La mia vita si appanna, e poi che piove
scelgo il passaggio sotto il tunnel dove
tutto è molliccio, ma però non piove.
Qui tra la gente solita, che muove
il passo verso le solite cose
anch’io mi muovo tra cose non nuove.
Più comune degli altri, non so dove
muove il mio passo stanco, che non vuole
tale apparire a se stesso ed altrove.
Quando a un tratto uno sguardo che sa dove
del mio corpo dirigersi e non vuole
mi sveglia in un baleno – ed è già altrove.
Invano io lo ricerco entro un antico
universo che mi era un giorno amico.
Quando più non pensavo a questa cosa
rintronò sotto il tunnel una gioiosa
voce che sovrastava ogni altra cosa.
Era un saluto postumo e lontano
postumo nel mio cuore, non lontano
nel tunnel più di un breve tratto umano.
Il treno tarderà di almeno un’ora.
L’acqua del mare si fa più turchina.
Sul muro calcinato il campanello
casalingo non suona. La panchina
di ferro scotta al sole. Le cicale
sono le sole padrone dell’ora.
Felice chi è diverso
essendo egli diverso.
Ma guai a chi è diverso
essendo egli comune.
Indi rivolto il viso verso il guanciale
sorrideva a se stesso, con beato
rossore.
E poi son solo. Resta
la dolce compagnia
di luminose ingenue bugie.
O Zelindo, non sa la tua notte
i miei pensieri. Nel sonno riassapori
i molti pasticcini. O forse ridi
ancora, lacrimando, per il buffo
del varietà.
Ho puntato la brama in ogni luogo.
Sotto la pioggia ho perduto il mio seme.
Ora si gonfia il fiume e in me fiorisce
– straripa il fiume – un desiderio nuovo.
Forse la lenta tua malinconia si perde
se nella notte ad un veloce
treno l’affidi.
Poi fu una cosa povera, avvilita,
nascosta da una mano, il segno della vita.
Lascia l’orinatoio il giovanotto
col membro ancora fuori: negligenza
adorabile in lui che giunto è appena
a un paese di mare a mezza estate.
Non è la costruzione il lieto dono
della natura. Un fiore chiama l’altro.
Tu mi lasci. Tu dici «la natura…».
Cosa sanno le donne della tua bellezza.
famiglia: padre madre indi un fratello
una mite sorella senza ciglia.
Ma già un lupetto dagli occhi di agnello…
il mio ragazzo. E odora di mammina.
Un vecchio sconosciuto a noi s’accosta:
gli regala uno specchio e noi saluta.
il fiume. Addio secco vigore della mia gioventù.
che abbaia di lontano.
Di giorno è solo il cane
che ti lecca la mano.
se tenerezza cose nuove dètta.
di superiorità.
Solo uno sguardo io vidi
degno di questa. Era
un bambino annoiato in una festa.
per il mio gesto vile
pareva senza asprezza
dorata dal tuo stile.
o giovine che ondeggi
calmo nella città notturna.
Se ti fermi in un angolo, lontano
io resterò, lontano
dalla tua pace, – o ardente
solitudine mia.
Il poetico nudo della leva
militare nel tuo cuore ardeva
più che la Venere Botticelliana.
socchiudevano gli occhi come fanno i gatti.
castità offre alla sposa.
un poco stanco e molto interessato
alle cose dell’autobus. Pensa
– con quella luce che viene dai sensi
dai sensi ancora appena appena tocca –
in quanti modi adoperar si possa
una cosa ch’è nuova e già non tiene
se inavvertito ogni tanto egli tocca.
Poi si accorge di me. E raffreddato
si soffia il cuore fra due grosse mani.
Io devo scendere ed è forse un bene.
oh non amai solo la scorza.
Ma proprio la dolcezza ch’è sperduta
fra le montagne della forza.
nel negozio dove io ero entrato
sulla soglia da dove egli usciva
è rimasto talmente incantato
con gli occhi tonti ferma la saliva
che il più grande gli fece: Hai rubato?
Poi ne ridemmo insieme tutti e tre
ognuno all’altro tacendo un perché
uniti da quell’ultimo perché
che lecito sembrava a tutti e tre.
L’ozio che è il padre dei miei sogni guarda
i miei vizi coi suoi occhi leggeri.
Qualcuno che era in me ma me non guarda
bagna e si mostra negligente: appare
d’un tratto un treno coi suoi passeggeri
attoniti e ridenti: ed è già ieri.
di nuove sensazioni in me sorprende.
Ma l’amore è perduto.
E la pena riprende.
avevo corso tutta la città.
Gonfio di cibo e d’imbecillità
tranquillo te ne andavi dagli amici.
Ma Sandro Penna è intriso di una strana
gioia di vivere anche nel dolore.
Di se stesso e di te, con tanto amore,
stringe una sola età – e te allontana.
Solo così forse mi calmerei.
le nostre gioie, con le nostre pene.
Tormentami se vuoi, ma fammi forte.
te scomparso del tutto dai miei occhi,
perché restava in me tanto fervore
ch’io posavo ogni giorno in altri occhi?
Rimase in me di te forse una scia
di pura gioventù se tu scomparso
dalla mia scena la malinconia
restava come neve al sol di marzo?
e sporche mani un odore di arance
al quieto sole della festa arde
nell’aria come qualcosa che piange.
nel mortale mattino, che da sempre…»
Il verso dell’amico si era imposto
da qualche giorno. Il fiume, come un olio
lucido e calmo nello stanco agosto…
Forse mia madre era perduta. Solo
lucido e calmo mi era intorno, specchio
a quello specchio nell’ampio silenzio,
quegli che poi doveva il mio silenzio
– già triste come di un lontano assenzio –
rompere con tanto mio consenso…
(Il suo odore, la sera, come un cane
sporco e fedele dopo le campane).
Notte d’inverno, la tua dolce boria
fa lontana, fa buffa questa storia.
grassa di assenti rumori lontani
nella mia età di mezzo (né giovane né vecchia)
nella stagione incerta, nell’ora più chiara
cosa venivo io a fare con voi sassi e barattoli vuoti?
L’amore era lontano o era in ogni cosa?
che guarda calma tramontare l’anno.
Mentre i treni si affannano si affannano
a quei fuochi stranissimi ella sorride.
non fu mai così bella
come quando nel gonfio orinatoio
dell’alba amò l’insonne sentinella.
o meglio sconosciuto, senza pari
fra gli altri animali, unica terra
la tua forma casuale quanto amai.
sui prati e nel cielo l’azzurro
verrà pure il momento
in cui la sola luce
sarà negli occhi del fanciullo amico.
nella gaia città, dove un fanciullo accorre
se passa una fanfara. Dove le chiese
dimenticano i fedeli, e nelle aiuole
dormono abbandonate biciclette.
in questa cameretta mia borghese
fra la città severa che non sa
niente di tutte queste tue bellezze.
perenne amare i sensi e non pentirsi.
ci separò d’un tratto la mattina.
ha intorno a sé colori ch’io non vedo.
Ha la mia vita intorno a sé colori
che io non vedo.
Credevo di soffrire ed ascoltavo
i fanciulli voler baciare un cane.
Rispondeva un guaito, – e una risata
spavalda mi faceva ancor più triste.
Tutto poi si perdeva nella luce
ed il bacio mi stava ad ascoltare.
Da: Poesie. Scelte e raccolte dall’Autore nel 1973 (Mondadori 2019)
SANDRO PENNA (Perugia, 12 giugno 1906 – Roma, 21 gennaio 1977) è stato un poeta italiano. Inizia a scrivere poesia sul finire degli anni Venti del Novecento e nel 1929 conosce Umberto Saba a Roma e poi negli anni molti altri intellettuali come Carlo Emilio Gadda, Cesare Pavese e Pier Paolo Pasolini. Nel 1939 pubblica la sua prima raccolta di versi e nel 1957 vince il Premio Viareggio per la raccolta Poesie, pubblicata nel 1956. Con Stranezze nel 1977 vince il Premio Bagutta. Ha pubblicato vari libri di poesia, tra i quali: Poesie, Firenze, Parenti, 1939; Appunti, Milano, Edizioni della meridiana, 1950; Una strana gioia di vivere, Milano, All'insegna del pesce d'oro, 1956; Poesie, Milano, Garzanti, 1957; Croce e delizia, Milano, Longanesi, 1958; Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 1970 (dal 1989 edito come Poesie con prefazione di Cesare Garboli); L'ombra e la luna. Sette poesie, Milano, Vanni Scheiwiller, 1975. (con sette acqueforti di Cristiana Isoleri); Stranezze (1957-1976), Milano, Garzanti, 1976; Segreti, a cura di Enzo Giannelli, Roma, Don Chisciotte, 1977; Il viaggiatore insonne, a cura di Natalia Ginzburg e Giovanni Raboni, Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani, 1977.