissimo, nel 1963. Giornalista professionista dal 1976, è stato per vent'anni cronista parlamentare. Si occupa in particolare di politica interna, di informazione e comunicazione, di progettazione e gestione editoriale, e di giornali locali. Ha pubblicato inchieste, note e commenti sulle più importanti testate italiane, fra le quali (in ordine cronologico): l'Avanti! e Mondo Operaio diretti da Gaetano Arfè, Il Giorno diretto da Italo Pietra, Tempo illustrato e Affari economici diretti da Nicola Cattedra, Il Ponte diretto da Enzo Enriques Agnoletti, Il Mondo diretto da Antonio Ghirelli, ABC, Il Corriere dello Sport, SettimanaTV (1974-75), La Repubblica, il Manifesto, l'Unità, Numero Zero, Galassia, Prima Comunicazione, Il Mattino, La Gazzetta del Mezzogiorno, La Sicilia, Liberazione, Left.  Cronista politico e direttore di giornali, poi saggista e narratore, ha attraversato e raccontato mezzo secolo di storia italiana. Ha partecipato alla fondazione di La Repubblica, ha collaborato con le più importanti testate nazionali e diretto l’agenzia Quotidiani Associati, giornali e riviste. È in rete con il suo sito Informazione e democrazia (www.infodem.it) e con un blog su www.ilfattoquotidiano.it. Ha pubblicato numerosi saggi, racconti storici e i romanzi. Ha esordito come narratore con Capatosta (2000), divenuto subito un importante caso letterario, proseguendo con Mascherata reale (2004), La scordanza (2008) e La Bestia! (2015). Oltre alla brillante carriera giornalistica, ha pubblicato racconti storici e saggi sul giornalismo, ottenendo uno straordinario successo editoriale in particolare con La casta dei giornali (2007). Di notevole rilievo per la cultura e la musica popolare italiana la sua biografia di Matteo Salvatore, L’ultimo cantastorie (2018).