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06 dicembre 2021

Alfonso Berardinelli | La poesia italiana dopo il 1945


Dopo la fine della seconda guerra mondiale, con la pubblicazione dei primi nuovi librí, una cosa e chiara: l'ermetismo e anda to in pezzi, non si puo piú essere oscuri per programma. Non si tratta di inventare metafore sempre nuove e piú audaci, perfezíonando o ripetendo le invenzioni dei simbolistí. Sarebbe un po' lungo spiegare in poche parole che cosa fu l'ermetismo: ma forse uria formula riassuntiva potrebbe essere questa: specializzare il linguaggio lírico, allontanarlo il piú possibile dalla prosa e dalla lingua d'uso, e infine, forse, ritrovare Petrarca e lo Stilnovo passando attraverso Mallarmé e Góngora (entrambi tradotti da Ungaretti). 

Almeno due libri —di poeti giovani, esordienti o quasi— fanno capire che la guerra e la resistenza (contro nazistí e fascisti) hanno cambiato anche il linguaggio poetico: questi libri sono Diario d'Algeria (1947) di Vittorio Sereni, e Foglio di Via (1946) di Franco Fottini. In quegli anni, tutto il Novecento poetíco e tutta la storia della modemita cominciano ad essere interpretati in modo · diverso. Due esempi: anche il piú manierista, e forse il piú ingenuo, dei maestri dell'ermetísmo, cioè Salvatore Quasimodo (premio Nobel 19'59), diventa un poeta politíco e engagé. Proprio in una raccolta di Quasimodo, Con il piede straniero sopra il cuore (1946), la svolta appare piú evidente e clamorosa. L'ermetismo si trasforma in eloquente poesía pubblica:


E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull' erba dura di ghiaccio, al lamento
d' agnello dei fanciulli, all'urlo nero
della madre che andava contro il figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
alle fronde dei salid, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.

                                                       da: Con il piede straniero sopra il cuore (1946)


Qui di nuovo si parla di silenzio necessario: ma ora l'ineffabile coincide con la violenza della storia, el' eccesso di dolare di fronte al qua le i poetí tacciono impotenti. 

Ma dopo il 1945 è Umberto Saba (poeta dallo stile molto tradizionale, che mette in musica, anche con metri e rime facili, un sostanziale realismo psicologico) a imporsi e diventare sempre piú importante. L'ermetismo viene accusato di essere una poetica evasiva, oscura per incapacità di parlare della malattia política e morale italiana che aveva portato al fascismo, e Saba viene visto come la negazione dell' ermetismo. Saba era la dimostrazione che si poteva essere poeti moderni in modo del tutto diverso, ignorando il simbolismo, lavorando con altri mezzi, usando la tradizione poetica italiana senza imitarla. Del 1945 e la seconda edizione, rielaborata, del Canzoniere. La influenza di Saba sará crescente, rafforzata dalla pubblicazione di molte prose aforistiche, narratíve (Scorciatoie e Raccontini, 1946) e di autocommento (Storia e cronistoria del Canzoniere, 1948). Appartiene alla sua nuova raccolta Mediterranee (1946) una famosa dichiarazione di poetica, vero e proprio manifesto minimo e lapidario: 


Amai trite parole che non uno
osava. M'incanto la rima fiore
amare,
la più antica difficile del mondo.

Amai la verita che giace al fondo,
quasi un sogno obliato, che il dolare
riscopre amica. Con paura il cuore
le si accosta, che più non si abbandona.

Amo te che mi ascolti e la mía buona
carta lasciata al fine del mió gioco.

                                                           da: Mediterranee (1946) 


Diario d'Algeria di Sereni viene pubblicato nel 1947. E i1 libro di poesia piú importante uscito dagli anni della guerra. Anche se di guerra Sereni ne ha fatta poca: e fatto prigioniero nel '43 dagli ínglesi e passa due anni nei campi di prigionia in Africa. Questo è nello stesso tempo un caso particolare ma anche típico: Sereni e un soldato che non combatte, e in attesa che finisca una guerra voluta dal fascismo e che a molti italiani sembrava assurda: la Germania di Hitler era militarmente preparata alla guerra, mentre l'Italia no. L'Italia di Mussolini era un regime incoerente e retorico, fondato sull'odio-amore per i grandi imperi coloniali dell'Inghilterra e della Francia, grandi nazioni protagoniste della moderna storia europea. Il tono della voce di Sereni e il tono dell'impotenza e della sconfitta (morale, anche se non militare). Qualcosa di molto nuovo c'è già nel titolo: non piú un titolo enigmatico, pieno di misteriose e sottili allusioni, come era di moda tra i poeti ermetici (Ungaretti: Sentimento del tempo; Montale: Le Occasioni; Luzi: Avvento Notturno). Ora si parla di un «diario», come un quaderno di appunti autobiografici, e si precisa il luogo geografico reale, l'Algeria. La poesia rientra cosí nella dimensione biografica e storica: non si muove in una realta parallela, in nn mondo separato, in una super-lingua speciale. Qualche critico (per esempio Giacomo Debenedetti) ha parlato di un esistenzialismo di Sereni. Non piú ontologia ed essenze, ma appunto una esistenza definita dai dati, da riferimenti di luogo e di tempo: l'io che parla non e l'io trascendentale della lirica, e l'io empirico. E cosí continuerà ad essere, Sereni, poeta di pochissimi libri (Gli Strumenti Umani 1965, e Stella Variabile, 1981): libri pieni di dubbi, scritti da un poeta che non si sente continuamente poeta, che si meraviglia persino delfatto che si continui a scrivere versi: perche nè il poeta nè l'arte poetica per Sereni hanno un'identità stabile e un'esistenza garantita. Una sola osservazione stilistica: Sereni tiene insierne versi con una evidente musicalità tradizionale e versi che non sembrano versi, ma semplici frasi senza musica.

Tutto questo è chiaro in un componimento íntitolato proprio «I versi»:


Se ne scrivono ancora.
Si pensa ad essi mentendo
ai trepidi occhi che ti fanno gli auguri
l'ultima sera dell'anno.
Se ne scrivono solo in negativo
dentro un nero di anni
come pagando un fastidioso debito
che era vecchio di anni.
No, non e più felice l'esercizio.
Ridono alcuni: tu scrivevi per l'Arte.
Nemmeno io volevo questo che volevo ben altro.
Si fanno versi per scrollare un peso
e passare al seguente. Ma c'è sempre
qualche peso di troppo, non c'è mai
alcun verso che basti
se domani tu stesso te ne scordi.

                                                     da: Gli Strumenti Umani (1965) 



L'autore dell'altro libro poetico, Foglio di Via (il titolo si ríferisce al documento delle autorità della resistenza anti-nazista con cui si certifica una missione da compiere), Fortini, era un poeta di qualche anno piú giovane di Sereni, ma molto piú immaturo (una precisazione: si potrebbe dire che Fortini, come poeta, non diventerà mai «maturo»: vorrà restare acerbo e aspro, senza nessuna dolcezza e pienezza). Fortini, morto alla fine di novembre del '94, era cresciuto nel clima dominato dall'ermetismo fiorentino. E in lui l'ermetismo, dal primo all'ultimo libro (Poesia ed Errore, 1959; Una volta per sempre, 1963; Questo muro, 1973; Paesaggio con serpente, 1984; Composita Solvantur, 1994) e sempre operante e sempre respinto. Ma Fortini, piú che un poeta importante, e stato uno scrittore di saggi letterari e politici di grande intelligenza: marxista eretico —sempre eretico ma anche sempre marxista—, come ogni eretico aveva bisogno che una qualche ortodossia esistesse, altrimenti non riusciva a esprimersi.

Quello che si puo aggiungere, molto in generale, e che tutta l'opera in versi e in prosa di Fortini porta i segni, le cicatrici della guerra: la sua ha continuato ad essere l'opera di uno scrittore che, anche in tempi di pace apparente, continua a vedere una guerra in corso, guerra tra chi e in possesso di diversi strumenti di potere e chi non ne ha. 1 suoi versi percio hanno sempre voluto essere sgradevoli, tesi, duri, gelidi, consapevoli: come dev'essere chi è impegnato in una lotta presente, e il mondo è ostile e infido, e solo il futuro puo promettere qualcosa. Negli anni dello sviluppo neo-capitalistico italiano e delle lotte operaie e studentesche, cioè dal 1958 al 1975, Fortini scrive molti saggi teorici, molti articoli di polemica política, influenzando le generazioni piú giovani: il mio primo libro è un libro su di lui, che mi pareva, allora, come un maestro dell'autocoscienza politica dello scrittore.1 Le sue poesie continuano ad avere il linguaggio di chi è assediato, di chi sa che «la poesia non muta nulla», che è una forma culturale in cui si sono sempre espresse le classi che hanno il potere o che lo sostengono: la sua vocazione e ossessione era portare all'intemo della poesia la coscienza che esistono le classi sociali ed esiste una guerra aperta o nascosta fra loro. Vediamo «Gli ospiti», del 1973:


     I presupposti da cui moviamo non sono arbitrari.
La sola cosa che importa è
il movimento reale che abolisce
lo stato di cose presente.
         Tutto e divenuto gravemente oscuro.
Nulla che prima non sia perduto ci serve.
La verità cade fuori della coscienza.
Non sapremo se avremo avuto ragione.
Ma guarda come pendono le loro stuoie
atraverso la tua stanza.
        Come distribuiscono le loro masserizie,
come spartiscono il loro bene, come
fra poco mangeranno la nostra verità!
Di noi spirtit curiosi in ascolto
prima del sonno parleranno.

                                                da: Questo muro (1973)


Il clima morale e político della fine del fascismo, della nascita della democrazia e di una rivoluzione sempre possibile e sempre impossibile, resta il clima dominante nei libri di Fortini, fino a questi ultimi anni, prima della morte.

Intorno alla metà degli anni '50 si ha la rivelazione di un poeta che mostra subito di avere il carattere del protagonista, sempre al centro della scena: esprimendosi non solo con i mezzi della poesía, ma anche con la narrativa, il giornalismo, il cinema. Questo protagonista è Pier Paolo Pasolini (1922-1975): la sua poesia non è certamente la migliore, a volte è un po' troppo immediata, scritta in fretta, con qualche eccesso retorico ed esibizionistico. Ma Pasolini è sempre in cerca della forma piú adatta e piú efficace, non solo per esprimersi, per confessarsi in publico, ma anche per essere presente nell'immaginazione dei lettori, per conquistare il pubblico, quasi sempre con la provocazione e  l'aggressione. Come poeta politico Pasoüni e molto diverso da Fortini: non ha inibizioni ideologiche, crea il proprio personaggio e lo mette sempre in scena. Sono due eretici che non si trovano mai d'accordo. Per esempio: quando Fortini critica duramente il Partíto Comunista (come una forma addolcita, accettabile ipocrita di stalinismo: nessuna liberta intellettuale nel Partito), Pasolini invece lo difende (come unica forma di espressione politica, anche se nútologica, del «popolo»); quando Fortini appoggia i movimenti anti-autoritari del '68, Pasolini critica gli studenti e li definisce piccolo-borghesi: negli scontri perle strade fra studenti e polizia, secondo Pasolini i figli del popolo, gli alienati, gli sfruttati sono i poliziottí, non gli studenti, che, secondo lui, sono i figli della classe. dirigente, odiano la tradizione culturale e sono pronti a sostituire il vecchio potere borghese con un nuovo potere borghese piú moderno e forse peggiore.

Como si vede, si sono poeti che è impossibile descrivere senza parlare di società e pohtica. Fortini e Pasolini, in particolare, fanno parte di questa categoria: anche perchè sono ideologi, pensano in versi, e lo scambio fra la loro opera in prosa e le loro poesie e uno scambio costante.

Pasolini elabora anche una sua poetica dello «sperimentalismo»: secondo questa idea, la poesia e un genere letterario che si dilata, si allarga, si espande rifiutando ogni confine troppo preciso. Pasolini usa molti linguaggi, dalla critica letteraria al cinema: e anche nella scrittura poetica (e in ogni altra singola forma scelta) niente viene escluso: appunti di diario, giornalismo, discussione ideologica, confessione apertamente autobiografica. Nelle sue descrizioni di Roma e della sua periferia troviamo anche termini e forme descrittive che vengono, per esempio, dalla critica d'arte. Nel Novecento questo e un fenomeno nuovo: studiando Pascoli, Pasolini costruisce una particolare forma di poesía lunga, il poemetto diviso in varie partí: con un filo di racconto, con un tema ideologico, una situazione autobiografica e politica da esprimere, alcuni luoghi precisi, scenari e paesaggi che fanno da cornice e da sfondo. Già i poemetti raccolti nel suo libro piú famoso, Le ceneri di Gramsci  (1957), potrebbero esser definiti degli articoli o saggi autobiografici e ideologici scritti in versi (terzine irregolari: la sua e come una terzina di Dante rallentata, piú molle, un po' sfatta, con rime imperfette e incostanti, e versi che sono spesso, rna non sempre, della misura dell'endecasillabo). Il linguaggio poetico di Pasolini è a metà strada fra l'impazienza e l'improvvisazione giornalistica da un lato, e la nostalgia per le forme classiche dall'altro.


La poesía di Pasolini, la prima in dialetto friulano (La Meglio Gioventú, 1954), e la seguente in lingua (Le ceneri di Gramsci 1957; La religione del mio tempo, 1962; Poesia in forma di rosa, 1962; Trasumanar e organizzar, 1971) è spesso effusiva, troppo immediata e troppo manieristica, stilisticamente instabile per un talento di improvvisazione patetica e oratoria. Ma col passare degli anni, l'impazienza e l'inquietudine, il desiderio di presenza e di comunicazione rendono la struttura formale sempre piú fluida, aperta: la convenzione metrica tende a sparire. La scrittura di Pasolini diventa sempre piú una forma di giomalismo non professionistico, il giomalismo di un poeta che conosce tutte le arti della retorica: e usa anzitutto la «psicagogia», l'arte di muovere e colpire direttamente la dimensione emotiva del lettore, provocando (come di fatto e avvenuto) delle forti reazioni di rifiuto o di consenso. Tuttora, a vent'anni dalla sua morte, Pasolini è capace di suscitare passioni e conflitti di idee fra i suoi lettori: nessun altro poeta italiano, dopo D'Annunzio (letterariamente piú falso) era riuscito a fare tanto. Ma D'Annunzio era un esteta. Pasolini e un moralista, un uomo ferito, un giudice severo della società italiana e della sua modernizzazione:


lo sono una forza del passato. . .
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d'altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l'Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti del Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d'anagrafe,
sull'orio estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
piú moderno di ogni moderno
a cercare i fratelli che non sono piú.

                                                          da: Poesia in forma di rosa (1962)


Ho nominato poco fa un termine fatale: sperimentalismo. Si tratta di un termine e di una tendenza che ebbero molta fortuna per circa dieci anni, dal 1955 al 1965, cioè dalla crisi del neo-realismo agli anni dominati dalla cultura política, anti-autoritaria e anti-imperialista (dal 1966 al 1978, anno dell'assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse). Con il termine sperimentalismo si indicava di solito l'idea che il linguaggio poetico fosse uno stato di fluidità e di instabilità: e che quindi poesia e prosa fossero ipotesi provvisorie e proposte formali, non prodotti definítivi. Era una reazione all'idea tradizionale dell'arte come compiutezza e perfezione, ed era un tentativo di superare razionalmente il cosiddetto irrazionalismo delle avanguardie (non si deve dimenticare che in quegli anni si leggevano molto Lukács e Gramsci). L'avanguardia perdeva la sua ideologia ( estremistica, nichílista, provocatoria) e diventava un modo tecnico di lavorare sul linguaggio. Intanto, nel 1961, nasceva ufficialmente, con l'antologia I Novissimi, un nuovo gruppo d'avanguardia. 1 poeti piú interessanti erano Elio Pagliarani e Eduardo Sanguineti, teorico del gruppo e studioso di Dante. La categoría di sperimentalismo viene ripresa e agisce fino al Manuale di poesia sperimentale  di Elio Pagliarani e Guido Guglielmi (1966), antologia nella quale convivono Edoardo Sanguineti e Pasolini, Andrea Zanzotto e Giancarlo Majorino, Luciano Erba e Giovanni Giudici, Giovanni Raboni e Roberto Roversi.

Potrei fare lunghi discorsi sui rapporti e le differenze, non sempre chiari, fra sperimentalismo e neo-avanguardia. Preferisco piuttosto indicare un fatto: che in quegli anni e molto forte in tutti i poeti la ricerca di un linguaggio adeguato alla nuova realtà: la realtà social e dello sviluppo industriale italiano, che fu molto veloce. Si parlava di neo-capitalismo, di alienazione, di mercificazione di tutta la cultura, e anche della lingua. Alcuni fonnularono questa teoria: una lingua che comunica e come una merce, rifiutare il mercato e la mercificazione generale sara possibile, nel linguaggio, solo se si rifiuta la comunicazione. La neo-avanguardia voleva fare non poesia, ma anti-poesía, non romanzo, ma anti-romanzo. Questa neo-avanguardia, molto marxista e molto anarchica nello stesso tempo, era influenza ta in parte dall' estetica di Adorno, secondo cui il compito dell'arte nella societa razionalizzata e mettere caos nell' ordine.

In tal modo, però, i testi poetici diventavano illeggibili: perdevano non solo il valore di scambio o di mercato, perdevano anche ogni possibile valore d'uso. Diventavano oggetti linguistici misteriosi: che era possibile analizzare e lungamente giustificare sul piano teorico. Quello che non era possible era semplicemente leggerli. Testi da museo o da laboratorio universitario. Sono poche le poesie della neo-avanguardia italiana che restano interessanti anche oggi. La cosa peggiore che nacque in quegli anni è una specie di tecnica della distruzione del significato: nasce un anti-stile un po' mostruoso, anche se in sostanza inoffensivo, perche non parla di niente. Questa poetica del vuoto semantico ha contagiato almeno due generazioni successive, facendo della poesia un genere privo di regole —o piú precisamente dominato da una sola regola: la fuga dal significato.

Come si capisce subito, lo sperimentalismo di Pasolini era una cosa completamente diversa. Pasolini parlava, parlava di sé, parlava di politica, di sotto-proletariato, degli orrori della piccola borghesia italiana: parlava anche troppo. Era un personaggio-poeta che era egli stesso. Le sue lunghe poesie, i suoi monologhi in versi (i suoi poemetti civili degli anni '50 si trasformano, vent'anni dopo, negli articoli chiamati «scritti corsari» e «lettere luterane») hanno un tono inconfondibile. Nel suo linguaggio scritto sembra di sentire la sua voce: la sua poesia ha sempre una forte carica vocale.

In una zona vicina, o a metà strada fra Pasolini e l' avanguardia informale e astratta (che voleva imitare con il linguaggio verbale pittori come Pollock o musicisti come Stockhausen) ci sono due poeti: Andrea Zanzotto e Amelia Rosselli. Sono due veri e propri temperamenti lirici, nel senso piú dassico del termine: le loro poesie sono visioni cosí intense e immediate da creare un senso di smarrimento e di vertigine. La loro non e un'esperienza simulata, non e fatta di esperimenti senza rischio, prodotti in laboratorio. Ma il loro laboratorio e la loro stessa vita, la vita della mente —e anche di quella diversa forma della mente vivente, della mente concreta, che è il corpo. Ho parlato di temperamento lírico perche, a differenza di Sereni, Fortini, Pasolini, nel loro caso le poesie si reggono piú sull'intensita che sulla costruzione: la loro sintassi spesso finge disperatamente il ragionamento, la riflessione. Ma quello che conta, e che impedisce o paralizza la continuità logica, discorsiva del pensiero, e il dato dell'esperienza che diventa linguaggio. Il loro è davvero un monologo: con tutti i rischi di chi parla a se stesso, rischi di trasformare la lingua in un idioletto o quasi: in una lingua che viene istituita da un solo individuo per i1 suo solo uso personale.

La cosa interessante e che questa esperienza di un soggetto che rischia l'autismo (e varíe forme —reali— di pensiero schizoide o paranoide) mostra proprio il linguaggio lírico come un corpo linguistico invaso da tutte le patologie. In questi due poeti lirici toma qualcosa di originario, di arcaico: si comportano un po' come sciamani, maghi, profeti, sibille. La loro forma ricorda spesso l'inno o l'oracolo. Zanzotto e sempre molto consapevole dei mezzi letterari che usa e della tradizione poetica europea (i suoi autori sono Virgilio bucolico e georgico, Petrarca, Holderlin, Leopardi e tutta la corrente dal simbolismo al surrealismo: sopra tutto Ungaretti, Éluard, García Lorca). Su questa tradizione ha lavorato prima (Dietro il paesaggio, 1951; Vocativo, 1957) in forma melanconica e manieristica, piú tardi (da IX Ecloghe, 1962, e La Beltà, 1968, in poi) Zanzotto fa un lavoro che si potrebbe chiamare decostruzione psicolinguistica del linguaggio poetico: la sua diventa meta-poesía, poesia che

riflette sulla poesía: origini psichiche, meccanismi di costituzione delle immagini, del lessico, della sintassi. Zanzotto e un sofisticato analista di se stesso (legge e rilegge Jacques Lacan, oltre che Virgilio). Ma e anche un bambino (ego-népios dice di sé, mettendo insieme latino e greco), un infante che impara ogni volta il linguaggio: balbetta, ripete, trasforma i ritomi di rime in ecolalie: procede come per un infantile accanimento ludico-sadico. Costruisce e decostruisce, come in un Kindergarten: e usa tutti i pezzi da costruzione: un endecasillabo un po' petrarchesco, una citazione da Hölderlin, un modo di dire popolare o del suo dialetto veneto; come in questa «Sí, ancora la neve»:


       Che sarà della neve
che sarà di noi?
Una curva sul ghiaccio
e poi e poi ... ma i pini, i pini
tutti uscenti alla neve, e fin l'ultima età
circondata da pini. Sic et simpliciter? 
E perché si è —il mondo pinoso, il mondo nevoso—
perché si é fatto bambucci-ucci, odore di cristianucci,
perché si è fatto noi, roba per noi?
E questo valere in persona ed ex-persona
un solo possibile ed ex-possibile?
Hölderlin: «siamo un segno senza significato»:
ma dove le due serie entrano in contatto?
Ma e vero? e che sara di noi?
E tu perché, perché tu?
E perché e che fanno i grandi oggetti
e tutte le cose-cause
e il radiante e il radioso?
il nucleo stellare
là in fondo alla curva di ghiaccio,
versi invettive calligrammi ricchezze, sí,
ma che sará della neve dei pini
di quello che non sta e sta là, in fondo?

                                                              da: La Beltà (1968)


A tutto questo vorrei aggiungere una considerazione: da molti anni mi sembra che Zanzotto si comporti con quella certa astuzia che hanno spesso i nevrotici: cioè è viziato dalla critica accademica, che subito si mette al lavoro per spiegare, analizzare, in modo apologetico, qualunque testo Zanzotto scriva: anche se il testo è quasi brutto, da riscrivere meglio, e forse davvero è senza significato (o ha quel significato che hanno, semplicemente, i sintomi perla diagnostica medica).

Sotto gli enigmi, le ripetizioni, le variazioni, i ritomi ossessivi del linguaggio di Amelia Rosselli c'è qualcosa di diverso: una situazione piú severa, davvero di tipo artistico e paranoide. Una volta, volendo dare una definizione molto veloce (e un po' mitologica) di Amelia Rosselli, l'ho chiamata «Alice e Cassandra della nostra poesía». Sembra caduta in un mondo rovesciato, un mondo dalle dimensioni imprevedibilmente variabili, dove tutto puo animarsi di intenzioni ambigue, minacciose, persecutorie. Si ha l'impressione della favola e del gioco: ma anche della paura, della crudeltà, della frustrazione, dell'incubo. E poi spesso appare un tono alto, severo, tragico: da profezia semifolle, che comunque ha tutto il tono della verita, e spesso le parole piú realistiche. Forse per capire questa poesia puo essere utile chiarire qualche circostanza biografica.

Amelia Rosselli e nata a Parigi nel 1930: il padre era un esiliato antifascista, la madre era inglese. Piú tardi suo padre fu ucciso in Francia da sicari di Mussolini. Amelía Rosselli, prima di venire in Italia negli anni '50, ha vissuto a Parigi, negli Stati Uniti, in Inghilterra. E dunque (senza dubbio, ma anche senza volerlo) la piú cosmopolitica dei poeti e scrittori italiani. E questo ha delle immediate conseguenze sulla sua poesía. Amelia Rosselli non ha il senso della tradizione poetica italiana (molto lunga e anche pesante): il suo linguaggio si forma in una dimensione molto vicina alla prosa e alla conversazione: la densita formale e dovuta alle ripetizioni, variazioni e immagini ossessive: si puo pensare a qualcosa fra John Donne e i surrealisti, tra il ragionamento filosofico e il collage. Nel suo sistema di immagini c'è qualcosa di profondamente instabile: sarebbe facile dire che si sente una mancanza di residenza, di abitazione, di habitat stabile e certo. C'è un partire, un andare, un muoversi —ma non è chiaro da dove e per dove, e perchè. Infine la lingua: Amelía Rosselli parla e scrive, in modo imperfetto, l'italiano, il francese e l'inglese (ha scritto poesie anche in queste altre lingue): in ognuna di queste lingue è un po' estranea e straniera, come arrivata da poco: lapsus, errori naturali o voluti, strane forme lessicali, invenzioni involontarie. Amelia Rosselli non e di casa neppure nella lingua che usa: e questo rende piú intenso, piú concreto il suo rapporto con le parole.

Le sue poesie sembrano meteoriti con un aspetto famigliare, caduti violentemente qui, vicino a noi, da chissà dove. Per lei le straniamento, la Verfremdung (che è poi cosí presente nelle poetiche del Novecento) e un dato di fatto, una condizione biografica e linguistica. Non è una scelta, né una teoría, né un programma. Il suo sperimentalismo è il modo naturale in cui cerca di usare la lingua: ogni volta che scrive cerca di scrivere, fa delle prove. E sembrano le prove di chi cerca, al buio, di uscire da una stanza (da una prigione?) e non sa dov'è la porta.


Contiamo infiniti cadaveri. Siarno l'ultima specie umana.
Siamo il cadavere che flotta putrefatto su della sua passione!
La calma non mi nutriva il sol-leone era il mio desiderio.
Il mio pio desiderio era di vincere la battaglia, il male,
la tristezza, le fandonie, l'incoscienza, la pluralità
dei mali le fandonie, le incoscienze le somministrazioni
d'ogni male, d'ogni bene, d'ogni battaglia, d'ogni dovere
d'ogni fandonia: la crudeltà a parte il gioco riposto
attraverso il filtro dell'incoscienza. Amore amore che
cadí e giaci supino la tua stella è la mía dimora.
Caduta sulla linea di battaglia. La bontà era un ritornello
che non mi fregava ma ero fregata da essa! La linea di
demarcazione tra poveri e ricchi.


                                                           da: Variazione Belliche (1964) 


Un interrogativo o  a: quando comincia il Novecento? la risposta piú ovvia è nella cronología. Ma i fatti culturali non rispettano sempre perfettamente la cronologia. I poeti moderni in Italia nascono tutti fra il 1880 e il 1890, e il linguaggio della modemità non è di un solo tipo ma di molti tipi. Ho scritto un saggio per dimostrarlo.2 Ma adesso devo dire qualcosa su quel momento particolare in cui il Novecento finisce, o sembra finire, o cambia improvvisamente volto, o si rovescia. Volendo prendere un anno preciso, si  dovrebbe dire: il 1971, cioè l'anno nel quale Eugenio Montale pubblica il suo  quarto libro, Satura, a settantacinque anni, dopo circa quindici di silenzio: La Bufera e altro, il libro inunediatamente anteriore, e del 1956. E volendo scegliere  un decennio, si dovrebbe dire: gli anni '70; anni nei quali Montale pubblica in poco tempo circa metà di tutta la sua opera, anni nei quali si presenta una giovane generazione di poeti (Il pubblico della poesia, l'antología di poeti nuovi che ho curato in collaborazione con Franco Cordelli e del 1975; vi si includono testi degli autori più notevoli diquegli anni: Dario Bellezza, Giuseppe Conte, Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Giorgio Manacorda, Nico Orengo, Renzo Paris, Gregorio Scalise, Valentino Zeichen). Sono soprattutto anni nei quali diventa sempre piú evidente l'importanza di un poeta considerato finora un po' marginale: Sandro Penna (1906-1977); marginale per difficolta di collocazione, per astoricita e assolutezza lirica.

Il termine post-moderno è un termine rriolto usato, molto discusso, che alcuni ritengono essenziale e altri ritengono superfluo. Però devo dire che, se si considera lo strano caso di Eugenio Montale e di Sandro Penna, e il loro significato nella poesia italiana, il termine post-moderno diventa una forte tentazione. Vediamo perchè.

L'opera poetica di Montale e quasi perfettamente divisa in due parti: la prima parte, che comprende i suoi libri piú famosi (Ossi di Seppia, 1926; l.e Occasioni, 1939; La bufera e altro, 1956) è l'opera di un poeta spesso oscuro, duro, difficile, tagliente, arido come un mucchio di pietre. C'è quasi un amore, c'è un' attrazione di Montale per l'inorganico: nell'inorganico finisce ogni fragile e sofferente forma dí vita. E poi Montale ha scritto forse le poesie italiane piú oscure di tutto il secolo (ce ne sono rnolte soprattutto nelle Occasioni e nella Bufera). Ed ecco che con Satura, nel 1971, questo poeta cambia: e ormai consapevole che la sua storia di poeta del momento, di poeta moderno e oscuro è finita. E diventato piú dassico. Moderno prima, fino alla Bufera e altro, e postmoderno dopo, a partire da Satura. 1 critici lo hanno studiato in tutti i modi. E lui comincia il suo nuovo libro proprio con questa parola. Dice: «I critici ... » Parte cioe dalla bibliografía critica su se stesso. Sembra che si rnetta di fronte alla «letteratura secondaria» per cambiare stile. «Satura»: il suo stile diventa «satirico», piú linearmente prosastico, colloquiale, un po' giomalistico, quasi domestico, come se parlasse fra amici. La crosta dura si e rotta e viene fuori un fiume di versi: tre libri in pochi anni (Satura, i successivi Diario del '71 e del '72, 1973, e Quaderno di quatto anni, 1977), quantitativamente più poesie di quante Montale ne avesse scritte nei primi decenni della sua attivita. Il poeta oscuro, avaro di parole, ora non risparrnia piú: spende tutto quello che ha. E conquista finalmente un pubblico di lettori piú largo. Nel 1975 riceve il premio Nobel.

Vediamo l'altro caso, quello di Sandro Penna. Da giovane i suoi versi, di una semplicità sorprendente, erano molto piaciuti sía a Montale che a Saba, poeti diversissimi; e in parte, forse, Penna li ha perfino influenzati. Ma come definire Penna? Il piú diffuso luogo comune su di luí e questo: Penna poeta fuori del tempo, estraneo e indifferente alla storia. Quasi un lírico greco (Saffo, Alceo, Anacreonte) che scrive in italiano ne] '900: 


Il mare è tutto azzurro.
Il mare è tutto calmo.
Nel cuore e quasi un urlo
di gioia. E tutto e calmo.

(1937)


C'è poi il personaggio: un omosessuale senza rivolte ne clamorosi gesti anti-sociali. Un uomo che, semplicemente, sta altrove, non vive nelle cose che gli uomini maturi considerano seriamente come cose importanti: la sua indifferenza —lo dice lui stesso, senza orgoglio n e angoscia— e quasi mostruosa. La sua poesía in superficie e chiara: mala singolarità della sua esperienza può renderla quasi incomprensibile. Inoltre e un poeta difficile da analizzare: non usa strumenti formali molto complicati.


È pur dolce il ritrovarsi
per contrada sconosciuta.
Un ragazzo con la tuta
ora passa accanto a te.
Tu ne pensi alla sua vita
-aquel deseo che l'aspetta.
E la stanca bicicletta
ch'egli posa accanto a sé.
Ma tu resti sulla strada
sconosciuta ed infinita.
Tu non chiedi alla tua vita
che restare ormai com'è.


                                         da: Tutte le poesie, (1970)


Per gli studiosi puo essere una disperazione: e come se Penna non avesse un passato letterario dietro di se: brucia tutta una tradizione, la riduce a pochissimi elementi e il risultato non somiglia a niente. Può far pensare a Metastasio, a Tasso, a D'Annunzio, a Leopardi, a Pascoli, a Saba. Ma, se si guarda bene, niente riesce a spiegare Penna. Si potrebbe dire che il suo senso della tradizione e inconscio, naturale, fisiologico. Come dice Montale: «non continua chi vuole la tradizione, machi puo, talara chi meno losa». E chiaro che quando un poeta cosí di venta importante, tutti i problemi della modernità impallidiscono. Un poeta che ignora la Storia, come potrebbe avere tracce di modernità? Con Penna diventa chiaro un fatto: che la lingua italiana, dopo aver fatto molti sforzi, a volte scolastici, per diventare «assolutamente moderna», per imparare da altre letterature la modernità, scopre di nuovo che la sua tradizione era ancora viva: piú viva in quei poeti che non avevano mai sentita la tradizione come un problema. Con una formula paradossale si potrebbe dire: alla fine del '900 toma qualcosa come una tradizione naturale del linguaggio poetico italiano. Toma non solo con Penna, ma anche con Attílio Bertolucci (che ha scritto un romanzo in versi, La camera da letto, 1984-88) e con Giorgio Caproni (che ha scritto moltissimo, anche lui, dopo i sessant'anni), con Carlo Betocchi (che ha scritto da vecchio i suoi capolavori: Ultimissime, 1974, e Poesie del sabato, 1980).

Cosí si potrebbe dire che la migliore poesia italiana degli ultimi due decenni e stata scritta non da autori giovani ma da quattro o cinque vecchi poetí (Betocchi, Luzi, Sereni, oltre che Bertolucci e Caproni), che hanno avuto una seconda giovinezza, e hanno cambiato la nostra idea del Novecento e della modernità. Aquesto forse si potrebbe anche dare il nome convenzionale di post-moderno. II piú originale autore di poesía delle generazioni piú giovani, Patrizia Cavalli, somiglia a Sandro Penna piú che a qualunque altro poeta precedente. E quindi da una strana «classicità di grado zero» che la poesia italiana sembra trovare una nuova vitalità.

La storia che volevo raccontare comunque non finisce qui. Infatti non ho ancora parlato di Giovanni Giudici (1924). Giudici e anche autore di un piccolo libro prezioso, intitolato Omaggio a Praga, pubblicato circa vent'anni fa, dove (con l'aiuto di Maria Zabranova) traduce alcune poesie, tutte particolannente belle, di Holan, Halas, Seifert, Kolar, Orten (la sua maggiore impresa come traduttore l'ha compiuta, ricordiamo, con L'Onieghin di Puskin). Giudici sembra avere delle affinita con questi poeti, o con le poesie che ha scelto. O (anche) credo che abbia imparato da loro e sia diventato, con il loro aiuto, piú sicuro di sé. Giudici recita sempre il personaggio dell'uomo modesto, un po' grigio, molto comune. Ma le sue ambizioni poetiche non sono affatto piccole. Poeta molto narrativo, teatrale, satírico, mimetico, Giudici comincia con questo procedimento: toglie enfasi, toglie aura drammatica e lírica alla poesia. La sua sembra essere, anche nell' angoscia, una vocazione comica: nei suoi libri (soprattutto il primo, La vita in versi, 1965) Giudici parla di se stesso come un «uomo medio»: è questa e una novità sia stilistica che sociologica. L'Italia neocapitalistica produceva per la prima volta una vasta middle dass di impiegati, di funzionari. E nei libri di Giudici, il poeta non e niente piú di questo: un elemento di una classe media urbana, con tutte le tipiche paure, frustrazioni, aspirazioni. Problemi di lavoro, famigli.a, casa in citta, un cane che soffre dentro le quattro mura, ricordi dell'educazione cattolica e delle piccoíe umiliazioni sociali sofferte da bambino e da giovane.

Ma è partendo da questa situazione che Giudici riprende alcune esperienze poetiche dell'inizio del '900 (Gozzano, Saba: poesia narrativa e realistica, ironica, patetica, che non ha paura della confessione diretta, anche autodistruttiva): riprende l'inizio di un altro tipo di modernità e rovescia il Novecento poetico italiano come si rovescia una camicia o una calza. Il suo linguaggio è molto vicino al parlato e alla prosa: ma usa spesso versi regolari, strofe, rime, con grande inventiva. Come lo dice il suo titolo, c'è la vita (proprio la sua) e ci sono i versi (costruzioni verbali artigianali, che riconosciamo per la loro rítmica simmetrica).

I1 fatto sorprendente è però che Giudici e andato molto al di là del suo punto di partenza: del suo personaggio comune e realistico —o meglio della vita reale di questo personaggio. Ha ricavato situazioni e toni stilistici molto vari, fino ai temí piú dassici della lirica: il tema della morte e quello dell'amore, che nei suoi versi (i piú abili della poesia italiana recente) hanno un suono del tutto nuovo: il suono della lírica provenzal e o del Minnesang, echi del Paradiso  di Dante (soprattutto nelle raccolte Lume dei tuoi misteri 1984; Salutz, 1986; Fortezza, 1990); il suono della lite famigliare e della discussione fra amanti, il tono lugubre e ipnotico di Giovanni Pascoli, la mancanza di pudore di Saba. Giudici ci dà quasi la dimostrazione di come il linguaggio poetico possa sopravvivere all' avvento della Classe Media: cadendo in basso, cadendo nelle forme linguistiche piú banali e non poetiche, ma senza perdere la nevrotica. (e sana) nostalgia di una antica musica, che a volte ci culla, nel dormiveglia, prima che affondiamo nel nulla.



Da: 50 Anni di Letteratura Italiana (1945-1995), Lezioni, settembre 1995


ALFONSO BERARDINELLI è nato a Roma nel 1943. Collaboratore di «Quaderni piacentini»; «Linea d'ombra»; «Micromega»; «Liberal». Nel 1985, insieme a Piergiorgio Bellocchio, ha fondato e diretto la rivista di critica Diario. Dal 1983 ha insegnato letteratura italiana contemporanea, come professore associato, presso l'Università di Venezia. Si è polemicamente dimesso nel 1995, in aperta critica con il sistema corporativo della cultura in Italia. Polemista colto e raffinato, ha fatto della "critica della cultura" il suo privilegiato campo d'azione. Residente a Tuscania, ha diretto dal 2007 al 2009 la collana Prosa e Poesia della casa editrice Libri Scheiwiller di Milano. Ha inoltre vinto il Premio Viareggio nel 2002, nella sezione Saggistica, così come il Premio Napoli e il Premio Cardarelli per la critica letteraria nel 2008.